Il mondo visto dai conservatori e dai progressisti,
il sogno collettivo in cui credere e la capacità di raccontarlo
Riceviamo e pubblichiamo
Quando tra fine ‘800 e primi del ‘900 nelle cascine della pianura lombarda o nei latifondi pugliesi o siciliani si affacciavano quelle idee che oggi comunemente attribuiamo al campo progressista non vi è dubbio che la loro strada era tutta in salita. Non parliamo della preistoria, ma solo dell'infanzia dei nostri nonni, un'infanzia in paesi in cui tutto era di proprietà di pochi: la casa in cui si abitava, le terre e poi le fabbriche in cui si lavorava. Non c'erano diritti e non c'era una possibilità di scelta all'orizzonte, il destino sembrava fatalmente segnato sulla traccia di un'esistenza che si ripeteva da generazioni in cui i ricchi erano ricchi da generazioni e i poveri al servizio.
Ci sono volute grandi visioni, dure lotte e tante vite perché concetti come l'uguaglianza tra gli uomini, il diritto alla casa, il diritto a dare un'istruzione ai propri figli, la libertà di scegliere il proprio lavoro, il proprio destino diventassero così tanto patrimonio di tutti da perdere forse connotazione e valore.
Forse occorre partire da qui per capire che la Politica non può che essere il confronto duro e serrato tra narrazioni opposte, quali siano state queste narrazioni nel nostro recente passato lo spiega meglio un grande affresco come Novecento di Bertolucci che intere pagine di saggistica,
Oggi nel campo conservatore italiano, un campo con una forte connotazione populista, la grande narrazione che da oltre trent'anni ha forza egemonica racconta valori come la furbizia, l'arroganza, l'arrivar primi, lo sconfiggere gli altri. E’ una narrazione egoista, consumista e quantitativa ed è una narrazione molto, maschile.
In questa narrazione sono i numeri che contano perché i numeri non si discutono, conta la quantità, chi ha di più, chi è più veloce, chi produce di più, chi arriva prima e gli altri sono nemici da battere, da abbattere. La vita è una gara, conta solo la classifica, l'importante è vincere non partecipare.
È prevista un po' di compassionevolezza, la decima per i poveri, la filantropia, ma non è previsto che le cose cambino perché la base è la natura e in natura vince il più forte.
In questo universo quantitativo consumare è un'attività qualificante, è il mondo dell'avere: avere di più, comprare di più, buttare di più, comprare cose più nuove, più grandi.
A questa grande narrazione, che ha un suo fascino e una sua forza pervasiva che non va presa per nulla alla leggera con snobistico disprezzo, da troppo tempo non è in campo una grande narrazione alternativa che necessariamente è collettiva, cooperativa, qualitativa e molto femminile.
Racconta che la ragione non sta sempre col più forte, che come la storia dei sapiens sapiens dimostra, un animale senza artigli né fauci, senza stazza né velocità può dominare gli altri con le creazioni della sua mente, racconta che le risorse del pianeta sono finite, le nostre risorse fisiche e psicologiche sono finite e conta non tanto quanto le usiamo ma come le usiamo, a volte non basta arrivare primi, bisogna arrivare nelle condizioni adatte, nel tempo necessario perché queste condizioni ci siano. È un racconto fortemente femminile se è vero che antropologicamente nel maschile risiede l'istinto della caccia che è colpire la preda, lanciare più lontano, correre più veloce, arrivare prima, nel femminile quello della raccolta che è costruire gruppo, moltiplicare gli occhi che trovano gli oggetti nel bosco, proteggersi a vicenda, manipolare la natura trasformando ciò che non è commestibile in commestibile, in pratica sfruttare meglio le risorse a disposizione.
Il mondo che questa narrazione descrive è un mondo in cui ognuno lavora meglio perché ha più possibilità di fare ciò che desidera e quindi pur lavorando meno dà di più, un di più non quantitativo ma qualitativo, cioè un lavoro migliore, più utile e la qualità media migliora pari passo con il miglioramento della qualità della vita di ciascuno.
È un mondo in cui si consuma meno suolo, si costruisce meglio, un mondo in cui si consuma meno energia e la si utilizza meglio, un mondo in cui la creatività non è sovrastruttura o intrattenimento ma è la capacità di pensare un modo nuovo per fare le cose che le renda più efficaci, più economiche, che è alla base di ogni grande invenzione, un po' come cercare la rotta più breve per l'India e incrociare lungo la strada il nuovo mondo.
Si tratta di lasciarsi alle spalle il paradigma della roba, la reificazione del mondo, l’oggettivizzazione della realtà e della vita. Raccontarne la soggettività, l’essenza mutante, immateriale, il senso sfuggente. Le grandi culture religiose e i movimenti di liberazione raccontano con parole diverse una storia comune che è fatta di persone e non di cose, di persone liberate dal vincolo economico e psicologico del bisogno reale o indotto, dell’attaccamento alla materia, della materia come solo misura dell’esistenza, fredda e dogmatica, priva di sfaccettature, di penombre, e priva di spazi di trasformazione, povera di futuro.
Quando alle porte di quelle cascine lombarde o nei pomeriggi assolati in quei latifondi del mezzogiorno qualcuno provava a raccontare le sue visioni eretiche, che fossero socialiste o cattoliche, quello che destavano era comunque un misto di incredulità e paura, incredulità che le cose potessero cambiare, paura di desiderare qualche cosa di diverso e della violenza con cui il potere costituito poteva rispondere e rispondeva a quei desideri.
Ma l'essenza del mondo è il divenire, la trasformazione è insita nelle cose, noi stessi non siamo la stessa materia di quando ci alziamo al mattino e tra quando nasciamo e quando moriamo di norma non vi è quasi più nulla di uguale in noi. Nulla si crea, nulla si distrugge ma tutto si trasforma. Le cose cambiano e siamo noi continuando a guardarle dalla nostra statica visuale non riusciamo troppo spesso a vederle nel loro dinamismo.
Oggi provare a rendere maggioritaria e popolare una narrazione qualitativa operativa e femminile può sembrare un'impresa guardandosi intorno, eppure i grandi cambiamenti nel campo dell'energia, dei consumi, dell'industria culturale, delle mode, spingono tutti da qualche anno in questa direzione.
Eppure nelle scelte dei pubblicitari, nello stesso mondo della comunicazione, che sempre più determina più che raccontare gli eventi a posteriori, da un po’ di tempo soffia un vento nuovo.
E gli strumenti della comunicazione permettono sempre più la relazione, scommettono sempre più sulla condivisione, sul molto a molti, sulla cooperazione. Le reti sociali sono intimamente, filosoficamente diverse dai tradizionali canali che da un centro trasmettevano messaggi in ogni punto, come comunque giornali, tv e radio sono sempre stati. Oggi ogni punto trasmette e riceve, il messaggio è un messaggio collettivo. La rete è un insieme di nodi senza un preciso capo ne una coda, il che la rende ambigua e affascinante.
Per iniziare e insieme continuare con nuove forme e nuove voci il grande racconto della libertà servono interpreti, servono organizzazioni in grado di intercettare le energie, ma soprattutto serve la capacità di tornare a raccontare il punto di arrivo, serve un'utopia realizzabile verso cui guardare, un sogno collettivo in cui credere e la capacità di raccontarlo. Serve ricordarsi che in ogni piccola battaglia si tratta di saper declinare alla singola realtà questo grande, complessivo, quadro di riferimento. La narrazione della liberazione di ogni uomo e dell'umanità nel suo complesso dal giogo della forza bruta, dai vincoli della natura è la storia di un cammino ancora tutto da percorrere, di grande attualità, un racconto che può affascinare e muovere le coscienze e i cuori delle persone.