Intervista al musicista prima del concerto nel circolo Arci di Seregno
Foto di Francesca Pontiggia
Stasera sarai protagonista qui al Tambourine. Sappiamo che stai lavorando a un nuovo disco, che è stato preceduto qualche mese fa dal singolo “Prendimi”. Il concerto di stasera sarà l’occasione per ascoltare anche qualche nuovo brano?
Questo set acustico che sto portando avanti da un po’ di tempo in realtà è un’occasione per ripercorrere quello che ho fatto finora; lo facciamo attraverso i singoli che sono stati estratti dagli album che ho fatto fino ad oggi, seguendoli quasi cronologicamente, da “Daisy”, a cui sono sempre molto affezionato, fino appunto a “Prendimi”. È questo l’iter che percorriamo in questa ora di musica, mentre il futuro è ancora da scoprire.
Tra il tuo disco precedente e l’uscita di “Prendimi” sono passati più di 3 anni. Cosa hai fatto nel frattempo? Ti sei dedicato ad altri progetti?
La verità è che il disco che avrebbe dovuto seguire “Prendimi” sarebbe ed è quasi pronto. Poi per tante ragioni, anche di rapporti con le persone, si è rotta questa fase di lavoro e io ho iniziato un altro percorso, con altre canzoni, un nuovo disco. Quindi è come se avessi fatto un doppio disco, solo che uno non è mai uscito. Alcune canzoni stanno finendo o finiranno ad altri colleghi, perché sono comunque canzoni a cui ho dedicato molto tempo, mentre altre faranno parte di un altro progetto o saranno b-sides. Il disco a cui sto lavorando ora sarà in inglese, non solamente per l’Italia, perché penso che fare un disco in inglese per cantarlo solo qui ora avrebbe poco senso; l’idea è quella di cercare un produttore all’estero e provare la via dell’Europa, chiaramente con tutta l’umiltà e le difficoltà del caso, ma anche con l’entusiasmo di provare a viaggiare un po’ di più e portare la nostra musica italiana all’estero. Credo lo si possa fare solo in inglese, che nel bene e nel male è la lingua che ha contraddistinto la musica e non solo negli ultimi decenni.
Il tuo amore per l’Inghilterra ed il brit-pop è stato uno dei tratti distintivi della tua musica fin dagli inizi. Come è nato?
Probabilmente in maniera abbastanza casuale. Mi trovavo nel posto giusto al momento giusto: quando avevo 19 anni ho fatto un viaggio in moto in Inghilterra e ho assorbito molto non solo della musica ma anche delle atmosfere, della cultura, degli odori, della luce di quei posti. Mi sono rimaste dentro quelle malinconie e quel modo particolare di fare musica. Poi ho riscoperto anche i Beatles, che sono delle pietre miliari e possono essere considerati come la musica classica moderna. Le cose che ti entrano dentro durante l’adolescenza poi ti segnano per tutta la vita; sono abbastanza onnivoro musicalmente, ma quel tipo di sound è quello che più mi appartiene, ormai fa parte di me. Naturalmente si evolve poi, gli Oasis sono stati i primi a farmi innamorare di quel tipo di musica, anche se non sono così vicino a loro come personalità e come carattere mi sono identificato in loro. Poi ho avuto i Radiohead e più recentemente i Coldplay, a partire dal loro primo disco. È un filone a cui mi sento vicino, con le differenze date dalla nostra cultura, naturalmente.
Sono state tante poi le collaborazioni con artisti della scena brit-pop, per ultimi i Fool’s Garden, con cui stai lavorando adesso. Come li hai conosciuti e come hai iniziato a lavorare con loro?
Mi hanno contattato loro, perché stavano uscendo con un disco nuovo e in Italia avevano sentito parlare di un esponente del british pop italiano. Io stavo preparando questo disco, ho sentito il loro ultimo lavoro, che aveva delle sonorità nella direzione che cercavo, quindi abbiamo iniziato a lavorare assieme. In particolare ho collaborato con Volker Hinkel, che è il produttore, chitarrista e autore di molti brani, tra cui anche “Lemon Tree”, che è la loro canzone più celebre. Sono nati questi pezzi, che non sono ancora usciti, tranne “Prendimi”, le cui sonorità sono il frutto di questa collaborazione.
Col tempo nella tua musica si è fatto sentire anche il legame con la musica italiana, anche con collaborazioni con grandi nomi, da Lucio Dalla a Renato Zero passando per Bennato. È stata un’evoluzione naturale per te questa?
Le mie radici italiane ci sono e sono preziose; la cosa più importante che abbiamo in Italia secondo me è il cantautorato, con i vari Dalla, De Gregori, De André, Battisti, con il loro uso della parola. Qui è infatti al centro dell’attenzione più che altrove la parola, si dà importanza a quello che dici. Sono inoltre dei riferimenti a cui sono legato emotivamente, perché mio padre strimpellava sempre la chitarra e cantava le canzoni di Dalla, per esempio. È stata un’occasione e una grande fortuna quella di confrontarmi con artisti che hanno molto da insegnare a chiunque e in particolare a me. Dalla l’ho sempre considerato come uno dei più geniali tra i nostri autori, anche come tipo di vocalità. Da Zero ho appreso l’arte del palco, nel senso che averlo visto e anche averlo potuto accompagnare in queste grandi tournee negli stadi è stata un’occasione di crescita perché ho visto un vero professionista all’opera. Quindi sono stato fortunato a poter conoscere queste persone, questi artisti e a lavorarci assieme.
Un brano del tuo primo disco si intitolava “Bob, Paul & Seneca”, riferendosi a tre fonti di ispirazione della tua adolescenza, cioè Dylan, McCartney e appunto Seneca. Hai aggiunto altri nomi alla lista in questi anni?
Quello era un momento particolare, ero più giovane ed era il primo disco. Mi disse una volta un cantautore che nel primo disco metti i primi venti, venticinque anni di vita, a seconda di quando lo fai; poi è come se avessi consumato tutto e negli altri metti due o tre anni alla volta. Allora lì c’era tutta la mia voglia, tutti i libri che avevo letto, mi ispiravo molto al tipo di scrittura lennoniana, che andava a pescare dalla propria infanzia. Nel tempo ci sono sicuramente state altre influenze, probabilmente non le ho messe più di tanto in ciò che ho scritto, sto tornando a farlo adesso dopo aver cercato nei miei dischi un’elaborazione personale senza citazioni; queste c’erano invece in quel disco, che è quello a cui sono più affezionato perché è stato il più sperimentale, in quanto, anche se marcatamente ispirato al sound britannico degli Oasis, aveva dentro tanti divertimenti e tante fantasie legate idealmente al modo di fare musica dei Beatles. Lavoravamo ai Forum Studios di Roma, dove registrano le orchestre di Morricone per esempio, e passavamo le notti con gli strumenti “rubati” a divertirci, con i gong, il clavicembalo, dei pianoforti particolari, gli Hammond; fu molto bello.
Una canzone del secondo album, “Anna Julia”, è invece una cover di un pezzo di un gruppo brasiliano, i Los Hermanos. Cosa ti ha spinto a rifare quella canzone, abbastanza lontana dalle coordinate musicali a cui sei associato solitamente?
E’ stato anche in quel caso un incontro particolare; ci siamo conosciuti con Carmelo Marcelo, che è l’autore e il cantante della band. In realtà la nostra corrispondenza è stata più via mail, però è nata una sorta di rapporto di simpatia reciproca. In quel disco, “Bit”, c’è stata una svolta, mi sono allontanato dal british pop e sono andato alla ricerca delle mie origini cantautorati italiane, con sonorità più soft, anche se con un po’ di elettronica e di campioni. Era quindi un’epoca in cui cercavo me stesso e mi andava di rivisitare un pezzo così, con le sue origini brasiliane anche se alla fine è un rock grezzo, inteso in senso buono come verace e molto sanguigno. È stata una cosa molto istintiva.
Sei nato e cresciuto a Trento. Vivere in una cittadina di provincia ha influito sulla tua voglia di suonare? Era un modo per aprirsi verso il mondo, cosa che magari era difficile fare in altra maniera?
Certo. Penso che mi abbia aiutato, soprattutto all’inizio, a partire con la mia avventura musicale, perché non venendo da una scuola cantautorale storica, come possono essere quello di Bologna, Roma o Milano, ho dovuto cercare la mia strada. Non potevo starmene a casa, non era un posto in cui poter crescere musicalmente, per cui son dovuto andare a Roma, mi sono trasferito lì da quando avevo 22-23 anni e ho cercato questa chance. Però la spinta è partita dalla mia stanza di Trento, sognando. Spesso se parti da poco, se hai poco, è una grande fortuna, perché cerchi di andare avanti; mentre se parti da una condizione di benessere e di tante opportunità è più facile perdersi o non trovare l’entusiasmo o la spinta per farcela.
In molti tuoi brani emerge un tema di fondo che è quello dell’ottimismo, per esempio in “If You Don’t Like It” o in “Adesso”, in cui incoraggi chi ascolta a prendersi il proprio tempo. È facile essere ottimisti oggi, secondo te?
Se fossi un vero ottimista dovrei dirti di sì. Più che l’ottimismo, ma alla fine è una questione di definizioni, andando avanti penso sempre più che la strada migliore, anche egoisticamente, per godersi quel poco o tanto che abbiamo da vivere, sia nell’essere positivi. Conviene esserlo, conviene cercare di percorrere quel fiume, quella via che ti fa stare meglio sia con te stesso sia con gli altri, come indicano anche molte discipline orientali. Credo che tutti abbiano questa strada. Poi purtroppo è facile cadere nel male, ma sono convinto che se tu vuoi veramente stare bene, puoi riuscirci, devi semplicemente farlo. Lo dico perché sono uno che si è spesso perso e che tuttora si perde, che pensa tanto e fa poco. Se semplicemente si facessero le cose per quello che sono, se si affrontasse la realtà per quello che è, se quando si desidera una cosa la si facesse e basta, alla fine le cose andrebbero meglio per tutti. Alla fine è stando nella positività che poi eventualmente il resto diventerà positivo, come un contagio. Creando invece negatività o rabbia per quello che non va, tu non fai altro che alimentare la rabbia stessa, entri nel suo esercito.