La mostra “GUARDAMI: il carcere attraverso gli oggetti, le emozioni, le storie”, allestita all’Urban Center di Monza e chiusa da pochi giorni, ha gettato nuova luce su una tematica affrontata troppo spesso nel modo sbagliato
Un'esposizione ben riuscita. Antonio Pistillo e Sara Valtolina, i curatori rispettivamente per la fotografia e per i testi, colgono nel segno meglio di tante altre sullo stesso tema. Per prima cosa, per l’organizzazione degli spazi: gli allestimenti hanno riprodotto le misure e la disposizione dello spazio all’interno della cella, in particolare in quelle della casa circondariale di Monza in via Sanquirico. Colpiva anche, in particolare, la presenza di alcuni oggetti di vita quotidiana (spazzolini da denti, rotoli di carta igienica quasi al termine, saponette consumate) che in quella cornice avevano quel sapore un po’ aspro delle cose perdute, come se lontano dalla vita vera no n servissero più a nulla. E poi taccuini e libri come nulla fosse, e nulla era: semplicemente una vita diversa, o meglio un pezzo di vita che ha un valore, come tutti i pezzi delle vite degli altri. Poi, i contenuti: non è stata messa in primo piano la storia giudiziaria degli ex o degli attuali detenuti, bensì la loro storia personale, in modo tale che ogni pannello raffigurasse una fotografia del soggetto in questione ed un testo di accompagnamento a riportare pensieri e riflessioni dello stesso. Uno di questi testi riportava la frase del nostro titolo, molto significativa per lo spirito della mostra. Infine, i dettagli: ad ogni detenuto era infatti stato chiesto di portare con sé nella fotografia un oggetto che li rappresentasse, che fungesse da simbolo della loro esperienza da utilizzare come spunto per ogni singola intervista. Inoltre le fotografie sono state scattate con un piccolo artificio: tra la persona e la luce fotografica è stato posto un foglio trasparente con delle strisce nere incollate che, ad opera finita davano l’idea dell’ombra delle sbarre sul viso delle persone, come un monito che invitasse a non avere pregiudizi verso coloro che sono stati in carcere, sui quali troppo spesso l’ombra della loro esperienza resta come una macchia indelebile.
Tutto ciò ha avuto il preciso scopo di non considerare più il tema nelle sue svariate (e, ahinoi, ormai classiche) problematiche: i conflitti interni, il sovraffollamento, il degrado, le disastrose condizioni igieniche, l’alto tasso di suicidi e tante altre. Si tratta invece di una realtà che esiste a prescindere da tutto questo. Nelle carceri monzesi infatti si contano circa 850 detenuti che rappresentano altrettante storie diverse, tra le quali ne sono state scelte 17 senza un criterio specifico, coerentemente con l’obiettivo della mostra: conoscere le realtà di cui sentiamo parlare ogni giorno ma sulle quali manca una vera e propria consapevolezza ed eliminare i pregiudizi che attualmente pendono su chi è stato un detenuto in passato.
Antonio Pistillo e Sara Valtolina scrivono in apertura dell’opuscolo introduttivo: «Vorremmo mostrare le storie delle persone che abitano le celle, degli uomini e delle donne che vivono in carcere ma attraverso i loro volti ricercare anche le storie e le emozioni che abitano in ciascuno di noi. Per scoprire in fondo che siamo tutti prigionieri di qualcosa».
Un’ultima parola va spesa per coloro che hanno creduto in questo progetto rendendolo possibile: oltre al Comune di Monza, la realizzazione dell’evento è stata sostenuta in particolare dall’Amministrazione carceraria e dall’associazione di volontariato Carcere Aperto, della quale sono membri anche Emilio Caravatti ed Elena Verri, i due architetti monzesi che hanno curato gli allestimenti e la mise en espace di una mostra che costituisce un’esperienza pionieristica per la città di Monza. Non solo, ma la sua eco giungerà fino all’allestimento di altri spazi disposti a darle nuova voce.