Il principio di sussidiarietà tende a conciliare due obiettivi di per sé contraddittori: suscitare al massimo la partecipazione dal basso dei singoli cittadini e contemporaneamente dare vita a istituzioni di livello superiore che regolino i conflitti, promuovano la solidarietà e riducano le disuguaglianze
Recentemente tre regioni, Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna hanno chiesto un’autonomia differenziata, consentita dall’articolo 127 della Costituzione.
Sembrerebbe un argomento lontano dalle vicende correnti, con il Corona Virus che pone drammaticamente il problema dei rapporti tra i tradizionali stati-nazione, le loro articolazioni territoriali e le esigenze di governo globale. Ma non è così.
Quello delle autonomie è un tema che riemerge periodicamente dai tempi dell’Unità d’Italia. Fin dall’inizio, nel 1861, c’era chi propendeva per un ordinamento centralista e chi proponeva invece una struttura federale del Paese. Quest’ultima scelta era sostenuta da persone del calibro di Carlo Cattaneo, laico, e di Vincenzo Gioberti, cattolico. Fu anche oggetto di un disegno di legge proposto dal Primo Ministro Marco Minghetti. Sembra che anche Cavour fosse favorevole a un ordinamento federalista, e che la sua morte prematura contribuì al prevalere del centralismo.
Con il passaggio dalla Monarchia alla Repubblica, la Costituzione del 1946 disegnò un sistema regionalista, una sorta di via di mezzo tra lo stato unitario e quello federalista. Doveva essere realizzato entro quattro anni, ma vide la luce solo nel 1970. Ho vissuto personalmente, nel corso degli anni sessanta, le vicende che portarono all’ordinamento regionale, perché ho fatto parte dello staff di Piero Bassetti, che divenne il primo presidente della Regione Lombardia.
Il movimento autonomista, di cui Bassetti era promotore, si sviluppò in parallelo con la pianificazione nazionale, in auge negli anni cinquanta-sessanta (“Schema Vanoni” 1955-64, Piano Giolitti - Ruffolo 1965-69), che era naturale espressione di una visione centralista. Ricordo bene di aver vissuto in modo problematico il conflitto tra i due orientamenti, nei quali ero contemporaneamente coinvolto, e la ricerca di una loro difficile conciliazione.
Ma la storia d’Italia, il contrasto tra centralismo e autonomismo, non ha un carattere di unicità. Ovunque si manifesta, spesso in forme ben più virulente. Basta pensare alla Catalogna in Spagna, alla Scozia nel Regno Unito, o alla ben più drammatica lotta dei curdi per appropriarsi del loro “stato”, il Kurdmenistan, diviso tra Turchia, Siria e Iraq.
L’autonomismo, il regionalismo, il federalismo tendono a portare il potere verso la periferia. In sostanza, a realizzare uno stato più democratico, più capace di valorizzare le differenze e l’espressione delle potenzialità creative dei singoli e delle formazioni sociali di base. Al contrario il centralismo tende a imporre soluzioni dall’alto trascurando le istanze provenienti dal basso.
La contrapposizione autonomismo-centralismo si accompagna con quella tra competizione e cooperazione. Più democrazia significa più competizione, sia tra istituzioni pubbliche che tra organizzazioni sociali ed economiche private, che si esprimono nel libero mercato. E la competizione, se non regolata, porta inesorabilmente ad accentuare le disuguaglianze, perché tende a degenerare nella legge del più forte.
Ma quando parliamo di “centralismo” e di “autonomie” cosa intendiamo, al giorno d’oggi? Gli stati-nazione tradizionali sono “centro” rispetto alle rivendicazioni di autonomia che ribollono al loro interno. Ma sono “autonomie” rispetto alla globalizzazione, che impone il costituirsi di istituzioni di livello superiore.
La giustificazione di livelli superiori di governo è data dal principio di sussidiarietà, un principio che ha preso forma nei secoli XVIII e XIX sia nelle costituzioni democratiche, sia nelle encicliche sociali della Chiesa cattolica, ma che ha radici millenarie, laiche e religiose. E’ il principio secondo cui nulla deve essere sottratto alla libertà di espressione degli umani come singoli e nelle loro formazioni sociali di base o di livello inferiore, se non ciò che non può essere svolto in modo efficace ed equo a quei livelli, e che quindi richiede un “sussidio” sovrastante.
In sostanza, il principio di sussidiarietà tende a conciliare due obiettivi di per sé contraddittori: suscitare al massimo la partecipazione dal basso dei singoli cittadini, delle loro formazioni volontaristiche, sociali, economiche locali; e contemporaneamente dare vita a istituzioni di livello superiore che a loro volta regolino i conflitti, promuovano la solidarietà e riducano le disuguaglianze.
Cosa non facile: non solo perché è sempre difficile decidere su quali compiti attribuire a un livello di governo inferiore o superiore, ma anche perché questa attribuzione varia continuamente con il mutare degli eventi.
Ma l’ostacolo maggiore a questa dinamica viene dalle diverse identità territoriali, dai sensi di appartenenza, radicati storicamente da secoli, quando non da millenni, intessuti con tradizioni religiose, etniche, linguistiche.
Torno, a questo proposito, al discorso iniziale, alla rivendicazione di maggiore autonomia da parte di alcune regioni italiane, ricollegandolo ai problemi posti dalla pandemia del Corona Virus.
Nella nuova versione del titolo V della nostra bella Costituzione, frutto della riforma del 2002, la «tutela della salute» rientra tra le «materie di legislazione concorrente» tra Stato e Regioni. E’ una presa d’atto dell’insensatezza dell’attribuzione alle sole regioni dell’«assistenza sanitaria e ospedaliera», come prevedeva il testo originario.
Ma le vicende che stiamo vivendo attualmente dimostrano che la “sanità”, come qualsiasi altra “materia”, non può essere attribuita a singoli livelli di governo, ma li coinvolge tutti, dalle associazioni volontaristiche, ai comuni, alle regioni, agli stati, alla convivenza planetaria.
Questo coinvolgimento esige l’adozione universale del principio di sussidiarietà. Ma per fare questo occorre sbloccare culturalmente il sistema delle identità storiche, attraverso un dialogo continuo per conciliarle senza annullarle. Esse vanno tutelate e valorizzate, perché la diversità è un valore, ma aperte agli apporti esterni che, come la storia dimostra, sono un fattore di arricchimento. Da questo punto di vista, L’Italia è un caso di studio esemplare: dopo l’Impero romano, già di per se cosmopolita, il nostro Paese è stato invaso da popolazioni provenienti da ogni parte: Goti, Longobardi, Franchi, Arabi, Saraceni, Normanni, Svevi, Spagnoli, Francesi, Austriaci. E tuttavia esiste ancora una specificità italiana che le ha assorbite, con diversità addirittura preromane: celti, veneti, liguri, etruschi, latini, capuani, apuli, siculi, che si esprimono ancora nelle identità delle nostre regioni.
Occorre fare in modo che le identità, i sensi di appartenenza socio-culturali e i loro conflitti politici siano più vicini ai commerci e agli sport (pensiamo a una squadra di calcio, dove conta il tocco del piede e non il colore della pelle) che alle guerre. Meglio ancora, che ogni persona divenga portatrice consapevole di diverse identità, convergenti ma anche contraddittorie nella complessità di ogni essere umano e di ogni comunità, e variabili nel tempo.
In questa prospettiva, il massimo risultato sarebbe la soluzione di conflitti come quello arabo-israeliano, grazie alla acquisita consapevolezza che le rispettive identità non verrebbero mai meno se la loro convivenza si realizzasse in uno stato non confessionale, anche in presenza di ibridazioni.
La pandemia, con la sua domanda di sussidiarietà, fa emergere in particolare l’insuffucienza di un anello: il livello europeo. Un livello per il quale purtroppo il senso di identità e di appartenenza è ancora scarso, mentre quello dei singoli stati-nazione, per quanto insidiato dal basso e dall’alto, è ancora prevalente.
Gli eventi tragici che stiamo vivendo potranno avere due esiti alternativi: quello del prevalere degli egoismi nazionalistici tradizionali, destinati a riportarci ai conflitti sanguinosi del passato. O quello di rendere gli europei più coscienti della dimensione di cui fanno parte tutti insieme, e della necessità di sviluppare un maggiore senso di solidarietà e di cooperazione a livello continentale. Occorre un grande progetto culturale (sull’esempio del programma Erasmus) da tradurre nell’unità politica, e non solo economica, dell’Europa.
Forse la rivoluzione in atto nelle comunicazioni fisiche e digitali a livello globale potrà avere come effetto positivo la comprensione reciproca e la solidarietà anche tra popolazioni sinora legate prevalentemente da interessi economici, ma molto meno da scambi socio-culturali. Dopo il Corona Virus, la Cina mi sembra umanamente molto più vicina che nel passato.