20121018-italia

 Dossier: La provincia Monza e Brianza. Perché a cadere sotto la mannaia del Governo dei tecnici sono proprio le Province? Nel 1961 erano 59, oggi 123 e spesso sono parcheggi per politici falliti, parenti e clienti. Ma rappresentano come nessun altro ente aree omogenee per tradizione storica e cultura.

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a molto tempo non mi occupo specificamente di istituzioni pubbliche. Tuttavia, non essendo proprio digiuno di studi e di esperienze sull’argomento, vorrei dire la mia - piuttosto controcorrente - sulla questione dell’abolizione delle province.

Parto un po’ da lontano: da quando, nel 1970, furono istituite le Regioni.

Negli anni precedenti avevo collaborato con Piero Bassetti, che divenne il primo Presidente della Regione Lombardia, nel movimento autonomista attivo negli anni Sessanta intorno alla rivista Esperienze Amministrative. L’obiettivo principale del movimento era l’attuazione dell’ordinamento regionale, in ritardo di ventitré anni sul dettato costituzionale.

Già allora - ma l’auspicio non era nuovo - si parlava della abolizione delle province, che oltre ad essere considerate una eredità del vecchio stato centralista, imperniato sulle prefetture (“Via il Prefetto!” era il titolo di un famoso scritto di Luigi Einaudi, del 1944), si ritenevano sostituite dal nuovo ente regionale.

Tuttavia sin d'allora ci si rendeva conto della necessità di un ente intermedio tra regioni e comuni. Era immaginato soprattutto da economisti ed urbanisti, cioè da tecnici, che lo affrontavano nell’ottica di una migliore organizzazione delle funzioni pubbliche sul territorio. In quell’ottica, che trascurava gli aspetti storici, culturali, identitari, si faticava a ricondurre ad un unico ente gli ambiti considerati ottimali con riferimento alle diverse funzioni che si riteneva dovessero svolgersi a livello di “vasta area”, cioè sovracomunale. Tutto il dibattito sfociò alla fine nel nulla, in un letargo interrotto solo venti anni dopo, esplodendo in forma più virulenta (a suo tempo si parlava di regionalismo, ora di federalismo, e anche di separatismo) con la comparsa sulla scena della Lega Nord. 

Ma i processi non governati, sottostanti a problemi irrisolti, continuano a premere e a svolgersi in modo spontaneo, più o meno selvaggio, con effetti positivi e negativi.

Le province erano 59 quando furono istituite nel 1861. Nel 1970 erano già 94. Oggi sono 123. Si può anche pensare che questo processo sia dovuto all’interesse della classe politica a “sistemare” politici falliti, clienti e parenti. Ma io credo che questo aumento sia dovuto soprattutto a un processo potenzialmente positivo, se governato: quello di realizzare livelli di governo più piccoli delle tradizionali Province, intermedi tra Comuni e Regioni, conciliando il più opportuno livello di prestazione dei servizi pubblici secondo il principio di sussidiarietà, con il senso di appartenenza di aree omogenee per tradizione storica e cultura. 

Ma quali sono queste funzioni la cui prestazione appare più opportuna a livello sovracomunale? Sono numerose: le pianificazione territoriale, la gestione del mercato del lavoro e della connessa formazione professionale, l’istruzione superiore, le infrastrutture della mobilità connesse a questa dimensione territoriale. E potenzialmente molte altre (come, ad esempio, la cultura e il turismo).

Queste riflessioni avrebbero dovuto guidare il governo in carica nel proporre una riforma organica delle autonomie locali e, in questo ambito, delle Province. Invece no: la logica che segue è di breve momento, basata su esigenze finanziarie molto opinabili, con potenziali effetti devastanti sia nell’immediato (per il disorientamento già in atto nelle attività degli enti) che nel futuro (come distorsioni e degrado nelle prestazioni delle istituzioni locali).

Si può ammettere che certe piccole provincie create negli ultimi anni non abbiano la dimensione adeguata a giustificarle, e siano state create solo per soddisfare appetiti politici locali. Tuttavia il progetto di dimezzarne il numero accorpandole, creando così delle macro-province, o subregioni, esclusivamente sulla base statistica dell’estensione territoriale e della popolazione, appare destinato a creare, al posto di enti supposti inutili, degli enti iper-inutili. Tanto più che invece di aumentarne le funzioni, togliendole opportunamente alle regioni (troppo grandi) e ai comuni (troppo piccoli: sono oltre ottomila!), si propone il contrario: ridurne le funzioni! Come si può immaginare, ad esempio, una macroprovincia che accorperebbe quelle di Como, Lecco, Monza e Varese, che a ranghi ridotti dovrebbe gestire la pianificazione territoriale o la rete delle scuole superiori di una aggregazione di territori con caratteristiche vocazioni e gravitazioni molto diverse? E dove mettiamo il capoluogo? 

Confesso che il mio pensiero è andato alla seconda legge fondamentale sulla stupidità enunciata dal compianto storico dell’economia Carlo M. Cipolla, secondo cui "la probabilità che una certa persona sia stupida è indipendente da qualsiasi altra caratteristica della stessa persona". Mi riferisco al governo di docenti universitari e di manager di cui, per altri versi, sono un sostenitore.

La cosa più grave è che invece di operare per il bene del Paese senza tener conto di un facile consenso, si cavalchi la ribellione contro le malversazioni di denaro pubblico che si verificano a tutti i livelli istituzionali, orientandola contro quella ritenuta (a torto) l’area di minor resistenza . 

Mentre si progetta tutto ciò, è assordante il silenzio sulle centinaia di enti inutili che gravano sul contribuente. In una inchiesta di qualche anno fa de Il Sole 24 Ore, risultavano circa settecento gli enti, i comitati e le commissioni ministeriali passibili di essere eliminati. Anche qui, i criteri puramente quantitativi possono portare a scelte “stupide”, come la eliminazione di enti “troppo piccoli”, come l’Accademia della Crusca. Ma usando una spending review, o un metodo zero budget (che risponde alla domanda: se tolgo questo ente o questo servizio, avrei proprio bisogno di ricrearlo?) si potrebbero eliminare enti come l’Unione Nazionale degli Ufficiali in Congedo o l'Istituto Italiano per l’Africa e l’Oriente. Ai quali dovrebbero essere aggiunti altri enti non inclusi tra gli inutili, ma in buona parte tali o comunque monopolio di gruppi di potere politici o addirittura famigliari. Cito, ad esempio, L’Automobile Club Italia, associazioni sportive come la Federazione Italiana Tennis, o la stessa Croce Rossa (su cui, come è noto, è vietato sparare) che in altri paesi è un’associazione volontaria e non governativa.

Forse si è supposto che sia più facile colpire una istituzione come la Provincia. Io credo che sia una supposizione errata. La prova potrà essere costituita dal deprecabile successo o dall’auspicabile fallimento di questa cosiddetta riforma.

Gli autori di Vorrei
Giacomo Correale Santacroce
Giacomo Correale Santacroce

Laureato in Economia all’Università Bocconi con specializzazione in Scienze dell’Amministrazione Pubblica all’Università di Bologna, ha una lunga esperienza in materia di programmazione e gestione strategica acquisita come dirigente e come consulente presso imprese e amministrazioni pubbliche. È autore di saggi e articoli pubblicati su riviste e giornali economici. Ora in pensione, dedica la sua attività pubblicistica a uno zibaldone di economia, politica ed estetica.

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