«Quando parliamo di arabi israeliani, parliamo di un quinto della popolazione israeliana. Persone che sulla carta hanno tutti i diritti, ma che nella realtà si vedono negate moltissime cose: basti pensare alla legge che dichiara Israele Stato Nazione degli ebrei e che fa degli arabi quasi cittadini di serie B».
David Grossman, la Repubblica, 13/05/21
«Le ultime settimane hanno visto in misura crescente scontri violenti tra Ebrei e Arabi in Gerusalemme e nella West Bank, causati in parte dalla rabbia dei Palestinesi per le restrizioni poliziesche ai raduni per il Ramadan presso il Monte del Tempio e per lo sfratto di diverse famiglie palestinesi dal sobborgo di Sheikh Jarrah di Gerusalemme Est a favore di coloni ebrei».
Haaretz, 10/05/21
Se queste fonti di parte ebrea dicono il vero, non c’è dubbio che è stata Israele a innescare la guerra in corso, colpendo i Palestinesi nei valori più profondi: quelli religiosi e quelli della casa. E la reazione è comprensibile, se non giustificabile. Se qualcuno ha argomenti in contrario lo ascolterò.
Ma non vorrei occuparmi della questione del “di chi è la colpa”. Mi sembra più importante trarre le conseguenze di questo ennesimo, e apparentemente irrisolvibile, “scontro d’identità” di cui la Palestina è esemplare testimonianza.
Credo che ormai l’idea dei “due stati”, uno ebreo e uno arabo, sia tramontata per sempre. E a pensarci bene era fondamentalmente errata dal punto di vista di una visione democratica. Perché in uno stato democratico la libertà di culto costituisce un caposaldo della uguaglianza dei cittadini.
La fede religiosa è un elemento importante dell’identità delle persone e delle comunità. Ma come ho cercato di sostenere in un mio articolo precedente, identità non deve significare chiusura, ma al contrario premessa per il proprio confronto, competitivo ma anche collaborativo, conoscitivo e operativo, con i diversi da sé. Per la stessa crescita ed evoluzione della propria identità.
Secondo statistiche del 2019, ebrei e arabi palestinesi, che vivono all’interno o all’esterno di Israele, si equivalgono numericamente: 6,5 milioni ciascuna comunità, per un totale di 13 milioni circa. Se convivessero tutti in uno stesso stato laico, è impossibile pensare che perderebbero le rispettive millenarie identità. Questa non verrebbe annullata neanche in presenza di numerosi matrimoni misti. Ma diventerebbe meno aggressiva, più umana.
La globalizzazione, che in una certa misura ci fa tutti cittadini del mondo, dovrebbe favorire questo processo verso un comune sentire, sia pure sempre dialettico e diversificato.
Non è auspicabile che la Palestina continui ad assomigliare ai paesi confessionali che la circondano. E’ invece auspicabile che essa intraprenda un percorso simile a quello che, sia pure con grandi difficoltà e lentezza, caratterizza i rapporti tra bianchi e afro-americani negli Stati Uniti e quelli tra nativi e ex-coloni bianchi in Sud Africa. La Palestina e Israele potrebbero fare da apripista per la diffusione della democrazia tra i paesi arabi e musulmani.
Gli Ebrei non avrebbero nulla da temere da una crescita dell’istruzione e del benessere delle popolazioni arabe. Come popolo che ha subito nella storia gravi discriminazioni, potrebbe anzi guadagnarsi un posto tra i campioni della lotta globale contro le disuguaglianze.
Accordi di Oslo 1993 - Rabin, Clinton e Arafat
Forse questa può apparire una prospettiva utopica. E’ probabile, purtroppo. Ma l’alternativa è una guerra senza fine. Perché nessuno dei due contendenti riuscirà a prevalere sull’altro. Riuscirà solo a mantenere l’avversario in condizioni permanenti di paura o mortificazione, surrogati, conati forse inconsapevoli di un progetto di annientamento reciproco.