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Colloquio telefonico con Orazio Truglio, il fotografo professionista che ha partecipato all'iniziativa Pasqua in Siria. In camper da Monza nel campo profughi, con aiuti per bambini e bambine.

 

Riceviamo e pubblichiamo

S

tasera ho voluto fare a Orazio Truglio una domanda diversa dalle solite. Gli ho chiesto di raccontarmi non tanto quel che aveva avuto di fronte (il viaggio, le peripezie, il campo, le ansie, i profughi e la loro situazione ecc.) ma il proprio modo di guardarlo come fotografo. Premetto che chi conosce Orazio di persona, sa quanto gli siano estranee le enfatizzazioni, a volte lo irrita anche ciò che avverte come una minima esagerazione. E il problema è che lui trova esagerate e stereotipate parecchie cose, si diverte a smontarle, anche a rischio di provocare e non esser capito. Sinteticamente ne è uscito questo, lo dico virgolettato, come se parlasse lui direttamente.

Quando fotografo situazioni simili, mi chiedo sempre se non sto trattando gli altri , quelli che ho intorno, come scimmie in gabbia. Perché il rischio di comportarsi così c'è tutto. Le persone son lì davanti al tuo obiettivo, ma poi tu andrai via e loro son lì e resteranno lì. In una situazione nella quale - sembra strano ma è così - la privazione più forte che rischiano di subire è quella della propria dignità, che anche fotografandoli puoi rischiare di rubargli.

Al campo profughi, pur in un quadro di drammaticità, un minimo di organizzazione esplicita o sottintesa c'è, proprio come difesa di quel filo di dignità possibile. È chiaro che c'è emergenza, ma c'è anche un tentativo di organizzarsi che in qualche modo un poco funziona. Così che, pure essendo forte la caduta che questa gente vive - magari erano impiegati, operai, artigiani, maestri, contadini fino a poco tempo prima - non è del tutto devastante come può esser, ad esempio, il post terremoto in una società altamente sviluppata, nella quale si sprofonda di colpo da un alto tenore di vita, di abitudini, in un abisso profondissimo e inatteso di bisogno assoluto.

 

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Nel campo, l'impressione che hai mentre ci cammini con l'occhio di un fotografo, è di esser nella retrovia di una guerra, con tutto quel che ne consegue, compresi i botti in lontananza, gli assembramenti appena arriva un carico di aiuti, il transito di feriti, morti, tutte le altre emergenze di tipo igienico, alimentare, medico. Quando fotografi, però, ti accorgi subito che troppo spesso queste persone son diventate oggetto di "spettacolo" per altri, giornalisti o fotografi che entrano nel campo, ci fan un passaggio veloce, distribuiscono cioccolato (si fa per dire...) e poi se ne vanno, dopo aver fatto una buona e relativamente facile provvista di immagini da rivendere, in un modo o nell'altro.

Fotografare, quindi, e te lo senti mentre lo fai, ti sembra quasi un atto irrispettoso, avverti persino un po' di ostilità a volte, e capisci che han ragione. E ci son anche quelli che ti dicono basta, anche se chiedi il permesso con rispetto. Io questo disagio che provo, in un certo senso, lo supero camminando in continuazione, fotografo mentre cammino, come se non volessi fermarmi a veder quel che ho visto e fissato un istante prima, persone comprese. Fermarmi vorrebbe dire farmi coinvolgere, forse, e allora cammino e cammino, sempre, mentre scatto.

Differente è fotografare i bambini. I bambini ti catturano, non solo emotivamente, ma proprio fisicamente, ti trascinano. Vogliono che giochi con loro, anche. Andrea e Martino - i miei due compagni, fotografo e giornalista - ci han giocato. Io faccio fatica, perché cerco di mantenere un certo distacco rispetto a quel che vedo, sarà l'esperienza ma spesso ci riesco, penso che sia il modo di documentarlo al meglio possibile, è una mia opinione, un mio modo di fare reportage. Quando vedo i bambini, quel che penso mentre li fotografo non è tanto la situazione di miseria o malattia che vivono, le cose immediatamente appariscenti. Penso invece che non solo, forse, non avranno un futuro, penso che non hanno neppure il presente. Perché questo presente gli sta rubando comunque il futuro, anche se sopravvivessero: non c'è scuola, non c'è una socializzazione normale, c'è solo quel disastro quotidiano che diventa pian piano un modo di vivere, ci si abitua e ci si adatta, sempre se non si muore di qualche accidente. E penso che quei bambini, quando avranno trent'anni, se ci arriveranno, saranno stati educati così, saranno cresciuti così. E il loro futuro sarà un ulteriore disastro cui abituarsi, o cui saranno già abituati. Spero di no, ma se li guardo non posso non pensare che possa esser così. Realisticamente.”

Gli autori di Vorrei
Michelangelo Casiraghi