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The Levelling, What’s Next After Globalization" di Michael O’Sullivan

L’interesse per il problema delle disuguaglianze, che costituisce, insieme a quello del cambiamento climatico, la causa prima dei conflitti che affliggono l’umanità, mi ha spinto alla lettura di “The Levelling, What’s Next After Globalization", The Public Affairs, 2019. L’autore è Michael O’Sullivan, irlandese, docente alla Università di Princeton e manager delle strategie di UBS e di Credit Swisse,

O’Sullivan prende lo spunto da un movimento della prima metà del XVII secolo a favore dell’uguaglianza di tutti gli uomini, fondata su istituzioni partecipate, leggi comprensibili da tutti e istruzione. «I Levellers erano un gruppo inglese della metà del seicento che partecipò ai dibattiti sulla democrazia che all’epoca si svolsero in una zona di Londra chiamata Putney. Il loro obiettivo, che fu raggiunto, era stato quello di «creare un “Agreement of the People” … che segnava le prime concezioni popolari di che cosa sarebbe potuto apparire come una democrazia costituzionale». E’ interessante notare che il movimento, che si opponeva al predominio dei “Grandees”, i “poteri forti” del tempo, nasceva nello stesso periodo in cui, con i trattati di Westfalia, veniva sancito il sistema degli stati nazionali, basati su monarchie assolute e imperi coloniali. Ma nello stesso tempo preannunciava le rivoluzioni americana e francese del secolo successivo.

Dallo spunto l’autore passa a parlare, con un salto un po’ sconcertante ma di vasto respiro, delle attuali vicende geopolitiche globali.

Egli sostiene che nel pianeta è in corso un “cambio di paradigma”, un passaggio dalla globalizzazione a un sistema multipolare. «Noi siamo all’alba, al primo stadio del “levelling”, uno stadio rumoroso e disordinato». «Il mondo sarà meno interconnesso, multipolare, dominato da tre grandi regioni o poli: Gli USA con le Americhe, l’Unione Europea e un’Asia Cino-centrica». Ci saranno poi delle «medie potenze», come l’India, la Russia, il Regno Unito, che cercheranno di mantenere il proprio spazio vitale, e delle piccole “g-20”, democrazie esemplari (come i paesi del Nord Europa). Istituzioni globali come il FMI (Fondo Monetario Internazionale) e il WTO (Word Trade Organization) perderanno peso.

 

LEVELLERS lavoratori

 

O’Sullivan non esita a far riferimento all’orwelliano “1984”, anche se lo scenario è meno angoscioso: nel libro di Orwell, Oceania, Eurasia ed Estasia erano tutt’e tre potenze totalitarie, che gestivano insieme una guerra permanente ma controllata, con lo scopo di dominare i rispettivi popoli con la paura. Il sistema multipolare preconizzato da O’Sullivan è invece caratterizzato da due visioni alternative: la visione “livellatrice”, propria di società aperte e democratiche «nelle quali le istituzioni e gli investimenti in risorse umane sono alla base dello sviluppo economico», e la visione “leviatanica”, propria di società nelle quali la «libertà viene ceduta in cambio dell’ordine sociale e della prospettiva di una maggiore prosperità nazionale».

Secondo l’autore, se la globalizzazione ha portato a una riduzione delle disuguaglianze tra i popoli, per la comparsa di nuovi soggetti politici ed economici (Cina, India e altri paesi usciti dal sottosviluppo) nello stesso tempo ha generato un modello economico caratterizzato da nuove e crescenti disuguaglianze, con quasi il 50% della ricchezza mondiale posseduto dall’1% della popolazione.

Ma, a differenza della opinione ampiamente condivisa che ciò sia stato dovuto al neoliberismo senza freni innescato negli anni ottanta, egli attribuisce gran parte delle colpe alle politiche permissive nei confronti dei debiti pubblici, perseguite dalle banche centrali, La Federal Reserve americana (FRS) e la Banca Centrale europea (BCE), che detengono il potere più delle carenti istituzioni politiche.

In questo contesto, O’Sullivan esprime giudizi e proposte specifiche e circostanziate sui vari protagonisti del nuovo sistema multipolare, tra i quali l’Europa e in particolare l’Italia.

Per quanto riguarda l’Europa, egli la vede tenuta insieme da una visione ideale - ereditata dai regimi social democratici - e dalla memoria delle guerre del passato, ma minacciata dai processi migratori e soprattutto dall’indebitamento, favorito dalla politica del Quantitative Easing (QE). Considera l’Italia, da questo punto di vista, un “case study”. Osserva che senza il QE, i tassi d’interesse sui titoli di lungo termine (i BTP) italiani «sarebbero vicini al 5 o 6% per riflettere il livello di rischio di default dovuto all’oltre 130% del debito rispetto al PIL e alla bassa crescita strutturale». Tassi di interesse che ovviamente porterebbero il nostro Paese alla bancarotta. E analizza: «Anche se l’indebitamento delle famiglie italiane è relativamente basso, il debito regionale e locale è alto e inefficiente». La sua proposta è sconcertante, ma finanziariamente coerente: che il debito eccedente un livello ragionevole sia garantito da quote di proprietà o società statali (ad esempio dell’ENI, o delle FS, n.d.r.). Arriva a citare impropriamente, come possibile garanzia del debito pubblico italiano, i pedaggi dell’autostrada Milano-Venezia!

Il caso vale per tutta l’Europa: «Il modo migliore per essere certi che i paesi europei si attengano alle regole consiste nell’introdurre una forma di disciplina di mercato che addossi l’onere dell’accumulo di debiti eccessivi sui singoli stati». O’Sullivan non esclude che uno stato europeo che non intenda o non accetti di assumere queste responsabilità, possa scegliere di uscire dall’euro e dalla Unione Europea o sia costretto a farlo. I paesi europei dovranno «adottare criteri più stringenti per entrare o restare nell’Unione o nell’eurozona. Dovrebbe essere scontato che un paese possa essere espulso per gravi violazioni dei valori politici ed economici… Dovrebbe essere molto chiaro che per i nuovi entranti l’accessione si accompagna con la responsabilità».

La visione del futuro del pianeta descritta da O’Sullivan presenta aspetti di credibilità e di discutibilità. Forse l’elemento più critico è quello dei costi di una transizione al nuovo “paradigma” non adeguatamente gestita, con gli inevitabili compromessi, che O’Sullivan sembra sottovalutare.

Sostanzialmente, nella visione di O’Sullivan la globalizzazione ha coinciso con l’egemonia degli Stati Uniti. Questa egemonia è finita, soprattutto per la comparsa sulla scena mondiale della Cina. La prospettiva di un mondo multipolare è quindi del tutto credibile.

Ma questa prospettiva schiude due alternative: che ognuno dei tre grandi poli tenda a vivere di vita propria, senza legami con gli altri, cosa possibile date le loro grandi dimensioni; oppure che diano vita a una nuova globalizzazione, reticolare, più “livellata”. E’ evidente la pericolosità della prima prospettiva, che potrebbe generare contrapposizioni violente, ad esempio per l’egemonia sui paesi minori, depositari di risorse economiche importanti. La seconda, auspicata da O’ Sullivan, non potrebbe essere affidata a un nuovo globale “laissez faire”. Difficilmente si auto-regolerebbe. Richiederebbe comunque di essere governata con una riforma o creazione ex novo di istituzioni globali, a partire dall’ONU.

Io credo che la globalizzazione sia un dato di fatto irreversibile, espressione non della passata egemonia degli USA, ma della rivoluzione digitale nella quale gli USA hanno sinora predominato, ma che si va diffondendo a macchia d’olio su tutto il pianeta.

L’idea, a cui O’ Sullivan sembra dare molta importanza, di un accordo globale sui debiti pubblici e sui rischi, mi sembra riduttivo rispetto alla sua stessa visione del futuro. Sarebbe comunque altrettanto errato sottovalutare il problema, che tocca la disuguaglianza tra generazioni. Ed è interessante notare che, pur criticando il Quantitative Easing considerato come una droga che rinvia la cura, di cui Draghi è il massimo responsabile, egli consideri questo personaggio «uno del calibro di Hamilton», cioè del primo Segretario del Tesoro della storia americana e grande costituzionalista, e «un raro esempio di un leader che può dare forza e direzione a una istituzione europea»!

D’altra parte, egli attribuisce altrettanta importanza alle «infrastrutture intangibili, che riguardano lo sviluppo umano: sanità, istruzione, leggi, istituzioni», alle quali dovrebbero essere destinate maggiori risorse. E ritiene che «I beni pubblici, che sono il tessuto della società, troppo spesso sono privatizzati». Ha anche una valutazione positiva dell’immigrazione, che «va riconosciuta come una grande sfida e trattata come un contratto d’integrazione e assimilazione tra migranti e residenti».

Ritiene infine essenziale promuovere l’impegno politico diffuso, rendendo meno ostiche alla politica le persone comuni, «come, ad esempio, le mamme e la gente impegnata in cose diverse».

Io credo che la complessità del quadro globale renda sempre più necessario perseguire un sistema globale basta sul principio di sussidiarietà.

Occorre tener presente che la progressiva perdita di peso degli stati-nazione, che segue la fine degli imperi coloniali, si traduce in una complessità geopolitica che si articola a tutti i livelli, generando conflitti che da locali possono estendersi a tutto l’organismo globale. Pensiamo, ad esempio, alle rivendicazioni di identità territoriali come la Catalogna o il Kurdistan, o al sinora insanabile conflitto tra Israele e Palestina, o alla rivolta di Hong Kong nei confronti del “leviatano” Cina. Pensiamo al ruolo che vanno assumendo le città, dove ormai si concentra più della metà della popolazione del pianeta: molti dei problemi delle disuguaglianze e dell’ambiente potranno essere risolti da una gestione oculata delle città, nelle loro articolazioni interne (i quartieri) e nei rapporti con il loro negativo, il “non-città”. E pensiamo ai movimenti e associazioni di base, volontaristici, che si caricano di compiti di grande peso, senza i quali le istituzioni politico-economiche si troverebbero in gravi difficoltà.

Alla fine, le istituzioni a qualsiasi livello hanno come loro fine fondamentale il bene delle società (bonum rei publicae), che ha nell’uguaglianza di tutti i uomini nei loro diritti fondamentali (cives) il suo fondamento. Quando le istituzioni, interpretate dalle élites, tradiscono questo fine, i cittadini le rifiutano. Dai Leveller alle Sardine.

Bisogna evitare di tornare agli “scontri di civiltà”, e anche a “guerre dei trent’anni” di tutti contro tutti. Occorre gestire senza sosta i conflitti tra istituzioni, promuovendo una cultura della “pluri-appartenenza” di ciascun individuo, della compenetrazione e continua dinamica delle diverse dimensioni, territoriali o intangibili che siano. Occorre sdrammatizzare le appartenenze, fare delle identità, delle diversità, una realtà permanentemente aperta alla dialettica e al dialogo.

 

Gli autori di Vorrei
Giacomo Correale Santacroce
Giacomo Correale Santacroce

Laureato in Economia all’Università Bocconi con specializzazione in Scienze dell’Amministrazione Pubblica all’Università di Bologna, ha una lunga esperienza in materia di programmazione e gestione strategica acquisita come dirigente e come consulente presso imprese e amministrazioni pubbliche. È autore di saggi e articoli pubblicati su riviste e giornali economici. Ora in pensione, dedica la sua attività pubblicistica a uno zibaldone di economia, politica ed estetica.

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