Rileggere il passato è sempre utile per allargare il proprio sguardo sulle cose attuali.
Mi capita spesso di citare il grande economista del novecento Joseph A. Schumpeter, e in particolare il suo apporto agli studi sull’imprenditorialità e sulla “distruzione creativa” che caratterizza l’innovazione e che è alla base del progresso economico.
Sapevo che, nonostante ciò, egli aveva una visione del futuro nella quale lo spirito imprenditoriale, e con esso il capitalismo, avrebbero ceduto il passo al socialismo.
Per capirne di più, ho preso in mano il suo “Capitalismo, socialismo, democrazia”, pubblicato nel 1954, cioè dopo la fine della seconda guerra mondiale. Come sempre accade, un libro eccellente consente di guardare molto oltre il suo contenuto specifico, si tratti di un romanzo, di un testo di storia o di un saggio scientifico o letterario.
L’idea di Schumpeter era questa: L’imprenditore, anima del capitalismo basato sulla concorrenza imperfetta (quella perfetta non è mai esistita), era destinato a scomparire o ad essere emarginato. Oramai il quadro economico era dominato da monopoli o oligopoli, che egli chiamava “big business”. Incredibilmente per noi, che viviamo l’epoca della rivoluzione informatica, egli pensava che ormai il tempo delle grandi invenzioni e innovazioni fosse finito, e che nel futuro ci sarebbero stati solo dei piccoli perfezionamenti1. Siccome l’economia capitalista prosperava con l’innovazione, in mancanza di questa le prospettive di profitto tendevano a zero. Quanto ai consumatori, ormai potevano disporre di quasi tutto ciò che gli serviva (!). In questo scenario, il passaggio a un sistema socialista sarebbe avvenuto o spontaneamente (se il capitalismo avesse già tirato le cuoia) o con un certo costo in termini di scontri cruenti, ma vincenti, contro gli ultimi difensori del capitalismo.
Il suo scenario non differiva molto da quello preconizzato dall’economista Karl Marx.
Ma quello che è interessante è che egli scriveva negli USA, e si riferiva alla situazione di questo paese e dell’Europa, sia pure con uno sguardo verso ciò che accadeva in URSS.
E allora non erano solo Marx e Schumpeter a immaginare questo futuro, ma molti altri. Durante la guerra ero un ragazzino e ricordo ancora uno stornello romanesco di propaganda fascista: “Nell’urtime notizie avrete letto, ch’è ritornato ar monno er Sor Capanna, pe’ ffa quattro stornelli pe’ dispetto, a Ciamberlaine (Chamberlin, ministro degli esteri britannico) e alla Sora Marianna (la Francia). Ciamberlaine è rimbambito lei è più vecchia der marito, nun è ‘na balla, glie’ ce vo’ la piluccia d’acqua calla”.
Che le potenze occidentali, e con loro il capitalismo, fossero sulla via del tramonto era opinione comune. Schumpeter, che assisteva ai successi del comunismo sovietico e al diffondersi della socialdemocrazia in Europa, immaginava un passaggio dal capitalismo al socialismo (non al comunismo) indolore o quasi. E siccome credeva fermamente nella necessità di una classe dirigente che esercitasse la leadership e provvedesse alla “disciplina” delle masse, pensava che la classe manageriale (borghese) si sarebbe convertita al socialismo senza problemi. I lavoratori avrebbero accettato ciò di buon grado, perché non avrebbero più lavorato per il profitto del capitalista ma per la collettività, e quindi tutto sarebbe andato a posto. Era convinto che si sarebbe andati verso una burocratizzazione generale, ma non ne vide gli effetti perversi, come non vide le diseconomie di scala.
Riteneva inoltre perfettamente compatibile un sistema economico centralizzato con un regime democratico. E ciò in base a una ingenua convinzione: che la politica fosse indipendente dall’economia, e che la competizione politica potesse convivere con il dirigismo economico (in questo differiva radicalmente da Marx. che considerava il governo borghese come il comitato d’affari dei capitalisti).
Oggi tutto ciò ci sembra assurdo. Ma se si guarda in prospettiva, questa visione ha caratterizzato un modo di pensare comune fino agli anni sessanta. In quegli anni non solo in URSS si facevano ancora i piani pluriennali, ma anche in occidente lo facevano sia gli stati che il “big business”, nella convinzione che tutto potesse essere da cervelloni centrali.
Poi, negli anni sessanta, è arrivato il computer (all’inizio mitizzato proprio come strumento di pianificazione globale)2. Poi il sessantotto. Poi la crisi del petrolio del 1974 e il successo dello slogan di Ernst F. Schumaker (che strana quasi omonimia!) “small is beautiful”. Poi il crollo della grande industria soprattutto in Italia, e il ritorno dell’imprenditorialità (senza la quale saremmo tutti morti). Poi l’occidente ha finito di essere “il mondo”, con “il resto del mondo” oggetto di politica e di sfruttamento da parte del primo, come pensava Schumpeter e non solo.
Rileggere il passato è sempre utile per allargare il proprio sguardo sulle cose attuali. E a questo proposito suggerisco a chi si interessa di storia economica la lettura del libro che ho interrotto per tornare a Schumpeter: “L’invenzione dell’economia” di Serge Latouche, inventore della decrescita (Bollati Boringhieri, Torino, 2010).
1 A fine ottocento Lord Kelvin, inventore e Presidente della British Royal Society, la massima organizzazione scientifica della Gran Bretagna, oltre a sostenere che “macchine volanti più pesanti dell’aria sono impossibili”, riteneva fermamente che tutte le scoperte e invenzioni essenziali per l’umanità fossero già state fatte. Evidentemente molti pensavano così anche a novecento inoltrato.
2 T. G. Watson, presidente della IBM quando il computer era agli albori, affermava: “Io credo che nel mondo ci sia spazio per circa cinque computer”. Ancora nel 1977 Ken Olson, Presidente della DEC, affermava: “Non vedo alcuna ragione perché ogni persona tenga a casa propria un computer”.