Secondo il riduzionismo metodologico i nostri comportamenti, compresi quelli morali, sarebbero riducibili o riconducibili ad espedienti, determinati geneticamente, che hanno avuto successo nel corso dell’evoluzione della specie Homo sapiens
Riceviamo e pubblichiamo
Nel corso degli ultimi 30 anni, nell’ambito della riflessione epistemologica della scienza, sono emerse posizioni riconducibili al cosiddetto riduzionismo metodologico, cioè a quell’approccio scientifico che analizza la complessità, il tutto “frantumandolo” negli elementi e nelle parti che lo costituiscono. Tale approccio consente di ridurre la spiegazione delle cose complesse e complicate ad affermazioni riguardanti le loro componenti elementari, portandola agli estremi; esso pertanto riduce: la psiche umana alla biochimica integrata, la biochimica alle strutture molecolari, la struttura molecolare alla fisica atomica e cosi via. Il riduzionismo ha investito anche la dimensione della morale e dell’etica, con studi finalizzati a verificare se sia possibile e in che misura, comprendere e spiegare i comportamenti etico-sociali e i giudizi morali individuali, alla luce di basi biologiche ad essi correlabili.
Secondo questa visione anche i nostri comportamenti, compresi quelli morali, sarebbero riducibili o riconducibili ad espedienti, determinati geneticamente, che hanno avuto successo nel corso dell’evoluzione della specie Homo sapiens. Infatti, dal punto di vista darwiniano anche la coscienza umana si può considerare come il culmine di una tendenza evolutiva verso l’emancipazione degli esseri umani. È questo il punto di vista dell’etica evoluzionista secondo cui anche la morale è un prodotto dell’evoluzione; qui non si tratta di affermare semplicemente che la socialità in genere è un tale prodotto, ma che lo stesso senso del bene, del male e del “dovere” sarebbe il frutto dell’evoluzione come prodotto finale della selezione naturale. In questo senso l’altruismo, che rappresenta la caratteristica saliente della morale che agisce al di là dei propri interessi personali, sarebbe stato un “carattere” selezionato dalla storia naturale della propria specie.
Di grande interesse in quest’ottica è la scoperta nei primati superiori e nell’uomo del sistema dei neuroni a specchio scoperti da Giacomo Rizzolatti, che vengono attivati non solo nell'esecutore di un’ l'azione, ma anche nell'osservatore della medesima azione. La loro scoperta ha aperto nuovi orizzonti interpretativi sulle basi neurali del comportamento sociale degli individui.
Il meccanismo della comprensione di azioni compiute dagli altri è stato estremamente utile per ampliare il campo di indagine. Gli stessi scopritori dei neuroni a specchio hanno dichiarato che proprio la comprensione delle loro caratteristiche di attivazione diretta e pre-riflessiva determina intorno agli individui l'esistenza di uno spazio d'azione condiviso da altri individui, per cui si originano forme di interazione sempre più elaborate. In campo evolutivo evidentemente la formazione di questa capacità di interazione è avvenuta contemporaneamente all'interno dell'organismo biologico come al suo esterno, e questo ci aiuterebbe a capire dove indirizzare le ricerche future, dato che proprio le interazioni si basano su sistemi di neuroni specchio sempre più complessi, articolati e differenziati man mano che li si studia. Dallo studio di questi sistemi neuronali è emerso in altri termini che essi possono fornire una base neurale per predire, in un altro individuo, le azioni susseguenti ad un comportamento dato e l'intenzione che ne sta all'origine. Sebbene tale campo di indagine sia ancora aperto ed in pieno fermento, la capacità di parti del cervello umano di attivarsi alla percezione delle emozioni altrui, espresse con moti del volto, gesti e suoni, la capacità di codificare istantaneamente questa percezione in termini "viscero-motori", rende ogni individuo in grado di agire in base a un meccanismo neurale per ottenere quella che gli scopritori chiamano "partecipazione empatica". Dunque un comportamento bio-sociale, ad un livello che precede la comunicazione linguistica, il quale caratterizza e soprattutto orienta le relazioni inter-individuali, che sono poi alla base dell'intero comportamento sociale.
Non si tratta soltanto dell’altruismo biologico il cui comportamento è necessariamente stabilito dal patrimonio genetico (la formica e l’ape operaia), ma di un altruismo “etico-sociale”, che deve presumere la conoscenza dei valori etici ed una giustificazione non egoistica alla scelta che ciascuno compie. E’ utile anche considerare l’importanza educativa dello stile e del comportamento prosociale che è definibile in termini di “azioni dirette ad aiutare o beneficiare un’altra persona o gruppo di persone, senza aspettarsi ricompense esterne” (Mussen ed Eisenberg, 1985). Il comportamento sociale è un ampio contenitore che comprende il mettere in atto azioni di aiuto, collaborazione, altruismo, interessamento agli altri, donazione, empatia, compassione, divisione dei beni, gentilezza e comprensione degli altri. Ricordando l’esempio di Madre Teresa si può affermare che un tale altruismo si rivela assolutamente utile anche alla sopravvivenza della specie, che in assenza di cooperazione, sarebbe già scomparsa da tempo. Non c’è dubbio che lo studio di possibili determinanti biologiche del comportamento morale umano sia stato a lungo frenato da usi prevalentemente ideologici del darwinismo. Se, come affermava il grande genetista Theodosius Dobzhansky, «in biologia nulla ha senso senza la teoria dell’evoluzione», un accostamento della morale umana all’evoluzione biologica, come quello suggerito dal titolo, evoca alla mente spettri ideologici che non sono ancora del tutto svaniti. Primo tra tutti quello del cosiddetto “darwinismo sociale”, una concezione che esalta una sfrenata competizione tra esseri umani e nazioni a scapito della cooperazione, e che giustifica politiche economiche prive di solidarietà in nome del “diritto del più forte”. Secondo la vulgata del darwinismo che sta dietro a queste concezioni, tale diritto sarebbe il motore primo dell’evoluzione biologica e del “progresso” verso una maggiore complessità, e troverebbe la sua base e la sua giustificazione proprio nella lunga storia del regno animale e nell’inesorabile lotta per la vita che ne ha accompagnato il percorso. L’applicazione al mondo umano di questa interpretazione distorta della teoria dell’evoluzione darwiniana serve allora a difendere una concezione antiegalitaria. In poche parole, il darwinismo sociale sostiene che poiché è “una legge naturale” che il pesce grande mangia quello piccolo, chi ha più successo sociale deve godere di maggiori diritti rispetto al più debole, o quantomeno non ha alcun obbligo di solidarietà verso quest’ultimo. La giustificazione di queste concezioni politiche e morali è di tipo naturalistico, e si basa su un appello alla legge del più forte che in passato ha sfruttato, illegittimamente, anche infondate e fuorvianti considerazioni di tipo pseudogenetico lontane dal vero significato della genetica: in particolare, la riproduzione di coloro che occupano ora i gradini più bassi della scala sociale nel mondo peggiorerebbe in futuro il livello intellettivo futuro medio dell’umanità, dato che la povertà è solo dovuta a mancanza di capacità e di talenti; da qui deriva l’assunto che aiutare il povero o l’oppresso attraverso la redistribuzione del reddito non rende alcun vantaggio al progresso intellettuale dell’umanità; come si comprende bene, da qui all’eugenetica razzista del nazismo il passo è breve. Nella storia evolutiva non è presente solo l’elemento competitivo; tra le qualità che distinguono la specie umana dalle altre c'e un’innata tendenza alla cooperazione. Potrebbe non risultare evidente per via di tutte le guerre, gli scontri e i conflitti di cui sono piene le cronache, ma siamo davvero capaci di andare d'accordo e lavorare anche con perfetti estranei. I biologi si chiedono da circa un secolo come questa cooperazione ad ampio raggio possa essersi evoluta, specie tra individui geneticamente non collegati. Ciò che è chiaro è che questo comportamento ha origine da istinti molto profondi.
Nel linguaggio della psicologia sociale si parla di “forte reciprocità”, in riferimento alla volontà di cooperare e alla volontà di punire chi non coopera, anche se ciò non comporta alcun vantaggio. Ed esiste una interessante teoria sul perché ci comportiamo cosi, che riguarda il modo in cui la cooperazione può avere avuto un ruolo chiave già nei gruppi ancestrali umani di 10.000 anni fa. Nelle interazioni fra individui, è naturale supporre che le persone guidate dall'interesse personale tendano a uscire vincitrici, perché non sprecano mai risorse a favore degli altri senza ottenere qualcosa in cambio; ma è anche naturale supporre che quando gruppi vicini vanno in competizione, quello con il più alto tasso di altruisti sarà avvantaggiato, perché saprà meglio preparare una strategia comune, rispetto a un gruppo composto da individui egoisti.
Porre però l’attenzione selettivamente sugli aspetti cooperativi, indubbiamente assai diffusi nel regno animale, può portare a compiere l’errore esattamente opposto: quello di utilizzare l’evoluzione biologica per sostenere una impostazione etica volta, specularmente, non “ all’ homo homini lupus” alle zanne e agli artigli grondanti di sangue”, ma alla cooperazione, all’amore e alla solidarietà. E in effetti, dei vari modi per attaccare il darwinismo sociale, il più efficace sembrerebbe anche escludere che una qualunque considerazione di carattere biologico, evoluzionistico o naturalistico possa avere “sensu latu” rilevanza per la morale o l’etica umana. Mi riferisco al “principio ghigliottina” di David Hume (A Treatise of Human Nature (1739), a cura di LA Selby-Bigge, (2a ed. riveduta da PH Nidditch University Press Oxford 1978 p. 203), in base al quale non si può mai derivare “un deve” – che introduce un imperativo morale o una norma – da un “è”, che invece descrive un fatto. Applichiamo ora al nostro caso il principio di Hume: ammesso che la legge dell’evoluzione biologica consista nella competizione egoistica per cibo, risorse e partner sessuali, essa al più descrive un fatto assai complesso, o una serie di fatti, che attengono alla storia evolutiva delle specie, anche quelle più vicine alle nostre. Da questa descrizione, tuttavia, non segue in alcun modo l’imperativo morale di promuovere sempre strutture sociali competitive, o di sostituire al welfare state uno stato leggero o minimo, secondo la definizione di Robert Nozick (vedi nota), e neppure l’opposta norma di “sovvertire” il presunto ordine naturale per aiutare il debole e il malato. Come si accennava prima, nel mondo biologico esistono innumerevoli esempi di cooperazione tra cospecifici, ed anche casi di simbiosi. Ma così come non è legittimo giustificare l’egoismo sulla presunta legge del più forte, non sarebbe legittimo tentare di giustificare la regola morale umana di aiutare il prossimo sugli esempi degli uccelli o delle gazzelle “sentinella” che avvisano dell’arrivo del predatore gli altri membri del gruppo mettendosi così in maggiore pericolo, o di quei pesci che nuotano nella periferia del branco per proteggere gli altri che nuotano al centro.
È straordinario notare che i Poecilia (certi pesci di acqua dolce) sono sempre osservatori attenti del
comportamento altrui, e tendono ad unirsi a branchi di pesci nei quali ci sono pesci sentinella. Tuttavia, se si scoprisse, al di là di ogni ragionevole dubbio, che gli esseri umani hanno una predisposizione innata a comportamenti altruistici, comportamenti che naturalmente possono più o meno fortemente svilupparsi a seconda dell’ambiente in cui si manifestano, e che possono originariamente spiegarsi con la cosiddetta neotenìa, ovvero con il lungo periodo di gestazione dell’infante, che rende evolutivamente più funzionali attaccamenti non egoistici dei genitori alla prole, questo fatto non basterebbe affatto a giustificare la norma morale del Vangelo “ ama il prossimo tuo come te stesso”cioè devi amare il prossimo tuo come te stesso.
Questa limitazione di carattere logico/metodologico è ben nota a tutti coloro che studiano l’evoluzione dei comportamenti altruistici, dato che persino la, difficilissima da accertare empiricamente, capacità di comportamenti altruistici negli esseri umani di per sé non basta alla morale. Supponiamo cioè che considerazioni di carattere psicologico-sociale, o antropologico, o filosofico o evoluzionistico ci permettano di stabilire che, almeno qualche volta nella vita, gli esseri umani siano motivati da intenzioni altruistiche, ovvero trattino l’altro come un fine e non solo come un mezzo, supponiamo, con Sober e Wilson, (quest’ultimo padre della sociobiologia cioè lo studio sistematico, in una prospettiva biologico-evoluzionistica, del comportamento sociale ed autori del libro intitolato: Onto others. The evolution and psychology of unselfish behavior, (University Press Harvard 1998), che l’evoluzione ci abbia dotato, oltre che della capacità di agire per il nostro interesse raggiungendo il piacere ed evitando il dolore, di genuine motivazioni altruistiche. Tra altruismo e morale c’è tuttavia un’indipendenza concettuale: il soldato delle SS che sacrifica la sua vita per il terzo Reich agisce in modo probabilmente altruistico nei confronti del suo gruppo/clan, ma si comporta in modo immorale dato che la sua condotta non è universalizzabile. E le motivazioni psicologiche altruistiche, come anche l’empatia, potrebbero non bastare per spiegare il comportamento morale, almeno se si prende a modello l’etica kantiana basata unicamente sul rispetto della legge morale. Dobbiamo allora concludere che lo studio dell’evoluzione biologica e dell’ominazione (le trasformazioni che hanno portato all’homo sapiens) non ha nulla da insegnare al filosofo morale ? In modo sarcastico, si potrebbe concludere, secondo quanto sostenuto da molti detrattori dell’evoluzionismo, che l’unica “conseguenza morale” delle tesi darwiniane sulle “presunte origini animalesche” dell’essere umano è la depressione e lo sconforto! Ecco un brano di Benedetto Croce che risale al 1937, e che va esattamente in questa direzione.“Tutte queste teorie (si riferisce all’evoluzionismo darwiniano) non solo non vivificano l’intelletto ma mortificano l’animo, il quale alla storia chiede la nobile visione delle lotte umane e un nuovo alimento all’entusiasmo morale, e riceve invece l’immagine di fantastiche origini animalesche e meccaniche dell’umanità, e con esse un senso di sconforto e di depressione e quasi di vergogna a ritrovarci noi discendenti da quegli antenati e sostanzialmente a loro simili, nonostante le illusioni e le ipocrisie della civiltà, brutali come loro. Non così verso gli antenati che ci assegna il Vico i quali hanno in fondo al cuore una favilla divina, e Dio temono, e a lui pongono are, per lui sentono svegliarsi il pudore e fondano i matrimoni e le famiglie e seppelliscono i morti corpi, e per quella favilla divina creano il linguaggio e la poesia e la prima scienza che è il mito. In questo modo la preistoria, dove accade che sia innalzata veramente a storia, ci mantiene dentro l’umanità e non ci fa ricascare nel naturalismo e nel materialismo” (La natura come storia senza storia da noi scritta. Storia e preistoria, in «La critica», 1939, n. 37, pp. 146-147).
Personalmente non condivido la visione di Croce sulla scienza e considero la teoria dell’evoluzione una delle più grandi conquiste del pensiero scientifico di tutti i tempi, ma dubito che la biologia possa giungere a spiegare in modo esaustivo e totale il perché e il come dei nostri comportamenti e delle nostre scelte etiche; tale comportamento, che ha un valore ed un significato sempre attuale è riassumibile nel celebre epitaffio posto sulla tomba di Immanuel Kant, (Critica della Ragion pratica): “Due cose hanno soddisfatto la mia mente con nuova e crescente ammirazione e soggezione e hanno occupato persistentemente il mio pensiero: il cielo stellato sopra di me e la legge morale dentro di me”.
Nota su ROBERT NOZICK
Nozick si colloca fra quegli intellettuali che negli USA si dicono “libertari”. E’ infatti un liberale estremo, così estremo nel tutelare tutte le libertà individuali da avvicinarsi all’anarchismo. Nella prima parte del suo lavoro, Nozick illustra le caratteristiche che deve avere uno stato per essere assolutamente legittimo e necessario. Deve trattarsi di uno stato “minimo”, eticamente neutrale, che si limiti al mantenimento della legalità e dell’ordine; attraverso il monopolio della forza esso attua un sistema di tassazione finalizzato esclusivamente a garantire la tutela dei diritti individuali. Va detto che non è compito da poco: basti pensare all’elenco dei diritti indicati nella Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo. (E’ necessario aver presente che nella cultura liberale i diritti che vanno tassativamente garantiti sono quelli civili; i diritti sociali appartengono ad un altro ordine di idee). Nella seconda parte l’autore sostiene, con diversi e avvincenti argomenti, che qualunque stato più esteso dello stato minimo viene a violare i diritti degli individui. Tesi ultraliberale, come si vede, appunto al limite dell’anarchismo.
R. Nozick, Anarchia, stato, utopia – i fondamenti filosofici dello stato minimo, 1974, Ed. it. Le Monnier, 1981, Fondazione L. Einaudi.