Spesso chi ha un disagio psichico è considerato un puffo, ma nessuno ha una sola identità che permette di definirlo, si è soli, vulnerabili, fragili. Il contatto reale con la sofferenza mentale si ha solo attraverso la vicinanza e la frequentazione perché siamo tutti diversi
Io
odio i puffi, li ho sempre odiati anche da bambina e visto che non sono Gargamella cercherò di spiegarmi un po’meglio. Non è per i loro difetti di pronuncia, simpatici in verità, ma è perché sono tutti uguali e se aprono bocca hanno ciascuno solo una qualità. A me dà fastidio, mi sembra molto più assurdo questo, che abitare nei funghi. Spesso chi ha un disagio psichico è considerato un puffo, ma nessuno ha una sola identità che permette di definirlo, si è soli, vulnerabili, fragili. I temi che emergono più o meno esasperati rientrano tra le esperienze umane, ce ne sono di buffe, di enigmatiche, di decisamente delicate o drammatiche, ma la persona sofferente è piena di risorse e la rete delle relazioni che si può costruire è lo strumento di cura. Spesso siamo di fronte a chi ha difficoltà ad entrare in comunicazione sia con gli altri che con se stesso, a cui bisognerebbe facilitare tutto questo con una sorta di fiducia verso il mondo.
Se si ha qualche problema, se non si sta bene non si è puffi, non si è solo il problema, non si è solo il non stare bene. Fondamentali sono dignità e autonomia perché raramente si passa direttamente dalla salute alla malattia, molto spesso si vive lo stadio intermedio, quello del disagio, con un senso di non disponibilità, di insicurezza.
Io odio i puffi, mi mettono ansia: se un è arrabiato è solo arrabbiato, se è pigro è solo pigro, se tonto solo tonto. Ma no, non è possibile è tutto più complicato, siamo tutti più complicati ed interessanti. L’abitudine porta a vedere sempre meno l’altro, l’assenza di stimoli demotiva, la perdita di ogni carattere di novità logora progressivamente i rapporti. Il puffo brontolone fa quello che brontola, ma il depresso può essere e fare altro che il depresso, chi è schizzofrenico non è la sua schizzofrenia. Non siamo come i puffi, non siamo facili, non dobbiamo essere considerati prevedibili.
Il contatto reale con la sofferenza mentale si ha solo attraverso la vicinanza e la frequentazione, l’interesse per la persona può nascere con la semplice conoscenza reciproca, che arriva lentamente, a volte per curiosità perché siamo tutti diversi: è la qualità della relazione ad essere decisiva. Il confronto risulta terapeutico per tutte le parti in causa mentre ci si conosce in un “continum variabile” che è la vita di ciascuno. Non schematizzando troppo l’esistenza quotidiana si evita di farlo anche nel definire gli aspetti patologici: nessuno stato è lineare, neanche la realtà clinica, o quella esistenziale. Io odio i puffi, mi mettono a disagio: se uno è vecchio e saggio è solo vecchio e saggio, se uno è creativo è solo creativo, se una è una femmina è solo una femmina. Tutti dovrebbero essere stimolati a riappropriarsi di ogni possibilità che allontani dagli stereotipi, ad essere propositivi e non accettare come inevitabile la passività. La vicinanza e l’apprezzamento aiutano a cogliere tutto ciò che c’è di buono nelle persone e nel mondo circostante: la terapia per essere veramente tale deve essere con e per la collettività, e la collettività è complicata, multiforme e misteriosa.
Tutti cerchiamo di risolvere problemi per “esistere”, per “sentirci bene” in una relazione e sappiamo che sentirsi spalleggiati e difesi è importante.
La riabilitazione esiste solo al di là della rigida localizzazione della patologia, integrando nel contesto della malattia soggettività e campo sociale. Valorizzando la parte sana di ognuno restituisce soggettività e dignità nell’incontro col mondo circostante, moltiplica gli attori nell’azione, genera apertura. Non può fare a meno della professionalità, ma deve arricchirsi di competenze ed esperienze altre, far collaborare diverse figure per creare nuove occasioni di cura. L’efficacia non è data dalla quantità degli interventi realizzati, ma dagli effetti positivi sulla qualità della vita riscontrabili nell’altro. È indispensabile una terapia sociale: atto pratico di integrazione, che ricompone. Non esistono abilità né disabilità in sé, la riabilitazione non è la sostituzione delle disabilità con le abilità, ma un insieme di strategie per aumentare le opportunità di scambio, di risorse, di affetti.
Per salvaguardare la salute mentale bisogna restituire alla persona la possibilità di esprimere la sua ricchezza interiore e consentire a tutti di conoscere e integrare ciò che porta nella nostra esistenza, in uno scambio di esperienze umane senza etichette. Ci sono sempre cambiamenti fattibili, ma si tratta di introdurre la capacità di affrontarli, anche quando fanno paura, angosciano e mettono in crisi.