La politica dovrebbe considerare una fortuna gli interventi della magistratura. E non provare fastidio per presunte invasioni di campo che la sua ormai annosa inefficienza spesso obbliga i giudici a compiere.
Chi mi conosce sa che il mio impegno, di vecchio giornalista in pensione, è quotidianamente rivolto ad una cronaca di tangentopoli, iniziata nel 1992 e che dubito seriamente di poter concludere. Per me è diventato una specie di hobby.
Tangentopoli ormai ha compiuto 23 anni e si è trasformata in qualche cosa di diverso rispetto all’inizio, peggiore senza dubbio alcuno. Quel che sta avvenendo in questi giorni è terribile, mortificante, disperante. I giornali sono lì a dimostrarlo.
A qualcuno, incuriosito per questo mio interesse (nel mio entourage familiare lo definiscono mania), capita di pormi la domanda: ma tu sei giustizialista o garantista? La cosa, lo confesso, mi infastidisce.
Sono un democratico, credo nella nostra Costituzione repubblicana, rispetto il processo penale nei suoi vari gradi, non mi rallegro certo quando uno finisce in carcere né tanto meno quando ci finisce ingiustamente, ma sempre più spesso mi capita di dovere ringraziare pubblicamente i magistrati che, dal 1992 sino ai giorni nostri, hanno avuto il coraggio:
di scoperchiare il malaffare che imprigiona la politica;
di combattere la mafia al punto di sacrificare anche la propria vita; di tentare di bonificare la vita civile di un paese che rischia di essere strangolato dalla corruzione.
I Francesco Saverio Borrelli, i Gerardo D’Ambrosio, i Gherardo Colombo, le Ilde Boccassini, i Francesco Greco, i Piercamillo Davigo, gli Antonio Di Pietro, i Raffaele Cantone per non dire dei Caponnetto, dei Giovanni Falcone, dei Paolo Borsellino, dei Rosario Livatino, dei Giancarlo Caselli e di tanti altri, hanno dei meriti enormi. Pensate cosa sarebbe questo nostro Paese se loro fossero rimasti con le mani in mano, se non si fossero mossi, se avessero lasciato fare. Se si fossero comportati, cioè, come la politica, che sembra non avere imparato la lezione né della Tangentopoli del ’92, né di quella del malaffare più recente, legata agli scandali del Mose, dell’Expo, dei terremoti sia quello dell’Aquila che di quello dell’Emilia Romagna, del Ministero delle Infrastrutture, di Roma capitale. E l’elenco potrebbe continuare.
La corruzione è diventata una emergenza. Ha un costo enorme e non solo in termini monetari . In qualsiasi crono- programma dovrebbe essere messa al primo posto, altro che jobs act. E dovrebbe essere preceduta da una riforma che non costa nulla, fatta solo di parole semplici, nette e chiare. Potrebbe essere varata rapidamente e rapidamente andrebbeapplicata a vari settori dell’apparato pubblico, quello dei Ministeri, del Parlamento, delle Regioni e dei Comuni. E’ nei quartieri alti della burocrazia ( ministeriale e non ) che va imposto un processo di profonda rottamazione e di energico cambiamento. Senza guardare in faccia a nessuno. E fissare codici di comportamento spietati. Chi traffica, paga. Colpire i grandi corrotti per avvisare anche quelli piccoli, i furbi e i mascalzoni che vivacchiano ai piani bassi della scala gerarchica.
Regole nuove dovrebbero anche stare alla base dei criteri di scelta degli eletti, parlamentari, consiglieri regionali e comunali. In quei posti dovrebbe andare solo chi è disposto ad impegnarsi nell’interesse della gente e non del proprio. In maniera assoluta. Questa si che sarebbe una svolta epocale capace di impedire che la magistratura arrivi regolarmente prima della politica dei partiti. Se ogni volta che scoppia uno scandalo, e dal 1992 ce ne sono stanti tanti, la politica si sorprende, significa che qualcosa con funzione, ma nella politica, non certo in chi ha il merito enorme di portare alla luce il peggio del paese. E di combatterlo con i mezzi che lo Stato gli ha affidato.
Certo, anche in magistratura andrebbe fatta pulizia: pure lì ci sono mele marce. Vanno eliminate. Il problema di fondo sono i processi: troppo lunghi. Ma qui bisogna mettere mano a leggi, a modifiche profonde ai codici, evitare che chi ha i soldi se la cavi sempre con la prescrizione del reato per decorrenza dei termini. La giustizia deve essere unica, uguale per tutti, ricchi e poveri.
Le cose da fare sarebbero tante. E invece chi comanda preferisce lanciare appelli spesso senza senso. A lavorare di più, ad esempio. Esortazioni che acquistano oggettivamente uno sgradevole sapore di minaccia e di discredito da parte di uno Stato che, d’altro canto, non riesce a fornire i mezzi necessari per il corretto esercizio di un potere costituzionale insostituibile.
In questi giorni compio 81 anni, non sono di primo pelo. Ricordo i miei esordi di giornalista negli anni 50. Ero il redattore responsabile del settimanale della Federazione comunista di Mantova. Ed ebbi in tale veste un sacco di guai giudiziari, tutti per diffamazione a mezzo stampa. Allora dare dello sfruttatore ad un industriale, era passibile di denuncia, alla quale seguiva il processo. Ne ho subiti tanti, il messo giudiziario era di casa, e i miei vicini probabilmente pensavano che tali frequenti visite fossero collegate a cambiali non pagate. Invece si trattava di procedimenti per presunta diffamazione. Nel corso di queste mie convocazioni in Tribunale mi capitava spesso di assistere a qualche processo a carico di altri. Mi ricordo quello di un furto di polli, imputato un anziano contadino, analfabeta. Il presidente era un magistrato meridionale che voleva sapere di che colore fossero le galline (pennuti, lui le chiamava) che i carabinieri avevano trovato in casa del mariuolo. L’imputato, in stretto dialetto mantovano, cominciò una comica e impacciata descrizione, divertente per chi era del posto, completamente incomprensibile ed irritante per il presidente. Il quale ad un cero punto sbottò con tono minaccioso: “ Le ordino di parlare in italiano ! “. Impresa impossibile per quel poveraccio. Che non aveva nemmeno uno straccio di avvocato. Nemmeno quello d’ufficio, in quel momento assente. Sembra una barzelletta eppure per me sta indicare un periodo in cui la giustizia era amministrata da magistrati ben diversi dagli attuali. Che sono nettamente migliori e non solo perché capiscono anche il dialetto stretto dei mafiosi ma perché hanno un atteggiamento più umano, meno altezzoso e in genere un forte impegno sociale
La politica dovrebbe tenerne conto, considerarla una fortuna. E non provare fastidio per presunte invasioni di campo che la sua ormai annosa inefficienza spesso obbliga i giudici a compiere.