I media, specialmente gli audiovisivi, mantengono nei confronti dei politici italiani una posizione talmente acritica o remissiva da sconfinare nel servilismo. Con piccole e grandi eccezioni
15 giugno 2015, ore 13:44.
Mentre mi accingo a scrivere queste impressioni, l’on. Renato Brunetta, capogruppo di Forza Italia alla Camera dei deputati, sta esultando in diretta, su Sky 24, per i risultati conquistati dal centrodestra nei ballottaggi comunali a Venezia, ad Arezzo e in altri comuni italiani. Sky 24 è un canale d’informazione che, come dice il nome, è in onda tutto il giorno a qualsiasi ora. Per tutto il giorno e per i prossimi, dunque, c’è da aspettarsi che il mantra sui ballottaggi andrà avanti ad libitum, a meno che non succeda nel frattempo qualcosa di grave come un terremoto o un femminicidio.
I telegiornali delle reti generaliste offrono il vantaggio di essere più brevi, ma durante il giorno sono tanti e comunque, a rinforzare la chiacchiera politica, ci sono i talk-show.
La politica italiana, anche quella minore, gode da sempre di una sovraesposizione mediatica spacciata per approfondimento. In realtà non si tratta di approfondimento ma di banale ripetizione. Si può definire “approfondimento” solo un complesso di considerazioni analitiche espresse da studiosi e osservatori esterni alla politica militante. In televisione invece vediamo e rivediamo in continuazione i protagonisti, grandi e piccoli, della scena politica. Ciò che ascoltiamo da loro è in gran parte prevedibile, e – più che a un razionale progetto politico rivolto alla coscienza dei cittadini – concorre a un programma di marketing elettorale senza principio né fine. Inquinato, oltretutto, da un tono di voce spesso aggressivo, quasi mai propenso al fair play.
I media, specialmente gli audiovisivi, mantengono nei confronti dei politici italiani una posizione talmente acritica o remissiva da sconfinare nel servilismo. Frotte di cronisti esagitati inseguono il primo onorevole, sottosegretario o portavoce che gli capita a tiro, per piazzargli il microfono sotto il naso. E accolgono qualsiasi dichiarazione – o slogan, o insulto – come manna dal cielo. I conduttori di talk-show sono più schierati, ma con la scusa della par condicio danno fiato a qualsiasi tromba e a qualsiasi trombone, partecipando anch’essi alla divulgazione del nulla. Con Lucia Annunziata va meglio, perché si limita a intervistare un personaggio alla volta risparmiandoci lo strazio degli alterchi in diretta.
Mi chiedo se l’informazione, in generale, stia cambiando e, se sì, in che modo, tenendo conto anche del fatto che ai giornali, alle radio e alle televisioni si sono aggiunte le molte voci del web. Voci sia istituzionali che spontanee: il movimento di Grillo e Casaleggio se ne è giovato per ottenere una quantità enorme di consensi, fregandosene dei media tradizionali e, anzi, osteggiandoli apertamente.
Ma che si tratti di canali tradizionali o informatici, resta il fatto che in Italia la comunicazione politica ruota senza tregua intorno a sé stessa, appiattendosi sul “tema del giorno” e sulla polarizzazione di sentimenti e pulsioni elementari (euro sì, euro no, zingari sì, zingari no, migranti sì, migranti no, Europa sì, Europa no, Tav sì, Tav no, Expo sì, Expo no, e così via). Non esistono né sfumature né vie di mezzo, perché – dal punto di vista propagandistico – non funzionano. La retorica politica vigente, comune a tutti i partiti e movimenti ma persino alla protesta di piazza, tende alla semplificazione. A volte gli obiettivi immediati degli attori in campo sono chiari, ma alle strategie per conseguirli rimane poco spazio, a meno che non siano anch’esse funzionali al proselitismo.
Da 22 anni a questa parte, il settimanale cartaceo Internazionale (con l’ausilio della versione quotidiana on line) distribuisce notizie e commenti secondo priorità e parametri alternativi rispetto alla stampa tradizionale. D’accordo: è una testata di nicchia e si chiama così perché è un osservatorio dichiarato sulla scena mondiale. Quasi tutti i servizi sono tradotti dalla stampa estera. Ma se viviamo in un habitat globale, e se i nostri accidenti economici e culturali dipendono sempre di più dai macrofenomeni geopolitici, il nostro sistema d’informazione dovrebbe guardare più al modello di Internazionale che all’esagerato localismo al quale siamo abituati dall’Ottocento. La velocità informativa del web, e lo sguardo senza frontiere di Internazionale, fanno sembrare le nostre testate nazionali qualcosa di appena più autorevole di un foglio locale, o addirittura parrocchiale.
La maggior parte dei media italiani, vecchi e nuovi, è incastrata in una contraddizione: sembra incapace di connettersi a visioni di respiro universale e, al tempo stesso, ha assunto un ruolo decisivo nella veicolazione e ripetizione delle opinioni correnti, quasi tutte di matrice partitica. I cittadini sono disorientati: non reagiscono solo con la fuga dalle urne, ma anche con l’adesione confusa, irrazionale, agli slogan del momento. La Lega, per esempio, sta cavalcando la xenofobia popolare con accenti più feroci che in passato, ed è in ascesa per questo. A un vicino di casa che ce l’ha col governo perché «non fa nulla per frenare i migranti», ho chiesto cosa farebbe lui se avesse il potere di dirigere il paese. La risposta è stata: «Non tocca a me, sono loro che ci devono pensare.» Ho insistito offrendogli alcune opzioni: sparare sui barconi? Invadere militarmente i paesi di provenienza? Sospendere i soccorsi? Si è dichiarato contrario a tutte e tre le contromisure, giudicate troppo violente. Sono certo che voterà per la Lega, come probabilmente ha sempre fatto: ma ho riportato il suo punto di vista per concludere che nessuna tv, nessuna radio, nessun medium alla sua portata gli ha mai dato l’opportunità di inquadrare, oltre ai tanti problemi sbandierati dai politici, anche le eventuali soluzioni.
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