Lo smarrimento, l’insicurezza, la paura, l’incapacità di pensare a una propria storia del futuro, sono solo dell’America, o tendono a pervadere anche l’Europa? Lo stato dell'Unione attraverso i libri di Taleb, Haslett, De Lillo e il Cosmopolis di Cronenberg
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on so perché, mi è capitato negli ultimi tempi di leggere una serie di libri sulla società americana, molto interessanti ma, per lo più, decisamente sgradevoli. Del resto, quando comincio a leggere un libro, difficilmente non arrivo sino in fondo.
Il primo è stato Giocati dal Caso (Il Saggiatore, 2003) di Nassim Nicholas Taleb , più noto come autore del best seller Il Cigno Nero. La tesi del libro è che il successo che molti attribuiscono alle proprie capacità straordinarie, è in realtà dovuto solo al caso.
I protagonisti sono broker finanziari (anche l’autore lo è stato) che basano la propria azione su modelli matematici sofisticati, che tuttavia hanno spesso esiti non diversi da quelli dei fantasiosi sistemi usati dai giocatori del totocalcio, se non addirittura della smorfia che dà i numeri per il lotto. Una razionalità ridotta a calcolo, al servizio della massima irrazionalità. Spesso le loro attività frenetiche e spregiudicate si traducono in grandi arricchimenti, vite condotte nel lusso appariscente. Con il sottoprodotto di invidie, ad esempio delle mogli dei meno fortunati nei confronti di quelle dei mariti sulla cresta dell’onda, che possono permettersi abiti, gioielli e consumi sofisticati.
Ma spesso la caduta è altrettanto repentina del successo.
Di fronte a questo scenario, l’autore sembra saggiamente suggerire, insieme a una minore presunzione, un comportamento professionale prudente e meno concentrato sul denaro come fonte della felicità. Quanto a se stesso, si definisce “da una parte un professionista dell’incertezza che ha trascorso la vita cercando di non farsi giocare dal caso, dall’altra un essere umano appassionato di letteratura e di estetica, che ama lasciarsi incantare da tutto ciò che è inutile”.
Sulla spinta di recensioni invitanti, sono poi passato alla lettura di Union Atlantic, scritto dal quarantenne di successo Adam Haslett, (Einaudi, 2010) forse la più sgradevole tra queste letture. Narra di un giovane arrampicatore finanziario, Dough Fanning, che insieme alla società per la quale lavora intraprende operazioni funamboliche che, finite nel mirino della Federal Reserve, si concludono rovinosamente.
Le vicende della sua vita lo portano tra l’altro a costruire una dimora lussuosa su un’area vincolata, e ad abusare di un teenager suo ammiratore. A lui si oppongono un’anziana signora, insegnante, erede dell’area vincolata, e il fratello, autorevole esponente della FED.
La storia si conclude in modo disperante per tutti, compreso il protagonista. Il libro è stato scritto in concomitanza con il fallimento della Lehman Brothers. Ma nel racconto la Union Atlantic, una Lehman della fantasia, viene salvata “perché troppo grande per fallire”, con tutti i compromessi economici, sociali ed etici del caso.
Su questa scia, avrei dovuto leggere Cosmopolis di Don DeLillo, (Einaudi, 2003). Ho invece mancato il bersaglio con due tiri sbagliati sullo stesso autore, per pura disinformazione: Rumore Bianco (Einaudi, 1999, ed. or. 1984), e Underworld (Einaudi, 1999). Ma, come si sul dire, sbagliando s’impara.
Rumore Bianco descrive la vita di un tipo di famiglia ormai frequente anche da noi: Jack Gladney, professore universitario con specializzazione sulla vita di Hitler (pur non conoscendo il tedesco) è un pluridivorziato, con figli suoi e della attuale moglie Babette.
Tra campus e supermercati la loro vita si svolge tranquilla, finché una nube venefica si sprigiona da un vagone merci fermo alla stazione e costringe tutta la popolazione del luogo ad evacuare e subire le sorti degli sfollati. Jack, che ha respirato l’aria infetta, è a rischio di morte a tempo indeterminato. Tutta la storia, di evidente sapore onirico, è pervasa dal “rumore bianco”. Secondo Wikipedia, il rumore bianco è un segnale “caratterizzato dall’avere valori istantanei del tutto privi di correlazione... ciascun valore appare del tutto imprevedibile rispetto ai precedenti”. E cioè un segnale erratico, ma persistente. Chiaro, no? Per DeLillo è il leit motiv della paura della morte che risuona nel sottofondo della vita del protagonista (e non solo).
Il tema ricorre anche nel grande affresco di Underworld, che ripercorre, avanti e indietro, le vicende dell’America dagli anni cinquanta ai novanta, viste dal Bronx, quartiere newyorkese dove l’autore italoamericano è nato.
Anche qui assistiamo a vite che sembrano percorsi casuali, in uno scenario di residui bellici trasformati in un museo all’aperto, e nel clima della minaccia atomica della guerra fredda. Nick Shay, il principale protagonista in una folla di comprimari da romanzo russo, lavora per una azienda di smaltimento rifiuti. Anche qui la paura della morte pervade tutta la storia, richiamata da una descrizione minuziosa (p. 48) del famoso quadro “Il trionfo della morte” del Bruegel.
Ci si poteva aspettare che il libro, scritto dopo il crollo del muro di Berlino, immaginasse una sorta di rinascita del sogno americano, un clima analogo a quello della fine della seconda guerra mondiale. Si ha invece l’impressione di un persistente disorientamento, stato di allarme, definitivamente metabolizzato con l’attacco alle torri gemelle.
Per altri versi, DeLillo sembra guardare alle vicende umane nell’ottica del Quoelet, come vanitas vanitatum. Il tutto reso avvincente dalla sottile ironia che lo pervade, e da una scrittura magistrale, a momenti di grandissima poesia in prosa.
Quanto alla mancata lettura di Cosmopolis, ho rimediato andando a vedere il film omonimo di David Kronenberg che, a dire dei recensori, ricalca pedissequamente il romanzo. La sgradevolezza del film mi ha scoraggiato dal leggere anche il libro.
Siamo ancora in presenza di un giovane finanziere miliardario, Eric, di cui viene descritta una giornata trascorsa tutta nel chiuso di una limousine che attraversa New York, tra manifestazioni politiche e ingorghi del traffico, avendo come meta il barbiere dove è solito tagliarsi i capelli. La limousine è il suo mondo, il suo ufficio, il suo ambiente per i rapporti sessuali. Siamo ancora di fronte a una vita fatta di cose futili, occasionali, dominata dal dio denaro. Quoelet.
Nel corso di queste letture mi andavo chiedendo: ma che rapporto ha tutto questo con il sogno americano? Con la musica jazz, il grande cinema, i musical di successo, il primato scientifico, la vitalità artistica? Il sogno di una costante, allegra e ottimistica ricerca della felicità, il primo dei diritti umani sanciti dalla Costituzione americana. Una felicità senz’altro legata al successo economico, alla proprietà di beni materiali e al benessere fisico, ma che vede nel denaro un mezzo più che un fine. Questa ricerca sembra finita, dopo il fuggevole entusiasmo della guerra vinta, nella pura avidità, nella ricerca della ricchezza per sé, di cui la felicità finisce per essere l'esibizione.
Forse però l’incertezza, la sofferenza, la paura della morte, sono sempre stati, sì, il risvolto negativo del sogno americano, ma nello stesso tempo il fuoco che alimenta una continua fuga dal presente verso una eterna frontiera, nella convinzione inossidabile che ognuno è artefice del proprio destino. Qualsiasi cosa ne pensino i Taleb, gli Haslett, i DeLillo, questo mondo in decadenza riesce ancora ad esprimersi in scelte straordinarie come quella di darsi un presidente afroamericano.
Ma c’è un’altra domanda: lo smarrimento, l’insicurezza, la paura, l’incapacità di pensare a una propria storia del futuro, sono solo dell’America, o tendono a pervadere anche l’Europa? Marc Augé, il critico dei “non luoghi” dove trascorriamo buona parte della nostra vita (centri commerciali, aeroporti, eccetera) ritiene proprio di sì. In una recente intervista (la Repubblica, 28/01/13, p. 45) parla di una “matassa indistinta e confusa di paure” a livello globale. Che può essere sciolta, guarda caso, solo con una vita attiva.
Forse il sogno americano si sta avvicinando al Sogno Europeo su cui fantastica Jeremy Rifkin (Mondadori, 2004). Personalmente, mi auguro che a sua volta il sogno europeo si avvicini a quello americano. Abbandonando una buona volta la triste prospettiva socialdemocratica del secolo scorso, che al posto della ricerca della felicità aveva messo la sicurezza “dalla culla alla bara”.