20130419-Fabrizio-barca 

Il manifesto del ministro e la necessità di rinnovamento e di articolazione sia dei partiti che delle istituzioni è determinata  anche  dall’innalzamento del livello culturale  generale della popolazione

 

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irca  un mese fa (il 23 marzo) questa rivista ha pubblicato un mio articolo dal titolo “Rifare i partiti”, che riprendeva in buona parte un mio scritto di un anno fa (28  gennaio 2012) ad uso interno del Circolo 6 del PD di Monza, dopo la caduta di Berlusconi e la formazione del Governo Monti.

 In quell'articolo sostenevo due cose: 1. Che i partiti debbono trasformarsi da organizzazione chiuse, strumenti di carriera politica per gli adepti, in organizzazioni aperte, come le organizzazioni  non profit,  finanziati prevalentemente dagli iscritti; 2. Che  tra i loro compiti fondamentali vi è  quello della  selezione dei migliori (oi aristoi) a cui affidare il governo delle istituzioni ai diversi livelli. 

Affermavo inoltre che il PD mi pareva più degli altri partiti sulla buona strada per il rinnovamento, e che questo doveva cominciare dalla periferia, dai circoli.

 Ed ecco che Fabrizio Barca, personaggio di grande levatura   istituzionale ed economica, Ministro in carica per la Coesione territoriale nel Governo Monti, l’11 aprile annuncia la sua iscrizione al PD, e divulga il giorno dopo  una “Memoria politica”  dal titolo “Un partito nuovo per un buon governo”. 

 Ovviamente, cerco subito di confrontare  le mie proposte di semplice cittadino con le complesse argomentazioni dello statista. Mi sembra di venirne fuori non male (!), ma con qualche carenza rilevante (!!).

 Due sono le proposte di Barca che mi sembrano fondamentali:

  1. La  netta separazione tra partiti e istituzioni. Occorre  superare l’attuale  “perverso affratellamento” tra “una macchina dello stato arcaica e autoreferenziale” e “partiti stato-centrici”. I partiti devono diventare “rete... di mobilitazione... per incalzare lo stato” (p.2). Quindi,  se un eletto alle cariche istituzionali proviene dalle fila di un partito, deve dimettersi da quest’ultimo.  Per rompere   la reciproca dipendenza tra partiti e istituzioni (che Barca chiama astrusamente catoblepismo), occorre anche eliminare o ridurre al minimo il finanziamento pubblico dei partiti, che debbono vivere prevalentemente dei contributi dei loro iscritti.

  2. Pur riconoscendo come funzione del partito la selezione delle classi dirigenti, Barca sottolinea ripetutamente  che, al di là delle competenze e capacità culturali, scientifiche, professionali richieste dai ruoli dirigenziali, nessuno ha in tasca la verità. La conoscenza è diffusa tra tutti i cittadini e a tutti i livelli e aree territoriali; e questo fatto esige  il  coinvolgimento di tutti nella ricerca della soluzione dei problemi della cosa pubblica.

 

Un partito moderno “di sinistra” (basta, dice Barca,  con l’ipocrisia del termine “centro-sinistra”! Concordo), deve evitare concezioni  “minimaliste”, d’ispirazione liberista, ma anche superare le soluzioni  “socialdemocratiche”, perché tutte e due legate all’idea che un gruppo ristretto possa ”disporre della conoscenza per prendere le decisioni necessarie al pubblico interesse”. 

Il metodo da adottare è quello dello “sperimentalismo democratico”,  fondato su una “mobilitazione cognitiva” allargata. A questo scopo occorre un “partito palestra”, “saldamente radicato nel territorio, animato dalla partecipazione e dal volontariato di chi ha altrove il proprio lavoro ”. Il che significa superamento  del  “partito scuola di vita”, del “partito occupazione dello stato”, ma  anche esclusione di un “partito liquido” (probabile allusione a Renzi)  o di un semplice pensatoio. Il partito deve essere una “interfaccia tra società e governo della cosa pubblica..., rigorosamente separato dallo stato”, anzi “sfidante dello stato”.

 Barca rileva   che la necessità di rinnovamento e di articolazione sia dei partiti che delle istituzioni è determinata  anche  dall’innalzamento del livello culturale  generale della popolazione e  dalla conseguente difficoltà di soddisfare con interventi uniformi la grande varietà di progetti esistenziali di persone e gruppi diversi (in questo, Barca si ispira molto all’idea di libertà del premio Nobel Amartya Sen). Per questo occorre accettare,  e anzi puntare su una grande articolazione sociale e istituzionale (mi viene in mente la rozzezza del discorso nostrano sulla abolizione delle province, di cui ho scritto, controcorrente, su questa rivista).

La proposta di Barca, di chiara ispirazione riformista, mi convince in ogni sua parte. Essa esalta il coinvolgimento e l'impegno  potenziale e permanente di tutti i cittadini, ai diversi livelli di governo, sub-nazionali e internazionali. Soprattutto  mi ha convinto il concetto che la conoscenza non è concentrata nella mente dei migliori, ma è diffusa tra tutti gli uomini.

 E mi piace anche là dove dice che  il partito deve sviluppare una “visione di medio-lungo termine (io direi tout court “di lungo termine”!) sullo stato e sulla società, a livello globale, nazionale ed europeo... una visione del’Italia e dell’Europa auspicabile per i nostri pronipoti... non un modello superiore di società ma una società migliore di quella attuale”.

Tuttavia, forse, oltre a trattare in modo approfondito il tema della partecipazione, del coinvolgimento, della mobilitazione, la proposta   di Barca avrebbe dovuto rendere più espliciti gli aspetti relativi al decidere, e alla leadership che del decidere è la sede naturale.

Nei confronti del termine  “partecipazione” (che peraltro Barca usa con grande discrezione) io avverto sempre un  istintivo senso di rigetto, come mi accade, ad esempio, verso espressioni tipo “cultura del fare” o “creare lavoro”. E’ ciò per l’uso sfacciatamente strumentale e provocatorio che spesso si fa  di questi termini,  e per l’enorme  iato tra lo spreco verbale e la loro effettiva (e buona!) traduzione in atti concreti. 

Per chiarire,  guardiamo a cosa esigono normalmente i cittadini dalla politica. Purtroppo, il desiderio di partecipazione, di coinvolgimento è lontano da ciò che sarebbe auspicabile. La maggioranza dei cittadini è concentrata sul proprio “particulare” (come del resto molti tra i loro rappresentanti!), e crede che “la politica” sia responsabilità di altri, per i quali peraltro non nutre grande stima e fiducia. Molti di quelli che chiamiamo cittadini sono purtroppo ancora dei sudditi. La partecipazione, la conoscenza,  il senso di responsabilità vanno  continuamente “accese”, per usare un termine  caro a Barca. E d è senz'altro compito del  partito  quello di promuovere la costituzione  “di una rete territoriale di cittadini permanentemente mobilitati”.

Ma dall’altro lato i cittadini esigono, giustamente, che il   sistema democratico di governo funzioni,  risponda alle loro aspirazioni. Cioè,  che alla fine ci sia qualcuno che prende le decisioni, e che le prenda tempestivamente (cioè a tempo debito).  Il tempo delle decisioni è parte del contenuto: basti pensare al noto detto “giustizia ritardata, giustizia denegata”. E  il compito di decidere è proprio delle istituzioni, e in particolare della  leadership.

Ora, occorre essere consapevoli del fatto che qualsiasi decisione viene  presa in condizioni di conoscenze parziali e  d'incertezza. Il decidere (lo dice la stessa parola, che significa “tagliare”) ha in sé per sua natura elementi di rischio, in un certo senso di scommessa sul futuro (il più inesplorato dei continenti, si potrebbe dire con Shakespeare).  Questo vale  per le imprese  (se aspettano di conoscere tutto sulle prospettive di successo di un prodotto, saranno sopravanzate dai concorrenti), ma è vero anche per le istituzioni, i cui ritardi nel decidere, come vediamo oggigiorno, portano al loro fallimento.

A questa oggettiva incertezza delle conoscenze sul  futuro, occorre aggiungere le false conoscenze indotte dagli interessi particolari attraverso  manipolazioni di dati e uso demagogico dei mezzi d’informazione di ogni tipo.

Tutto ciò conforta la convinzione che,   quanto più chi deve decidere riesce a  farlo attraverso  una vasta “mobilitazione cognitiva”,  lo  “sperimentalismo democratico”, utlilizzando  le regole della  democrazia deliberativa (in inglese “to delibarate” non significa decidere, ma “ponderare, riflettere a fondo”), tanto più sarà in grado di prendere decisioni corrispondenti all’interesse generale.

Non dubito  che tutto ciò sia implicito nel discorso di Barca. Il “partito palestra politica”, soggetto  sfidante e controllante  delle istituzioni, non potrà non  esigere che, alla fine, vengano prese le decisioni migliori e a tempo debito. Ma questa esigenza  dovrebbe forse essere resa più esplicita. Anche  per sottolineare che, se i partiti, e in particolare la sinistra, non svolgono in modo adeguato il ruolo che Barca gli attribuisce, gli elettori possono essere sedotti  da chi propone soluzioni facili e immediate, ma in realtà disastrose, magari all’insegna della cosiddetta “cultura del fare”. Così si spiega l'avvento di  sistemi autoritari.

 

Puoi scaricare il pdf del manifesto di Fabrizio Barca da qui:
pdfFabrizio-Barca-Un-partito-nuovo-per-un-buon-governo.pdf189 KB

Gli autori di Vorrei
Giacomo Correale Santacroce
Giacomo Correale Santacroce

Laureato in Economia all’Università Bocconi con specializzazione in Scienze dell’Amministrazione Pubblica all’Università di Bologna, ha una lunga esperienza in materia di programmazione e gestione strategica acquisita come dirigente e come consulente presso imprese e amministrazioni pubbliche. È autore di saggi e articoli pubblicati su riviste e giornali economici. Ora in pensione, dedica la sua attività pubblicistica a uno zibaldone di economia, politica ed estetica.

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