Conversazione con Giovanni Tagliavini, "grande osservatore" secondo il critico Jean Blanchaert e "manipolatore di immagini" per autodefinizione, nelle cui opere creatività e bellezza sono inscindibili dalla funzione sociale dell'arte.
Il Grande Osservatore
“Giovanni Tagliavini, dopo un lungo percorso trentennale, ha trovato la sua impeccabile cifra stilistica, quella che gli consente di essere pittore, maestro del colore, psicologo, sociologo, umorista e antropologo della nostra società.”
Così esordisce il noto gallerista e critico d’arte Jean Blanchaert in “Il grande osservatore”, testo di presentazione della mostra da lui curata “La bellezza ci salverà”, la personale di Giovanni Tagliavini svoltasi dal 21 febbraio al 7 marzo 2022 nella Palestra Visconti dell'Arci Bellezza di Milano.
Una ventina le opere appese alle pareti dello scantinato dove ancora ci sono i sacchi e i punching balls con i quali, racconta Tagliavini, si allenavano “i tanti ragazzi poveri che negli anni del dopoguerra andavano in cerca di fortuna nell’ambiguo mondo della boxe”. In quello spazio, dove ancora echeggia la presenza di Luchino Visconti e di un bellissimo e giovanissimo Alain Delon che lì hanno girato le scene di pugilato di “Rocco e i suoi fratelli”, i quadri di Tagliavini, già espressivamente potenti di per sé, si sono caricati ulteriormente di una tradizione che non si stanca di gridare le ingiustizie e celebrare gli ultimi.
Giovanni Tagliavini nella Palestra Visconti dell'Arci Bellezza di Milano. Foto di E. Raimondi
Uno scorcio della Palestra Visconti all'Arci Bellezza di via Giovanni Bellezza a Milano.
Tecnicamente le opere sono realizzate grazie ai misteri di un sapiente uso di diversi mezzi. Dice ancora Blanchaert: “Tagliavini disegna, scannerizza, usa sapientemente Photoshop e alla fine ottiene un quadro digitale. Il file rimane nel suo archivio, ma il dipinto in questione, perché di dipinto si tratta, avrà una tiratura a tre esemplari, come accade per molti lavori fotografici. (...) Tavaglini è in tale sintonia col software da farti credere che ti trovi di fronte a un acquarello molto liquido oppure a un'opera realizzata ad aerosol."
A dispetto dell’esuberanza dei colori e della carica grottesca di molte sue opere, compresi gli autoritratti più o meno dichiarati, nei quali a volte amplifica la deformazione di un occhio che nella realtà è invece un lievissimo strabismo, Giovanni Tagliavini è molto riservato, dotato di un'ironia e di un'autoironia sottili ed è soprattutto incline a un'insolita modestia nel parlare di sé e delle sue opere.
Autoritratto
IOioio oi
IO occhiali
Ho visitato l'esposizione La bellezza ci salverà il giorno precedente la chiusura. Eravamo già a quasi due settimane dall'inizio dei bombardamenti russi sull'Ucraina e Tagliavini, parlando di quella tragedia, della questione dell'armamento dell'Ucraina e della guerra in generale con posizioni analoghe a quelle di Gino Strada ("Io non sono pacifista, io sono contro la guerra perché la guerra non si può umanizzare, si può solo abolire"), mi ha mostrato alcuni schizzi realizzati nei momenti di calma della mostra. Ora alcuni di quegli schizzi, così come altri disegni e altre idee sorte quotidianamente in base al susseguirsi degli avvenimenti, si sono concretizzati in opere che parlano più delle parole.
Russo o Ucraino?
I'll kill you to stop war, marzo 2022
(La corazzata Potëmkin-la scala di Odessa) Di chi sono questi stivali?, marzo 2022
Dicono che stiano dialogando...???, marzo 2022
L’intervista
Tu hai frequentato il liceo classico, dove non c'è nemmeno un'ora di arte pratica, al Carducci di Milano, eppure hai fatto del disegno e della grafica la tua professione e la tua passione artistica. Oltre alla frequenza della Scuola di Arte e Immagine, qual è stato il percorso che ti ha portato a diventare "manipolatore di immagini", come ti autodefinisci, e come sei arrivato a questa mostra?
Probabilmente invece che con la camicia sono nato con la matita in mano provocando delle doglie dolorose a mia madre. Sono cresciuto e mi sono formato disegnando e ho continuato a farlo fino ad ora. Ho lavorato tanti anni in diversi settori della pubblicità. Quando ero molto giovane io e un mio amico cominciammo accettando anche contratti che prevedevano di non firmare i nostri lavori, che venivano acquistati a volte anche da grossi studi come quello di Armando Testa. Successivamente ho fatto lavori per Feltrinelli, per Diario, per Vanity, da non confondere con Vanity Fair, per Mondadori, per il Manifesto e per altre pubblicazioni.
Di personali ne ho fatte poche, ma ora mi sembrava che i tempi fossero maturi e oltretutto avevo la possibilità di allestirne una, cosa che non è affatto facile al di fuori del mercato se non hai uno sponsor, un mercante. Jean Blanchaert, che conoscevo fin dai tempi in cui lavoravo per Diario, è rimasto entusiasta dei miei ultimi lavori e ha deciso di presentarmi. La presentazione di Blanchaert è un buon biglietto da visita. Per quanto riguarda lo spazio, l’ho scelto perché mi piace, mi è concettualmente affine, lo frequento da anni e conosco le persone. E poi, essendo fondamentalmente un pigrone, l’ho scelto perché è vicino a casa mia.
Duomo-funerali 12 dicembre
Giovanni Tagliavini davanti a Lampedusa, abbronzatissimo. Foto tratta dalla sua pagina Facebook.
Giubbotto di salvataggio
Dalla maggior parte delle tue opere trapela una forte carica politica e sociale, e non solo in quelle che alludono esplicitamente a fatti contemporanei o del nostro passato recente come ad esempio “Lampedusa, abbronzatissimo”, “Giubbotto di salvataggio”, oppure “Duomo, funerali 12 dicembre” che ricorda l’attentato del 1968 di Piazza Fontana o quel bellissimo corteo in rosso e nero intitolato “La classe operaia va in paradiso”, come il film di Elio Petri con Gian Maria Volonté. Che parte ha l'attivismo politico nella tua vita?
L’attivismo politico in me c’è sempre stato fin da quando ho dovuto ribellarmi anche al potere della famiglia, che è stata la mia prima piccola rivoluzione. Poi anch’io come tanti baby-boomer ho sognato il cambio più generale della società. Purtroppo vuoi per la repressione, vuoi per la droga, vuoi per le filosofie orientali, vuoi per altre cose, il movimento che ho vissuto da giovane non esiste più. Non ho fatto il ’68 perché ero un bambino, ma ho vissuto il ’77, che è stato il periodo della creatività del movimento. Gli anni metropolitani non sono stati soltanto gli anni di piombo, ma anche anni di grande creatività. C’erano riviste come Alter Alter e Frigidaire che avevano fumetti decisamente alternativi e rivoluzionari. Tutte cose che sono finite dentro di me e siccome non posso rinnegare di essere di sinistra, anche avvenimenti come la strage di piazza Fontana non li posso dimenticare. Tra l'altro quel momento ce l'ho particolarmente impresso perché il boato dell'esplosione è arrivato fino a casa mia anche se abitavo lontano dal centro. Ero anche amico di Iaio che insieme a Fausto, che conoscevo solo di vista, è stato ucciso dai fascisti probabilmente con la complicità dei servizi segreti il 18 marzo 1978. Sono stati uccisi a cinquecento metri da casa mia nei pressi del Leoncavallo e anche questo avvenimento è rimasto dentro di me come una ferita che non si può rimarginare e non si deve dimenticare.
Ogni anno, in occasione dell'anniversario della morte di Fausto e Iaio, ti occupi dell'organizzazione dell'evento per la loro commemorazione. Lo farai anche quest'anno?
Sì certo. Faccio parte dell'Associazione Fausto e Iaio e così ogni anno mi occupo della grafica e dell'organizzazione pratica dell'evento. Ho già cominciato a lavorarci ma lo farò soprattutto nei prossimi giorni dopo la chiusura di quesata mostra.
Manifesto che Giovanni Tagliavini ha realizzato nei giorni successivi alla chiusura della mostra per l'evento di commorazione di Fausto e Iaio.
Oltre al bagaglio di esperienze ed emozioni personali, ci sono anche momenti specifici della storia dell’arte che sembrano averti lasciato segni particolari. Riferendosi alla Nuova Oggettività, Jean Blanchaert parla di te come di “un Christian Schad del terzo millennio”. D'istinto a me è venuto in mente Conrad Felixmüller un po' per la la spigolosità delle figure e per la contaminazione tra le diverse correnti del suo tempo, un po' perché portava gli occhiali come te e spesso, come te, deformava gli sguardi. Comunque mi pare che tutta la gamma estetica e di denuncia dell'arte “degenerata" della Repubblica di Weimar risuoni nelle tue opere. È così?
E’ così. Il fascino verso quel tipo di arte è radicato profondamente in me sia per l'impatto visivo sia per l'inscindibilità dell'arte dalla sua funzione sociale, cosa che appartiene anche a me. Certo quell'arte è mescolata a tutto quanto è venuto prima e dopo, ma comunque è vero che l’Espressionismo tedesco, la Nuova Oggettività e in generale tutti gli artisti del periodo di Weimar a partire dai più famosi come Grotz, Dix, Kirchner, Beckmann e tanti altri sono tutti radicati nel mio cuore. Dev’essere qualcosa che trapela anche dalla mia persona, perché quando sono stato a Berlino a fare capodanno proprio nell’anno in cui è caduto il muro mi sono trovato in un ambiente quasi familiare e anche la gente si rivolgeva a me in tedesco e mi chiedeva informazioni come se fossi un tedesco. E la cosa particolare è che ho vissuto parecchi momenti di dejavu.
A proposito di arte degenerata anch’io vorrei essere considerato in quella categoria, che tra l'altro ritroviamo in diversi momenti della storia dell’arte. Prendi Caravaggio, lui era un degenerato e un rivoluzionario. Io adoro anche Picasso e adoro anche certe sue frasi lapidarie come “Io non copio, rubo”. Anch’io rubo. Rubo per esprimere me stesso. Non mi faccio problemi in tal senso.
Prima di entrare nello specifico di alcune opere, vorrei che mi dicessi qualcosa dei titoli, che mi sembrano essere un altro marchio connotativo del tuo lavoro.
In genere i titoli mi vengono in mente spontaneamnete a metà o alla fine del lavoro. Non mi piacciono i titoli didascalici e fortunatamente raramente lo sono fin da quando arrivano. Poi però in alcuni casi li rivedo per renderli più lirici e per farne un tutt'uno con il soggetto rappresentato.
Uno dei quadri più colorati e attraenti della mostra è"Arrivanti".
Gli arrivanti normalmente vengono chiamati migranti. Per me sono semplicemente persone che arrivano da noi perché hanno dei bisogni che forse noi come “società occidentale”, diciamo così anche se il concetto di occidentale è piuttosto relativo e discutibile, potremmo soddisfare. Quel quadro nasce da una foto che ho fatto a un senegalese che mi vendette un libro per strada. Io gli feci una foto e utilizzai i suoi occhi, ripetendoli in volti diversi. Anche se in alcuni volti sono un po’ deformati o ruotati sono sempre gli occhi di quel ragazzo e questo per me interpreta l’unicità e la commistione di queste persone che comunque non sono diverse tra di loro ma non sono neanche diverse da noi.
Arrivanti
Restiamo ancora sugli occhi. Non solo in questi quadri esposti, ma anche nei tuoi tanti altri lavori, compresi quelli puramente fotografici, gli occhi hanno un risalto particolare. Non per niente Blanchaert ha intitolato la sua presentazione “Il grande osservatore”.
Gli occhi sono uno strumento per recepire, per comunicare e sono importantissimi. Adesso che col covid siamo obbligati a portare questo paravento sulla bocca e gli occhi sono l'unica parte visibile del volto, sto cercando di imparare a sorridere con gli occhi, a piangere con gli occhi, anche se è una cosa che normalmente si fa. Gli occhi sono diventati ancor di più il mezzo per esprimere nuove emozioni . Ma insomma covid a parte gli occhi sono sia la nostra telecamera sia il nostro schermo televisivo.
Questo tuo insistere sugli occhi e soprattutto sulla loro deformazione, ad esempio in moltissimi ritratti frontali i due occhi sono diversi, sembra quasi dire che c’è tanta gente che non li sa proprio usare, che non sa vedere.
Sono contento che tu sia arrivata a questa conclusione, avrei voluto dirla io, ma comunque mi fa piacere di essere riuscito a comunicare anche questo.
Oltra al covid a che cosa alludi in “Maskera su maschera” e “Maskera satura”?
L’utilizzo della maschera cui ci ha costretto il covid, che a me da molto fastidio perché gli occhiali si appannano, per un grande osservatore, come dice Blanchaert, è molto fastidioso perché non riesci a vedere bene. Però nel contempo l’utilizzo della maschera fa parte della nostra condizione umana. Noi abbiamo tutti una maschera che è quella del nostro viso. Avere una maschera addosso è solo un’enfatizzazione di quello che siamo in realtà. Siamo mascherati sempre.
Maskera su maschera
Maskera satura e Ancora mare all'Arci Bellezza
È un tema pirandelliano per eccellenza che tu richiami anche in “1, nessuno, 100.000 io and me”, dove ci sono centomila, si fa per dire, Giovanni diversi disegnati all’interno del corpo, ma anche tante piccole foto dei volti di altre persone.
In realtà quello è un collage di vari quadri. Ci sono dieci, quindici quadri diversi all’interno di quel lavoro, inseriti in questa silhouette che poi sono in realtà sempre io, perché se non dipingi te stesso, se non sei personale nelle cose che fai, per me esistere non ha senso. In particolare la testa è il corteo del 25 Aprile di due anni fa che fu vietato per via del covid. È stata la prima volta nella mia vita in cui non ho potuto partecipare al corteo del 25 Aprile che per me è un must. Io faccio molte foto e così ho ritagliato le teste e parte delle figure di questi personaggi che di solito partecipano al corteo e che sono quasi tutti miei amici. E così ho creato un corteo immaginario.
1, nessuno, 100.000 io and me
Tempo. Non abbiamo più tepo di perdere tempo
Veniamo a “Tempo. Non abbiamo più tempo di perdere tempo”. Verso cosa sono rivolti gli occhi di quel volto?
Verso il telefonino. I sistemi di comunicazione, nella fattispecie il telefonino di quel quadro, ci obbligano a una comunicazione che tante volte è una falsa comunicazione, perché è molto più bello andare a suonare il citofono dell’amico e chiedergli “cosa stai facendo?” piuttosto che ricevere un whatsapp “ci vediamo alle sette e mezza di qua o di là”. Trovo che questo sistema di comunicazione tante volte sia una perdita di tempo anche se formalmente potrebbe risparmiarci tempo, anche se forse è un concetto un po’ contorto.
Mi dici qualcosa di “BacioAfro”?
Lì c’è un gioco che spesso ripeto nei miei lavori, anche se magari un po’ nascosto. È il gioco del labirinto che per me è un percorso abbastanza costante in generale e che si ritrova anche nelle mie immagini . Spesso è presente come spirale che è una forma primordiale di labirinto, la metto nelle orecchie o negli occhi o in altre situazioni. Mi ricordo di aver visto molti anni fa una mostra alla Permanente sul Labirinto che mi è rimasta stampata in testa. Mi piacerebbe rivedere adesso il catalogo di quella mostra. Il labirinto è anche il luogo dove finisce Jack Nicholson in Shining di Kubrick. È l’inizio e la fine di tutto. C’è sempre un’entrata e c'è sempre anche un'uscita ma a volte quell’uscita non si riesce a trovarla.
AfroBacio
La fotografia è un altro mezzo che usi di frequente e a quanto vedo hai anche una gran bella macchina.
Sì, anche la fotografia è per me uno strumento di indagine e di comunicazione anche se non è il mio primigenio. Questa è una bella macchina, ed è ovvio che quanto più evoluti e sofisticati sono gli strumenti meglio è. Però, tornando al discorso di prima, la cosa fondamentale è saper vedere, a prescindere dalle qualità del mezzo fotografico. A me non piace fotografare col cellulare, però a volte quando vedi qualcosa che senti di dover comunicare va bene anche quello. Così come bastano un gessetto o un pezzetto di carbone. Nelle grotte di Lascaux in Francia ci sono disegni rupestri di tori e altri animali dipinti con delle terre migliaia di anni fa che testimoniano proprio questo tipo di esigenza. Tra l’altro lì non si capisce bene neppure se quelle scene avessero un’ispirazione logica, se fossero per esempio disegni propiziatori per la caccia del giorno dopo o ringraziamenti per la caccia già avvenuta oppure se coloro che hanno dipinto quegli animali l'abbiamo fatto semplicemente perché li avevano visti passare.
Alcune delle tue opere sono visibili su diverse piattaforme in rete tra cui Facebook, Instagram, Artkey. Tuttavia vederle dal vivo è un'altra cosa. Hai in programma qualche altra mostra?
Posso dirti che ho avuto alcune proposte e ho delle trattative in corso, ma anche un po' per scaramanzia per ora preferisco non parlarne. Comunque indipendentemente da nuove mostre io vado avanti come ho sempre fatto perché disegnare, osservare, comunicare sono nella mia natura.
Stupefa...
Post-trance