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I piani di Joe Biden per il rilancio degli USA sono così ambiziosi (fino a 4 mila miliardi di dollari nell’arco del suo mandato) e “nuovi” da far parlare ormai di una “Bidenomics

In grande sintesi prevedono:

- Ingenti investimenti per infrastrutture in tutti i settori dell’economia statunitense, in gran parte orientati, oltre che al restauro di quelle esistenti e alle reti digitali,  alla difesa dell’ambiente e alla riduzione delle disuguaglianze;
       - Un aumento del debito pubblico, ma anche delle tasse;
       - Che l’aumento delle tasse non tocchi la maggioranza della popolazione (ceti meno abbienti e medi), ma solo le categorie più ricche, attraverso:
           . Nessun aumento per i redditi inferiori ai 400 mila dollari l’anno;
           . L’aumento della progressività delle imposte sui redditi personali, portando l’aliquota marginale fino al 39,6%, e tasse più elevate sulle plusvalenze finanziarie per i milionari;
           . L’aumento dell’imposta sul reddito delle società dal 21% al 28%;
           . Una imposta uniforme sulle imprese (global minimum tax) da concordare a livello internazionale tra i paesi del G20 (cioè tra i paesi che nel loro insieme superano l’80% dell’economia mondiale).

Forse si potrebbe fare di più (ad esempio, si potrebbero rendere più progressive le imposte personali e abbassare il limite di reddito su cui aumentare le tasse). Ma comunque queste misure stanno facendo molto scalpore, perché segnano una radicale inversione di rotta rispetto alle politiche economiche praticate negli ultimi 40 anni.

In realtà non sono altro che l’accoglimento da parte della politica di proposte che numerosi economisti di orientamento progressista vanno avanzando da decenni: come Joseph Stiglitz, Antony B. Atkinson, Thomas Piketty, Kate Raworth, Jeremy Rifkin, Rutger Bregman, e in Italia come Enrico Giovannini, Fabrizio Barca, Stefano Zamagni, e sicuramente nella mente, a mio parere e speranza, di Mario Draghi. Proposte che ho illustrato e commentato ripetutamente su questa rivista.

I piani di Biden sono stati presentati come un ritorno al New Deal keynesiano/ rooseveltiano degli anni trenta del secolo scorso, basato su grandi investimenti in opere pubbliche in deficit. Ma a me sembra che segnino in realtà un cambiamento epocale, capace di proporre un nuovo paradigma economico adeguato a contrastare i problemi fondamentali dell’umanità: il degrado ambientale e le disuguaglianze crescenti con la povertà ancora diffusa e incrementata dalla pandemia del Coronavirus. Impegni così controcorrente, decisi ed espliciti, se espressi solo poco tempo fa, avrebbero fatto gridare allo scandalo.

Significano inoltre la fine dell’inganno, in cui sono caduti anche i riformisti travolti dal liberismo dominante, costituito dalla confusione tra imprese produttive e detentori di ingenti redditi e ricchezze. Con l’idea di sostenere le prime si sono favoriti i secondi, causando l'impoverimento della maggioranza delle popolazioni e la concentrazione delle ricchezze in un ristretto numero di miliardari. Si è sostanzialmente ridato vita all’antico e smentito, ma duro a morire, principio dell’ancien régime, secondo il quale favorendo i ceti più ricchi si ottiene, per “gocciolamento” (thrickle down) il benessere di tutti. Attraverso riduzioni della progressività delle imposte personali, agevolazioni senza limiti alle cosiddette imprese, in realtà ai ceti più ricchi e alla finanza fine a se stessa, ritenuti a priori generatori di ricchezza, le disuguaglianze e la sofferenza della maggioranza delle popolazioni hanno raggiunto livelli inaccettabili.

Riassumendo Biden in modo ancora più conciso: 1) dimensioni straordinarie della spesa pubblica per infrastrutture compatibili con l’ambiente , per servizi sociali (istruzione, sanità)  e per le categorie meno abbienti, 2) riforme drastiche delle politiche fiscali a favore della maggioranza della popolazione e a carico dei ceti più ricchi. Ma c’è un terzo pilastro della nuova economia, che sembra anch’esso in movimento, di cui la svolta non può fare a meno: 3)  il comportamento delle imprese nei confronti delle persone e dell’ambiente. Sembra che si vada diffondendo tra i massimi livelli aziendali una maggiore consapevolezza della possibilità di far convergere, in una prospettiva più ampia, gli interessi aziendali con quelli sociali e ambientali. Anche di questo cambiamento ho parlato nei miei ultimi articoli. E anche in questo caso non si tratta di idee nuove: un manuale in proposito lo scrisse nel 1996 Frederich F. Reichheld, capo di una importante società di consulenza aziendale (Bain & Company) in un libro dal titolo significativo: “The Loyalty Effect”. Testo che usavo per le mie consulenze rivolte a imprenditori e manager. Ma la differenza sta nel fatto che, dopo un quarto di secolo, quelle idee vengono fatte proprie in modo formale da schiere più vaste e influenti di dirigenti di gruppi imprenditoriali e di detentori di immense ricchezze. Si tratta di segnali che confermano che il clima, prima orientato ai soli interessi aziendali, anzi dei loro vertici, è cambiato. Tuttavia, dal dire al fare con quel che segue: non ho sentito parlare ad esempio di riduzione delle scandalose differenze tra le retribuzioni dei vertici aziedali e dei dipendenti di ultimo rango. E credo che senza imbrigliare la finanza speculativa a favore di una finanza al servizio dell’economia reale, le dichiarazioni d’intenti, per quanto diffuse e influenti, resteranno inferiori alle necessarie dimensioni.

Di enorme importanza sarà il possibile accordo internazionale per una imposta minima sulle imprese. Se i G20 o i membri dell'OCSE lo adotteranno, cesserà la rovinosa concorrenza al ribasso tra i diversi paesi per indurre le multinazionali ad insediarsi nel proprio territorio. Inoltre, costituirà un segnale del fatto che il piano di Biden è parte di una svolta globale orientata alla lotta alle disuguaglianze e al risanamento ambientale. Il Next Generation Plan europeo va nella stessa direzione. Spero vivamente, e ci sono le condizioni, perché il PNRR (Piano Nazionale di Recupero e Resilienza) italiano segua la corrente.

Molti commentatori sottolineano il fatto che il disegno di Biden incontrerà molte difficoltà, a partire dal Congresso e dal Senato americani. Un cittadino comune potrebbe chiedersi come mai un progetto che avvantaggerebbe la grande maggioranza della popolazione (se non il 99% secondo lo slogan del movimento Occupy Wall Street, almeno l’80%), non possa ottenere il consenso popolare per essere realizzato. Ma questo dà la misura del potere di ambienti ristretti di manipolare l’opinione pubblica.

 

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La Bidenomics è stata equiparata non solo al New Deal di Roosevelt, ma anche al Programma Apollo di John F. Kennedy che ha portato il primo uomo sulla luna, con l’obiettivo di riconquistare il primato degli USA nelle ricerche spaziali, compromesso dall’exploit dei russi con lo Sputnik. Oggi la gara non è più tra USA e Russia, ma tra USA e Cina. Il rischio maggiore è costituito dalla possibilità dei paesi maggiori, grazie alle loro grandi dimensioni, di intraprendere politiche protezionistiche in contrasto con la globalizzazione, puntando all’autosufficienza. Questo rischio è presente anche nei piani di Biden. E’ da augurarsi che, in un pianeta reso piccolo dalla rivoluzione digitale, la lotta per il primato abbandoni le illusioni imperialistiche del passato e si risolva in una co-opetition produttrice di benessere per tutti. E’ comunque incredibile come mai, nel quadro della svolta in atto e dell’enorme fabbisogno di risorse economiche per la ripresa dopo la pandemia, nessuno abbia ancora proposto una politica di disarmo universale non solo fisico (le armi), ma anche digitale. Lo ha fatto solo Papa Francesco. Speriamo che venga finalmente ascoltato da qualcuno.

Infine, la svolta potrebbe essere messa in difficoltà dalle imprevedibili e impreviste conseguenze delle misure economiche che la pandemia ha costretto ad adottare. Questi provvedimenti imposti dalla drammaticità dell'evento hanno fatto crollare, finalmente, i vincoli troppo restrittivi del passato, ma senza sostituirli con un sistema sufficientemente flessibile, ma controllabile. Credo che pochi economisti siano in grado di prevedere ciò che avverrà una volta superata la pandemia, ad esempio in termini di sviluppo, di occupazione, di inflazione, di debiti, addirittura di sistemi monetari (si pensi all'avvento dei bitcoin). Una maledizione cinese dice: «Che tu possa vivere in tempi interessanti». Sono curioso di vederli, ma è improbabile.

Gli autori di Vorrei
Giacomo Correale Santacroce
Giacomo Correale Santacroce

Laureato in Economia all’Università Bocconi con specializzazione in Scienze dell’Amministrazione Pubblica all’Università di Bologna, ha una lunga esperienza in materia di programmazione e gestione strategica acquisita come dirigente e come consulente presso imprese e amministrazioni pubbliche. È autore di saggi e articoli pubblicati su riviste e giornali economici. Ora in pensione, dedica la sua attività pubblicistica a uno zibaldone di economia, politica ed estetica.

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