Dossier. Spiritualità vo cercando. La formazione spirituale e religiosa dei missionari cattolici, sempre meno italiani e sempre più stranieri. Intervista a Padre Francesco Rapacioli, che dirige il Pontificio Istituto per le Missioni Estere di Monza
I missionari, nella religione cattolica, hanno il delicato compito di convertire chi ancora non ha abbracciato il cristianesimo. Per certi aspetti, quindi, di orientare la spiritualità dell'interlocutore verso la propria fede. Comunque si voglia vedere la cosa – necessaria diffusione della Parola o, più prosaicamente, invasione della sfera altrui – appare chiaro che un tale compito è alla portata soltanto di chi ha dedicato molto tempo a se stesso e alla propria dimensione spirituale. Come si forma quindi un missionario cattolico, e come approfondisce e rafforza la propria spiritualità? Ne abbiamo parlato con Padre Francesco Rapacioli, rettore del Pontificio Istituto per le Missioni Estere di Monza, che dal 1926 forma buona parte dei missionari che dall'Italia partono per svolgere il loro compito in diverse parti del mondo.
Che età hanno i vostri seminaristi? Che cosa studiano?
Coloro che arrivano qui vengono di solito da percorsi di formazione differenti: nella stessa classe quindi possono capitare persone di età molto diverse.
Qui si insegnano teologia e filosofia, e gli stranieri ovviamente seguono corsi specifici di italiano. C'è anche un corso di spiritualità che dura un anno, mentre quello di teologia ne dura quattro.
In cosa consiste il corso di spiritualità?
In generale si cerca di approfondire la spiritualità cristiana, tenendo ben presenti anche le altre spiritualità, compresa quella atea, che esiste e va messa nel conto.
Esistono dei requisiti per essere ammessi?
In generale non ci sono dei veri e propri requisiti, anche se a volte siamo costretti a guardare l'età: la vita del missionario richiede capacità e abilità che dopo una certa età è difficile acquisire. Chi esce da qui va in un paese diverso dal proprio, di cui deve imparare lingua e cultura, perciò tendiamo a considerare i trent'anni come discrimine. Ovviamente con certi margini di tolleranza, in base ai casi specifici. Per un italiano, poniamo, presuppone una diversa difficoltà imparare il portoghese rispetto al cinese. L'unico vincolo vero e proprio è l'eventuale presenza di legami affettivi forti, che è in contrasto con il celibato del sacerdozio.
Com'è la giornata tipo di un seminarista? Quanto tempo è dedicato al raccoglimento, alla meditazione o alla preghiera?
La giornata qui comincia alle sette, con la colazione e la messa del mattino. Dopo di che, ci si dedica allo studio. I momenti conviviali – colazione, pranzo e cena – sono sempre condivisi. I momenti di preghiera sono sia comunitari, come la messa mattutina e serale, sia individuali e intimi. Oltre alle occasioni di raccoglimento, ci sono poi anche momenti ricreativi come serate culturali ed eventi sportivi. La "libera uscita" è il giovedì.
Il cortile interno del PIME, con il muro che lo separa dal Parco di Monza
Qual è la provenienza geografica dei vostri seminaristi?
Provengono da tutti e dodici i paesi del mondo in cui siamo presenti. Quest'anno su 45 seminaristi, 3 sono del nord Italia e tutti gli altri provengono dall'Africa, dall'India, dal Bangladesh, ma anche da Brasile, Messico e USA. Fino al 1989, l'Istituto era aperto solo agli italiani, con alcune eccezioni per chi provenisse da paesi come Brasile o Stati Uniti. Dopo il 1989 si è invece deciso di aprire le porte anche ai cittadini di quei paesi in cui il cristianesimo è minoritario. Ora siamo decisamente internazionali.
È quindi vero che per gli italiani si fa sentire la crisi delle vocazioni?
Sì, è vero. Al momento i nostri missionari in giro per il mondo sono ancora in maggioranza italiani, ma sono presbiteri "di lungo corso", con tanti anni di servizio sulle spalle. Le nuove leve sono invece in maggioranza schiacciante stranieri, quindi in termini assoluti gli italiani stanno diminuendo drasticamente.
A cosa si deve, secondo lei, questa crisi?
È sicuramente una questione di secolarizzazione, che non riguarda soltanto i cristiani o l'occidente, ma tutto il mondo. Si assiste a fenomeni simili anche in paesi "insospettabili" come India o Bangladesh, che una volta erano orgogliosamente religiosi. Il miglioramento dello status sociale, le migrazioni... una serie di fattori ha fatto sì che anche nei paesi orientali i valori religiosi e spirituali perdano il passo rispetto a valori di altro tipo. Il risultato non è soltanto una generale riduzione del numero di vocazioni, ma anche del numero di figli, per dire. E anche questo influisce. Se in una famiglia numerosa uno dei figli sceglie il sacerdozio, pazienza: la famiglia sarà continuata dagli altri. Se invece a diventare prete è un figlio unico, può essere visto anche in modo tragico dai familiari.
Esistono ancora i Don Abbondio nei seminari? Cioè quelli che si avvicinano a questa vita per la sicurezza che può offrire e non per reale vocazione?
No, in Italia non ci sono più. I seminaristi sono sicuramente in diminuzione, ma almeno garantiscono una vocazione più pura. In occidente, la scelta di diventare sacerdote o missionario è una scelta difficile da comprendere, che ha un costo. Significa andare controcorrente ed esserne consapevoli. Diverso forse il discorso in quelle aree in cui c'è una povertà più diffusa...
Spiritualità e materia sono in conflitto, allora? O possono convivere?
Più che di conflitto, io parlerei di un atteggiamento esistenziale di fondo. Il prete non conduce solo una vita più sobria, ma ha proprio un diverso modo di vedere. Chi è ingolfato dalle cose, o anche dai rapporti personali – che ingolfano la vita tanto quanto le cose materiali, se uno lo permette – chi si lascia ingolfare da tutto questo, non avrà mai il giusto distacco. L'atteggiamento spirituale caratterizza quella persona la cui vocazione polarizza ogni altra cosa. Ma non è alienato: semplicemente riesce ad avere quella distanza che gli permette di vedere le cose nella giusta prospettiva.
In che cosa consiste quindi la spiritualità per un seminarista cattolico?
La spiritualità è la capacità di mettete a fuoco, che ti permette di vivere pienamente. Significa vivere il mondo senza diventarne dipendente, o peggio vittima. Spesso in questa società non ci basta nemmeno il mondo intero: è il rischio connesso all'avidità senza controllo. Per questo bisogna trovare un punto di riferimento ulteriore. La spiritualità è un discorso di libertà, connesso a quel distacco di cui parlavo prima. Un distacco che non è disinteresse, ma al contrario permette di stabilire una vicinanza vera.
Giochiamo con gli stereotipi: la mentalità brianzola, da sempre legata al lavoro, alla fabbrica e ai dané, è compatibile con la dimensione spirituale?
Secondo me il carattere brianzolo possiede tratti molto importanti per una dimensione spirituale, come la laboriosità, la creatività, l'intraprendenza. Tutte caratteristiche che i missionari lombardi hanno "esportato" all'estero, spesso creando vere e proprie attività manifatturiere in grado di autofinanziarsi e sostenere anche altre attività.
Per questo ritengo che siano caratteristiche importanti di una dimensione spirituale, perché fanno sì che la carità non sia solo buona, ma anche intelligente, cioè capace di adattarsi al contesto in cui viene portata. La capacità organizzativa che si attribusice di solito ai lombardi, in questo senso, non è per nulla antitetica alla spiritualità: uno può lavorare come un matto per arricchirsi alle spalle degli altri o per fare del bene. Il lavoro è lo stesso. A renderlo spirituale è il valore che gli si attribuisce.