Mille chilometri alla scoperta del cuore verde e impervio dell'Asia, dove gli impulsi del mondo esterno arrivano come echi lontani e la natura detta ancora il passo all'uomo.
Bussola per il viaggio - Una premessa
In questa pagina troverete il racconto del nostro itinerario in Kirghizistan. 2/3 della superficie italiana, abitato da soli cinque milioni e mezzo di persone, il Kirghizistan è un paese situato nel cuore montuoso dell'Asia, con un'altitudine che supera mediamente i 2700 metri sul livello del mare. Un territorio di recente pacificazione dopo anni di disordini politici e sociali derivanti, in primis, dalla rivolta contro il governo post comunista di Akayev (cosiddetta “Rivoluzione dei Tulipani”) e, in secondo luogo, dai disordini interetnici scoppiati nella Valle del Fergana tra minoranze uzbeke e abitanti del luogo; tensioni mai completamente sopite.
Descrivere l'Asia Centrale di oggi non è un compito semplice. Prima di addentrarsi in questi territori dalla storia e dalla geografia complesse è bene tenere presente il loro recente passato: lo smembramento nei diversi “stan” di quella vasta area, che ancora nel Novecento veniva chiamata “Turkestan”, doveva servire, nell'ottica di Stalin, ad innescare uno stato di disordine controllato, secondo il principio del divide et impera. Basta consultare una carta politica della zona per verificare l'ottimo risultato ottenuto dai sovietici: un simile intrico di confini ed etnie sarebbe stato difficilmente realizzabile in modo più arzigogolato.
Nonostante la sovietizzazione in queste aree lontanissime da Mosca non abbia agito che superficialmente, ognuno di questi stati è ancora oggi a pieno titolo un paese - economicamente, come pure culturalmente - “in transizione”; chi lanciato al galoppo sulla via della modernizzazione come il Kazakistan, chi invece in gravi difficoltà economiche ed umanitarie come il Tagikistan.
La transizione in campo culturale si deduce in primo luogo dalle scelte linguistiche: affianco alle lingue nazionali, sempre più utilizzate anche nelle sedi pubbliche, ancora oggi, seconda lingua ufficiale, campeggia il russo. Una misura voluta al tempo della caduta dell'URSS per evitare la “fuga di cervelli” derivante dal rientro in patria della componente russa, che al tempo occupava tutte le posizioni nevralgiche nella gestione del Paese.
In campo economico il Kirghizistan si è letteralmente arrestato con il collasso dell'Unione Sovietica; se di transizione si può parlare, essa è percepibile unicamente nelle due principali città del Paese (Bişkek e Osh); il resto della popolazione vive ancora in condizioni marginali, lontano dalla modernità.
In questa roccaforte montuosa anche gli impulsi dell'Islam sono arrivati e arrivano con passo lieve. La popolazione si dichiara musulmana, ma lo è in una particolare forma meticcia e prosegue a coltivare aspetti legati all'animismo e alla mitologia, alle radici nomadiche dei popoli della steppa.
Se da questi primi rilievi il Kirghizistan può sembrare alla periferia di tutto, va detto in vero che, insieme agli altri “stan” e come in passato, è territorio che riceve molte attenzioni e al centro di strategie di controllo economico e diplomatico. Gli interessi che gravitano attorno alle risorse dei vari “stan” e la loro posizione centrale rispetto a molti e delicati confini fanno si che siano in molti a volersi sedere al banchetto dell'Asia Centrale; su tutti, macropotenze invadenti come Russia, Cina e Stati Uniti d'America.
Si parte - Verso Bişkek
Atterriamo ad Almaty, ex capitale del Kazakistan per mere ragioni logistiche (orari, costi). Prendiamo subito un pulmino che prima zizagando tra il traffico della città e poi correndo rapido ai margini della steppa color nocciola ci porta fino al confine kirghiso. Alla frontiera si scende e si prosegue per un tratto a piedi, sperando che taxi e furgoni aspettino dall'altra parte. A noi va bene, ma dicono non sia sempre così: spesso i tassisti caricano altri e tirano dritti.
Il confine kirghiso è tra i più semplici che si possano incontrare in Asia Centrale: il governo di Atambayev non chiede visti d'ingresso e rivolge poche domande ai suoi visitatori.
Arrivati a Bişkek, poco più di mezzo milione di abitanti, ci si presenta davanti un avamposto sovietico senza grandi spunti di interesse. La città di oggi sembra un grande villaggio: spingendosi in periferia la strade diventano sterrate, le luci si spengono sopra le case costruite con materiali di fortuna, poche tracce d'industria. Restano i bei viali alberati, la brutalista piazza Ala Too, statue di Lenin, Engels e Marx a ricordare il passato. Sullo sfondo, a fare da corona al profilo urbano, alte vette innevate e un cielo cobalto.
A Bişkek conosciamo gli operatori della CBT grazie a cui abbiamo programmato i nostri spostamenti in loco. La CBT é un'organizzazione nata alla fine degli anni ’90 da un progetto guidato da una NGO svizzera per sviluppare quel che viene definito “community based tourism”, ossia l'offerta di esperienze turistiche che siano vissute, organizzate e gestite dalle comunità ospitanti, per il loro sostentamento e sviluppo.
Lago Song Köl - I colori del primo giorno del mondo
La prima tappa montana del nostro viaggio è il Song Köl. Per arrivarci dalla capitale occorrono sette ore di guida, metà su strade asfaltate e metà su sterrate che conducono fino ai 3.000 metri di altezza del lago.
Superando i 2000 metri di quota si alternano versanti e valli verdissimi e altri piú brulli. L’acqua disegna i suoi percorsi verdi e blu nel paesaggio e collega spesso i piccoli, radi, insediamenti umani. In queste valli esistono gruppi di tre o quattro yurte (le tipiche tende dell'Asia Centrale). Si vive allevando bestiame, si aspetta l’autunno per spostarsi più in basso. La transumanza è un dato di fatto e interessa tutte le famiglie che vivono di allevamento. A guardarlo da quassù, da passanti, ci si immagina un mondo fatto solo di silenzi, solitudini, lontananze e invece ci sono fili invisibili ovunque, una rete che vive di relazione e cooperazione.
Le bianche tende rotonde ribadiscono che, da quelle parti, con i freddi d’inverno, non si vive. Valicato l'ultimo passo a 4000 metri d'altitudine, ad un tratto, compare davanti ai nostri occhi una immensa macchia di blu, stesa come una mano di colore sottile sulla crosta dell’orizzonte. È il nostro lago, il Song Köl.
Arrivati al campo base, ai bordi del lago, dentro la yurta sono già pronti per noi coperte e materassi. In un angolo, una stufa di ferro e una lampadina collegata a un piccolo pannello fotovoltaico. Intorno alle due tende centrali, che fanno da cucina e sala da pranzo, ce ne sono circa altre dieci. Quattro in cui risiedono le famiglie della comunità, altre riservate ai turisti.
Incrociamo qui i primi stranieri dal nostro arrivo: un gruppo di tedeschi in bicicletta con camion al seguito e una famiglia di inglesi impegnata in un trekking a piedi sopra queste alture maestose. Il turismo, per il momento, è una risorsa economica integrativa, che non sostituisce l’attività di allevamento. Tuttavia, le famiglie di indigeni nel tempo hanno organizzato un sistema di accoglienza semplice e sostenibile che non fa mancare nulla al tipo di viaggiatore (spartano) che arriva fino a qui. Per cena si serve plov – riso con carote, montone e uva passa – e pesce di lago.
Intorno al campo tende mandrie a perdita d'occhio e colori che devono essere molto simili a quelli del primo giorno del mondo. Dopo un tramonto passato a guardare i movimenti degli animali al pascolo, cala il freddo e in cielo la Via Lattea lentamente si accende con un nitore mai visto in precedenza.
Tash Rabat - Il polso del Paese
Discendiamo strade sterrate per quattro ore fino a raggiungere Naryin, un vecchio distaccamento di qualche migliaio di abitanti. Palazzine grigie e scalcinate, impianti industriali in stato di abbandono e mille piccoli negozi di pane, frutta, carne, cianfrusaglie, a ricordare le origini turche dei kirghisi, il loro eterno bazar.
Da Naryin imbocchiamo una striscia di asfalto che corre lungo un altopiano i cui confini si perdono alla vista. Non c’è quasi nulla, solo gruppi di case che per definirli “paesi” bisognerebbe essere coraggiosi. Sono probabilmente vecchi kolchoz (villaggi agrari) fondati dall’Unione Sovietica quando tra i piani del PCUS, anche in queste terre remote, c’era quello di sedentarizzare i nomadi, convertendoli all’agricoltura. Quel tentativo, presto abortito dalla storia, segnò una pagina disgraziata per i kirghisi che, costretti a qualcosa che non volevano e non sapevano fare, andarono in contro a condizioni di vita, se possibile, più dure delle precedenti.
Oggi la faccia di questi insediamenti, diroccati e sconnessi, é il volto che racconta quelle vecchie vicende. Strade di fango, case di lamiera, lampioni abbattuti, carcasse d’auto. Ai nostri occhi inspiegabilmente, la vita tra queste macerie prosegue, chi vi abita, indaffarato nelle attività di ogni giorno, non si cura del nostro passaggio.
Dopo due ore giriamo a sinistra e prendiamo a risalire una valle. Il paesaggio si fa valdostano, compaiono marmotte, verdi pendii, aquile, vacche al pascolo. Un paesaggio dolce e rilassante nonostante gli oltre 3000 di altezza. Siamo diretti a Tash Rabat, un caravanserraglio ben conservato che sorgeva lungo una delle tante diramazioni della Via della Seta, quella che attraverso il passo Torugart e diversi giorni di cammino portava i viandanti a Kashgar, nello Xing Jang cinese.
La struttura di Tash é ben conservata, ma non ha particolari tali da renderla una tappa imprescindibile di un vostro ipotetico viaggio kirghiso.
Il nostro campo tende é situato in una valletta laterale, incastonato tra cime imponenti e ruscelli.
Mentre cala il sole osserviamo i ragazzini di casa preparare piccoli mattoni fatti di sterco e metterli in fila ad asciugare: nei prossimi mesi saranno il combustibile per accendere le vecchie stufe presenti dentro le yurte.
Dopo la cena – primo piatto brodo di montone, secondo piatto montone con patate – ci fermiamo a parlare un po’ con la figlia del capovillaggio.
Trent’anni, mamma di una bambina, originaria di uno dei kolkhoz dell’altipiano attraversato nel pomeriggio, la ragazza sembra davvero in gamba e così dai soliti convenevoli si passa a una chiacchierata che dura per un’ora abbondante.
Ci racconta che il padre ha usato tutti i mezzi a sua disposizione per far studiare lei e sua sorella all’università di Bişkek: «E’ stata una grande fortuna, per nulla scontata: lo stato kirghiso infatti non sostiene le spese per lo studio e l’università, ahinoi, costa cinquemila dollari all’anno. Una cifra grossa».
Notando il vivo interesse della ragazza per la politica internazionale, chiediamo una sua valutazione sulla situazione del Paese: «tra gli ‘stan’ il Kirghizistan é uno dei più poveri, abbiamo solo energia idroelettrica da vendere; non c’é una politica di sostegno alle iniziative economiche: lo Stato é inerte. Siamo strattonati da tutti: dalla Cina, che vuole tenersi in buoni rapporti con noi per sopperire alla crisi idrica che l'attanaglia con l'acqua dei nostri ghiacciai. La Russia ha appena sottoscritto con noi e altri cinque paesi ex sovietici accordi per il libero scambio che stravolgeranno nuovamente gli equilibri della regione. Fatichiamo a trovare una strada di vera indipendenza».
Su quantità e qualità dei turisti di passaggio ci dice che: «Il campo nasce da un’idea di mio padre nel 2001, grazie anche al sostegno di alcune associazioni straniere che ci hanno dato una mano a investire in modo intelligente le nostre energie nel campo turistico. Anche per questo di qui, oggi, passano turisti del nord Europa, qualche italiano e francese, pochissimi russi e, nonostante la vicinanza, nessun cinese. Negli ultimi anni apriamo il campo verso la fine di aprile e lo chiudiamo a ottobre, quando siamo costretti dalle temperature a scendere di quota. Abbiamo un piccolo flusso costante di persone per tutta la stagione estiva. La politica di abolizione dei visti voluta dal precedente governo é sicuramente servita a dare un impulso agli arrivi».
Sary Tash – Alle falde del Picco Lenin
Giorni tra montagne innevate a settemila e montagne più basse e brulle. Ci infiliamo in gole e canaloni, osserviamo i fenomeni carsici più imponenti visti in trenta e passa anni di vita sulla Terra, per poi sbucare sopra infiniti tavolati verdi, pieni di yurte e pascoli. Quando il mondo scoprirà il cuore verde dell'Asia, temo che questi posti – che hanno tutte le caratteristiche per attrarre visitatori - subiranno i fin troppo prevedibili effetti della grande onda turistica globale.
Oggi la nostra fermata è alle falde del Picco Lenin (7.700 metri di quota) in un villaggio che si chiama Sary Tash; siamo di nuovo vicinissimi al confine con la Cina e, in particolare, ai tremila metri del passo Irkeshtam.
Ospiti di una famiglia di contadini, dormiamo per terra sopra tappeti coloratissimi. Come d’uso da queste parti, appena arrivati, ci accolgono con té, pane e marmellata. A cena, manco a dirlo, montone, questa volta accompagnato da patate lesse.
Usciamo a fare due passi per le strade del villaggio. Meno quella principale le vie sono sterrate, non esistono recinzioni. Il vento freddo che scende dai picchi innevati lucida l'aria della sera. Una vecchia ambulanza di epoca sovietica é parcheggiata nel centro del villaggio, di fianco a una baracca che, a naso, sembra qualcosa di simile a un ambulatorio. A colpire il nostro occhio europeo l’enorme quantità di bambini che girovagano e giocano per la strada. Paesi poveri, a volte alle prese con problemi gravi, ma, per qualche legge della storia e della geografia, paesi giovani, che crescono e danno un’idea di vita che si rigenera.
La sera, a gambe incrociate sul tapchan, tra tappeti e cuscini coloratissimi, beviamo vodka e giochiamo a carte al lume di una lampada a gas. Aziz, il nostro accompagnatore, ci racconta qualcosa in più sul suo conto: ha una moglie e due bambine, la compagna insegna inglese e questo ha aiutato anche lui ad imparare in fretta. Dopo la laurea in ecoturismo all’università di Bişkek si limita a fare l'accompagnatore per la CBT, poiché dice che per questo genere di temi il paese non é ancora pronto. Oltre al suo ruolo di guida manda avanti una serie di altre attività parallele per mettere insieme un reddito decente. Ad esempio, ha 480 galline, Aziz, e vive anche grazie alla vendita di uova. Sta cercando di imparare lo sci per poterlo insegnare nelle vicine località che ospitano piste. Del resto, qui d’inverno mediamente cadono due o tre metri di neve e qualsiasi altra forma di turismo, naturalmente, si estingue.
Al giro di boa - Osh e la Valle del Fergana
Osh, meno di 300.000 abitanti, e 3000 anni di storia alle spalle, é la seconda città del Kirghizistan. Effettuiamo qui il nostro giro di boa, da domani riprenderemo la strada del nord, verso Bişkek. Nemmeno cinque anni fa per le strade del centro si sparava, come del resto lo si faceva e ancora lo si fa in altre zone del Fergana. La Valle del Fergana, racchiusa tra le imperiose catene del Tian Shan, del Pamir e, a sud, dell’Hindu Kush, é il più popolato altipiano agricolo fertile dell’Asia Centrale, terra che i sovietici videro bene di spezzare in tre parti (uzbeka, tagika e kirghisa) al fine di non dare a nessuna delle comunità locali un margine di sviluppo sulle altre.
Oggi non si spara più, ma la città è povera e porta i segni morali e fisici degli scontri passati e del declino economico segnato dalla fine dell’impero sovietico. In città gli uzbeki sono maggioranza relativa (48% Uzbeki, 43% Kirghisi) e le tensioni – generate inizialmente da iniqui criteri adottati per la spartizione delle terre - talvolta si ripropongono. Guardando la città dall’alto della montagna di Salomone si ha l’impressione di un grande villaggio, più che di una cittadina dal passato fiorente. Il bazar è completamente scombinato da una serie di lavori infrastrutturali che investono il centro e le sue bancarelle si trovano oggi sparse in spazi ricavati alla bell'e meglio, infilate dentro palazzi in costruzione, tunnel sotteranei, container addossati o lungo il fiume. Il mercato sembra, comunque, l’unico vero centro di relazione e lavoro della città.
Aggirandoci in uno dei parchi cittadini incontriamo molti giovani, a colpirci in particolare è un gruppo di ventenni indiani. Ci incuriosiamo e così iniziamo a chiacchierare: sono tutti studenti al primo anno di medicina. Indiani, pakistani, bengalesi e altri ancora vengono a Osh perché da queste parti laurearsi é più semplice e meno dispendioso. Le lezioni sono in russo e in inglese e questo favorisce l’afflusso di giovani che approfittano del percorso di studi per fare proprie due lingue d'uso interazionale.
Ultima fermata - Arslanbob e il bosco di noci
L'ultima tappa del nostro itinerario da nord a sud e ritorno è Arslanbob, un piccolo paese famoso per il suo bosco di noci, che si dice sia il più esteso al mondo. Il paesino, contornato da monti di roccia, i Khrebet Babash-Ata, che superano i 4000 metri, è abitato al 90% da uzbeki. Il confine uzbeko è vicinissimo e sono i kirghisi da queste parti ad essere minoranza.
Fermi ad un piazzale sterrato osserviamo il passaggio di diversi apecar che, ondeggiando pericolosamente sopra le buche del sentiero, trasportano carichi di anziane signore fino alla cima del paese.
Il luogo, da queste parti, é relativamente conosciuto per due motivi: le cascate sopra al villaggio, molto apprezzate dai gitanti kirghisi, che amano fare la coda per farsi fotografare appesi a un ponticello di ferro, e un esteso noceto di 60.000 ettari.
Nel paese la CBT ha un suo piccolo centro informazioni, ben gestito e utilissimo per chi voglia fermarsi e fare delle escursioni. Noi oggi siamo ospiti di una accogliente famiglia di cultura uzbeka, che ha una piccola casa di legni lungo il ruscello, un bel giardino selvatico e, in fondo, oltre un filare di rose, un tapchan all'ombra di una pergola, isola di piacere e frescura per chi vuole bersi un té o leggere un libro in pace col mondo.
Prendiamo un furgoncino che ci porta più a monte, fino all’ingresso delle cascate, che si rivelano il tipico luogo di intrattenimento dal pessimo gusto cinese: un sentiero di cemento nel bosco cosparso di bancarelle, poi una lunga coda di locali in attesa di farsi fare una foto sotto il grande salto d'acqua.
Andiamo a dare un’occhiata e, un po’ interdetti, proseguiamo oltre. Il sentiero che sale nel cuore del noceto, al contrario, é deserto.
Il bosco si estende per interi versanti di collina e tiene in sé esemplari secolari. Si sale per una ventina di minuti fino ad arrivare a un pianoro ai piedi delle cime più alte. Non lontano, contadini sfalciano a mano e imbastiscono enormi covoni, i più grandi che io abbia mai visto. Camion talmente colmi da sembrare funghi trasportano debordanti quantità di fieno.
Con la luce del sole che ormai filtra orizzontale tra le foglie dei noci, ci affacciamo da una specie di balcone di roccia naturale sopra il paese. Il paesaggio minerale intorno ricorda, in miniatura, alcune rocce delle Meteore o la arida Tracia bulgara. Paesaggi estivi, leggeri e asciutti; che fanno bene all’anima.
Di nuovo a casa, mentre il pane cuoce nel forno di argilla e la zuppa è sul fuoco, giochiamo un po’ a palla con la piccola di famiglia, dal viso vispo e intelligente e i vestiti coloratissimi. A cena si serve per tutti “Mastava” il piatto nazionale: senza troppa fantasia, una zuppa con pezzi di montone, patate, peperoni e aglio, tanto aglio.
È l'ultima sera in questa terra dolce e povera, qualcuno di noi si addormenta leggendo sul tapchan, altri si ritirano nelle stanzette di legno, da tutt’intorno la casa ci culla il rumore dell’acqua che scende dalle montagne.
Alle 23, la voce lontana del muezzin interrompe per l'ultima volta il paesaggio sonoro fatto di gorgoglii, richiami notturni e frinire d’insetti; li sovrasta per un lungo momento, creando un’atmosfera quasi irreale. Impressioni sottili, semplici, qui non certo eccezionali, che però so già, senza sapere come, resteranno nella memoria.
Per saperne di più:
Igor Jelen, Repubbliche ex-sovietiche dell'Asia Centrale, CUEM.
Peter Hopkirk, Il grande gioco, Adelphi.
Analisi geopolitica a cura dell'ISPI e disponibile online:
http://www.ispionline.it/it/documents/asiacentrale.pdf