Ovvero “le fatiche delle pianure”. Racconto per immagini di una città che lentamente prova a costruire un futuro
Dietro di noi sono le fatiche delle montagne
davanti a noi stanno le fatiche delle pianure.
Constatazione. Bertold Brecht
Sarajevo è l’attentato all’arciduca, l’abbiamo letto tutti sui libri di scuola. È la guerra che inonda gli schermi dei nostri salotti nei primi anni ’90, nessuno lo dimentica. Quel nome però è molto altro. Storia di domini, ottomano e austroungarico, poi la Jugoslavia di Tito. Storia di culture e religioni che qui realizzano l’utopia della convivenza. Cattolici, ortodossi, islamici, ebrei sefarditi nei secoli edificano la Gerusalemme d’Europa.
Ero una giovane spettatrice di sette anni, quando il tubo catodico rimandava immagini di palazzi in fiamme, grappoli di bombe, come fossero albicocche troppo mature e uomini in giacca e cravatta o in divisa, con tutte le soluzioni. C’erano gli stupri e le fosse comuni nei programmi di approfondimento. Per me erano grida e silenzi che sconvolgevano la pancia prima che la testa, in un moto di rigurgito più che ribellione. Oggi, ringrazio la mia curiosità per avermi portata da adulta fra quelle genti, i loro racconti, le loro quotidianità. Ora che di loro nessuno ascolta il lamento.
Sono passati vent’anni dalla sigla posta sugli accordi di Dayton: era il novembre 1995. La pace mise la parola fine all’assedio più lungo della storia contemporanea, ma lasciò l’intera Bosnia prigioniera di uno tra i peggiori compromessi che le fatiche delle pianure abbiano dovuto accollarsi. Oggi, l’eredità che più pesa sulla salute dell’intero stato è una macchina amministrativo-burocratica elefantiaca che, oltretutto, premia la divisione sancita in ragione della situazione militare. Prima del conflitto, questa terra non conosceva separazioni. Ora, coesistono due entità: la federazione croato-musulmana e la repubblica serba.
Come se questo non bastasse, corruzione e disoccupazione affliggono il paese, lasciando poche speranze a chi, come alcune frange della società civile, vorrebbe guardare al futuro. C’è la possibilità che la Bosnia entri nell’Unione Europea, ma non è certo questa la soluzione per una Nazione che ha abdicato.
La Bosnia Erzegovina però non è solo la sua classe dirigente. È anche la sua nazionale di calcio che, qualificandosi all’ultimo campionato mondiale, ha affollato le strade di abbracci e urla di gioia. È il Festival del Film di Sarajevo, che ogni anno richiama cineasti e cinefili da tutto il mondo; è il Festival del Jazz, che nulla ha da invidiare ai più blasonati.
Non ci sono tombe nelle mie fotografie, eppure la città ne è ricolma. Chiunque veda per la prima volta Sarajevo non può che restare a bocca aperta di fronte alle distese bianche che, come macchie, si insinuano sui suoi pendii. Una tomba qua e là, si può trovare anche nei giardini pubblici, persino tra un palazzo e l’altro. Non sono solo musulmani. Sepolture ortodosse, cattoliche, ebraiche: il monoteismo qui non si dimentica di nessuno.
Ho vissuto a Sarajevo un mese, a cavallo tra giugno e luglio. Volevo raccontare il lento vivere quotidiano, quello che prova a smarcare la capitale dai ricordi dell’assedio. Perché a Sarajevo oggi è così: non si può dire che la guerra non abbia lasciato cicatrici e strascichi, ma i suoi cittadini provano, fra mille difficoltà, a ricostruire una convivenza pacifica e a ridare dignità a luoghi simbolo della loro cultura, quella che vive.
1. BAŠCARŠIJA - SEBILJ
La fontana ottomana è il simbolo di Sarajevo. Punto di ritrovo per sarajeviti e turisti, leggenda vuole che un sorso della sua acqua abbia il potere di ricondurti nuovamente in città.
2. BAŠCARŠIJA
La aršija è il centro commerciale, religioso e sociale di ogni città islamica. Qui le dame ogni mattina, prima che i bazar aprano le loro porte, si ritrovano a discutere dei problemi della città.
3. VIJEČNICA
La Biblioteca nazionale ed universitaria della Bosnia ed Erzegovina è tornata al suo splendore lo scorso anno. Era la notte del 25 agosto 1992 e a bruciare per tre giorni sotto il tiro dei cecchini c’era l’esistenza stessa di un popolo, depredato non solo di volumi d’inestimabile valore culturale ma anche della propria identità.
4. TRAM
Il tram non è l’unico mezzo pubblico della città, ma le sue linee attraversano tutto il centro arrivando fino alle periferie.
5. CATTEDRALE DEL SACRO CUORE
Un gruppo di ragazze musulmane in visita al luogo di culto cattolico. Nei paesi balcanici la religione, oltre a riflettere quello in cui si crede, dipinge in special modo quello che si è, conferendo dunque un’identità sociale e culturale che prescinde dalla sua osservanza o meno.
6. CHIESA ORTODOSSA DEGLI ARCANGELI GABRIELE E MICHELE
Il gioco degli scacchi è molto diffuso in città. Finché la luce lo consente, ogni giorno sarajeviti d’ogni ordine d’età si sfidano in partite spesso epiche.
7. HOLIDAY INN E PARLAMENTO - VIALE DEI CECCHINI
Due simboli iconografici della Sarajevo cinta d’assedio. L’Holiday Inn, costruito per l’evento olimpionico del 1984, ha ospitato per buona parte del conflitto numerose agenzie di stampa internazionali, ma non solo. Lo stato maggiore serbo, il parlamento dei serbi bosniaci e lo stesso Radovan Karadzic furono suoi ospiti, pianificatori di quel che sarebbe stato l’inferno. Di fronte, a pochi passi, il Parlamento bruciava. Oggi, Holiday Inn e Parlamento galleggiano nel silenzio. Il primo di cattivi affari, il secondo non è certo da meno.
8. MOJMILO
È uno dei quartieri più poveri della città. Ex villaggio olimpico, porta ancora ovunque i segni del conflitto, in cielo come per le sue vie. Qui ogni giorno il mondo finisce, perché qui i turisti non ci sono ma i racconti sottovoce di chi trova il coraggio di parlarmi sono quelli di un passato indelebile, d’immagini strazianti e di follie ingiustificate. Sono anche i racconti di un presente che sembra non rivolgere lo sguardo al futuro, perché qui, dove disoccupazione e fanatismi bussano a troppe porte, tutte le speranze restano senza fiato.
9. MOJMILO REMEMBERING
Ai piedi dei palazzi titini, fra i buchi dei proiettili si fa largo un sentimento comune all’intera città: non dimenticare il massacro che a pochi chilometri da qui si è consumato come il peggior incubo annunciato. Sono oltre 8.000 gli uomini che l’11 luglio 1995 hanno perso la vita in nome di una ferrea logica che affonda le radici nel nazionalismo e nella realpolitik più biechi. A vent’anni dal massacro, molte famiglie restano ancora senza nemmeno le spoglie dei propri cari e con una giustizia vacillante anche sul piano internazionale. Il veto russo alla risoluzione del Consiglio di Sicurezza ONU ha messo in un angolo la definizione di “genocidio”, proprio pochi giorni dopo la pubblicazione di un’inchiesta dell’Observer che denuncia Stati Uniti, Francia e Gran Bretagna quali silenti spettatori di fatti a loro noti.
10. FORTEZZA GIALLA
Il panorama non è l’unico, ma è sicuramente quello dal quale si gode la vista migliore, alla giusta distanza. Da lassù l’intera città è in pace.
Paola Dottor
Milano, gennaio 1985: la “nevicata del secolo”, per non farci mancare niente fin da principio. Mi appioppano il nome della nonna paterna e mi ritrovo un cognome non facile da gestire. Infanzia e adolescenza trascorrono in Brianza con bicicli rossi, partite di basket e versioni di greco. Scorre anche un sacco di musica e cinematografia. Pessime, ma infondo giustificate dal decennio.
Da adulta decido di vedere il mondo il più possibile, di scrivere per dei folli che mi pagano e di dare un senso al nome di famiglia, laureandomi in Scienze Politiche. Con il pezzo di carta in mano, raccolgo tutti i miei stracci e volo oltre oceano dove, tra Washington, New York e Boston, parlucchio quella lingua che tutti vogliono si sappia e che io non ho mai digerito. Me la cavo e torno in patria giusto il tempo di far qualche saluto, prima di esser catapultata oltralpe, dove nemmeno l’ordinateur si interessa al mio inglese. A Parigi scrivo di quello che accade nel mondo, racconto dei posti che ho conosciuto negli anni e mi destreggio nell’arte di scegliere il rosso migliore per l’apéro bobo. Dopo tutto però, Milano mi manca e penso che sia la città dove vorrei vivere. Ci torno e ci lavoro, scrivendo, fotografando, inventando video e organizzando eventi.
Giro in Bikemi, finalmente mi accompagno a buona musica (al cinema concedo ancora qualche défaillance artistica) e cucino con un bicchiere di vino a portata di mano. Perché alcune usanze parigine restano, come gli amici.
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