La possibilità di scambiare idee, confrontarsi, acquisire conoscenze e coscienza di realtà socio-culturali diverse. L'esperienza di Link in Puglia intorno al pomodoro, dal colonialismo al caporalato con 25 giovani da Italia, Francia, Estonia, Repubblica Ceca, Ungheria
Gli scambi giovanili sono incontri tra due o più gruppi di ragazzi di paesi diversi per affrontare temi come l’imprenditoria giovanile, lo sport, la musica, la danza, l’arte, la cultura ecc.
All’interno di un periodo minimo di 5 giorni e massimo di 21, i partecipanti hanno la possibilità di scambiare idee, confrontarsi, acquisire conoscenze e coscienza di realtà socio-culturali diverse tra loro.
Il progetto Food Revolution coordinato dall'Associazione Link, è stato uno scambio giovanile svoltosi ad Altamura (in provincia di Bari) dal 26 Agosto al 4 Settembre, finanziato dal programma europeo Erasmus+. Vi hanno partecipano 25 giovani da Italia, Francia, Estonia, Repubblica Ceca, Ungheria.
Obiettivo del progetto era riflettere sui temi del consumo consapevole e dell'autoproduzione, ma anche sullo spreco del cibo e sui diritti umani calpestati nelle campagne pugliesi durante la stagione della raccolta del pomodoro.
In una calda giornata di fine agosto sotto il sole cocente di una città del Sud Italia, mani laboriose selezionano dei pomodori da una cassetta di legno. Una musica fa da sottofondo, composta dal suono delle parole pronunciate da ognuno di loro, dalle risate mostrate al cielo e dal rumore del sacchetto che sbuffa ogni volta che un pomodoro ci cade dentro scandendo il ritmo di quella melodia.
A segnare il tempo è la pausa di quelle mani, il cui dorso ogni tanto si ferma a tamponare la fronte per asciugare il sudore. Sono mani che si ritrovano lì, insieme, a pescare pomodori dallo stesso contenitore. Si urtano ogni tanto, quelle mani di diverse nazionalità, tastano e fanno ruotare tra le dita il frutto rosso. Lo scrutano come se non lo conoscessero bene, come se lo guardassero così attentamente per la prima volta, come se non lo avessero avuto mai così vicino. Eppure il pomodoro è presente sulle tavole di tutto il mondo (o quasi), dal Messico alla Turchia, dalla Cina alla Sicilia.
Le sue radici, fisiche e storiche, sono al di là dell’Oceano Atlantico in una fascia di territorio che va dal Cile, al Perù, all’Ecuador.
In poco più di cinquecento anni il pomodoro ha compiuto il suo viaggio dalle terre degli Aztechi alle nostre, fino a diventare, oggi, il protagonista indiscusso di molti nostri piatti.
Gli spaghetti al pomodoro o la pizza, ci rendono celebri in tutto il mondo e devono parte della loro fama ad un ingrediente principale: la salsa. È in questo modo che l’incontro di prodotti di due terre così diverse e lontane tra loro si traduce in incontro tra le culture.
Ripercorrendo la storia a ritroso non si può non pensare al pomodoro come ad uno dei simboli del colonialismo. Diversi prodotti originari dell’America Latina hanno attraversato l’oceano (e non solo) per arrivare sulle nostre tavole. Dietro quei prestiti ci sono storie di sfruttamento e di violenza che mi sembra di ritrovare oggi nelle campagne della Puglia.
Piantare, raccogliere e selezionare il pomodoro per poi farlo diventare la salsa che ha condito le nostre giornate, non è stato solo un’attività. È stato il pretesto per riflettere sul senso delle cose, sull’autoproduzione, sull’importanza di conoscere la provenienza e il percorso di quello che mangiamo, sul valore del saper fare.
È stato un momento per riflettere sull’importanza della dignità del lavoro e della persona, sullo sfruttamento della manodopera nel settore agricolo. Quest’estate i media hanno dato spazio alle tragedie consumate nelle campagne pugliesi. Le tragiche morti di alcuni lavoratori stagionali hanno aperto uno squarcio sulla terribile realtà del caporalato nel mondo agricolo italiano.
Passano i secoli ma a volte alcuni argomenti risultano tristemente attuali.
Fare la salsa è stato divertente, a tratti anche faticoso e ci ha permesso di mettere da parte una bella scorta di passata che durerà sicuramente tutto l’anno. Vedere tutte quelle bottiglie che a poco a poco si mettevano in ordine sullo scaffale era la perfetta chiusura di un circolo, come quello di un viaggio che inizia e finisce nello stesso luogo.
Durante uno scambio giovanile, la dimensione interculturale acquisisce un ruolo fondamentale.
Si sperimenta l’incontro con l’altro e si dà vita a quel confronto a più voci fondamentale per comprendere la diversità e raffrontarsi con nuove culture e altri modi di pensare.
Sono voci differenti, che in questo luogo comunicano con una lingua comune.
È proprio qui che avviene quella convivialità delle differenze, autentica esperienza dell’incontro con l’altro.
Ritornata a quella giornata di fine agosto ritrovo tutti i ragazzi indaffarati. Il senso di cooperazione è palpabile nell’aria.
Il tempo scorre con fasi da catena di montaggio, tutti perfettamente organizzati e coordinati da Vito e Vittoria, anziana coppia che la terra la conosce bene perché con essa ha lavorato una vita. Vittoria cerca collaboratori validi e osserva i gesti di tutti assicurandosi che tutto vada per il verso giusto. Dopo dieci minuti ha già trovato Roberto che con solerzia risponde alle sue indicazioni senza batter ciglio. Lei lo segue con lo sguardo e annuisce soddisfatta.
Poco più in là Nandàr e Andràs, i due ungheresi simpaticamente soprannominati “i gemelli” per la loro tendenza a vestirsi allo stesso modo, lavano i grossi pentoloni ormai dismessi. Al tavolo Tereza e Kirke sono dedite all’imbottigliamento. Zuzana si riposa un attimo accanto al pozzo.
All’ora di pranzo tutto tace: la busta piena di pomodori, i tappi delle bottiglie, le voci dei ragazzi.
L’acqua del pentolone si agita sul fuoco ribollendo silenziosamente. Allo zenit tutto è immobile, solo le mosche ronzano tra gli strumenti abbandonati. Anche le ombre si sporgono timidamente e la luce di mezzogiorno avvolge tutto appiattendo le forme di quell’atrio rendendole mute, come una piazza di un quadro di Giorgio De Chirico. All’incrocio dei muri c’è un triangolino di ombra, stazione di posta di qualche insetto.
Quel silenzio assordante in contrasto con il frastuono di poco prima, mi fa pensare alle campagne descritte da Carlo Levi nei suoi scritti:
“Dalle ringhiere del balcone pendevano e dondolavano al vento le trecce di fichi (...) Davanti all’uscio, sulla strada, sotto agli stendardi neri, seccavano al sole, su tavole dai bordi sporgenti, liquide distese color di sangue di conserva di pomodoro (...).
Il grande silenzio della campagna pesava sulla cucina, e il mormorio continuo delle mosche segnava il passare delle ore, come la musica senza fine del tempo vuoto.” (Cristo si è fermato a Eboli, Torino, 1945)
Vi chiederete a questo punto, perché fare uno scambio giovanile?
Potrei dire a praticare l’inglese, a fare nuove amicizie, a trascorrere giorni spensierati e divertenti, ma pensandoci bene direi che il perché risiede nel viaggio, perché il viaggio rende il pensiero dinamico e il dinamismo aiuta a capire meglio il mondo e chi lo abita. Viaggiare per credere!