Riforme istituzionali: diminuire i parlamentari per risparmiare sui costi della politica e avere maggiore efficienza delle camere. Tutto vero e senza altri costi? Forse meglio rifletterci di più.
In modo spedito viaggia la riforma costituzionale sulla riduzione dei parlamentari: da 630 a 400 alla Camera dei deputati e da 315 a 200 al Senato della Repubblica. In pochi mesi nelle due Camere si è approvato il testo di Legge che, come da art. 138 della Costituzione, dovrà essere nuovamente approvato a distanza di almeno tre mesi.
Una riforma costituzionale semplice nella sua formulazione: quattro articoli che ne modificano tre. Avrà però importanti conseguenze nel meccanismo del nostro Ordinamento. Tuttavia, se ne parla poco, molto poco. Vista l’importanza (il funzionamento delle Istituzioni: la nostra Democrazia) credo valga la pena sviluppare ulteriori spunti di riflessione, come qualcuno - oltre ai vertici del CDC - propone. Procediamo, quindi, anche riprendendo e integrando considerazioni di ben più autorevoli commentatori.
Partiamo dagli obiettivi che si vogliono conseguire come dichiarati dai proponenti: risparmiare sui costi della politica e rendere più efficiente il parlamento.
Sul primo non ci sono dubbi: più tagli più risparmi. Però, la prima domanda che credo ci si dovrebbe porre e proprio se “il risparmio” possa essere ritenuto un motivo fondamentale per apportare dei cambiamenti agli assetti costituzionali. Questo al di là della attendibilità o meno delle cifre dichiarate, comunque sempre poco rilevanti rispetto al Bilancio dello Stato (in questo caso è stato calcolato in circa lo 0,01%).
I risparmi sui costi della politica sono legittimi e di grande impatto simbolico. Non si comprende però perché si è iniziato subito col taglio dei parlamentari e non quello dei loro indennizzi. Intervento quest’ultimo a impatto zero sugli assetti costituzionali e da sempre bandiera del M5S (i suoi parlamentari già restituiscono parte degli emolumenti per le piccole medio imprese) e, stando alle votazioni sulla “piattaforma Rousseau”, prima richiesta dei suoi attivisti.
In ogni caso bisogna poi ben valutare le ricadute sul funzionamento delle Istituzioni.
Veniamo così al secondo e determinante punto: dare efficienza al Parlamento la cui centralità, lo ricordava anche il vicepremier Di Maio all’inizio della formazione del Governo, non è messa in discussione. Tuttavia, qualche dubbio viene pensando che un numero minore di eletti può esser “meglio controllato” dal leader politico di turno: nella selezione e candidatura prima e nella gestione dei gruppi parlamentari poi.
Inevitabile comunque (soprattutto in mancanza di una legge proporzionale) sarebbe la compressione della presenza parlamentare delle minoranze, considerando la diminuzione dei seggi disponibili. Con ricadute anche sulla composizione dei gruppi parlamentari e delle commissioni. Soprattutto al Senato (voto su base regionale e senza recupero nazionale) dove nelle piccole e medie regioni i seggi sarebbero “appalto” dei soli partiti maggiori visto l’esiguo numero a disposizione: in Umbria e in Basilicata da sette si passa a tre. Infine, con questa riforma, è come se, per così dire, si creassero due nuove Regioni equiparando a queste le provincie autonome di Trento e Bolzano per il numero minimo di senatori da assegnare: tre (Molise e Valle d'Aosta manterrebbero gli attuali minimi, rispettivamente 2 e 1).
Cosa si intende poi per “efficienza del Parlamento”? Non potendo riferirsi al merito dei provvedimenti, la cui valutazione è esclusivamente politica, ne si deve considerare la velocità nella produzione legislativa (a parte la qualità della stesura tecnico giuridica). Ammesso che si abbia bisogno più di leggi veloci che giuste: chissà se con qualche giorno di più di riflessione e confronto la Fornero avrebbe evitato il problema degli esodati. Qui, per coerenza e onestà intellettuale, devono valere le stesse considerazioni che, sul tema, si ponevano alla ben più ampia riforma Renzi-Boschi che pure voleva, tra le altre cose, velocizzare i tempi delle leggi. Anzi, valgono ancor di più, visto che l’attuale proposta di riforma riduce i parlamentari ma mantiene il bicameralismo perfetto che, in qualche modo, la riforma del 2016 voleva “eliminare”.
Innanzi tutto, non è vero che occorre sempre molto tempo per fare una legge. Per alcune i tempi sono stati rapidissimi, senza problemi per il numero di parlamentari (e nonostante la doppia camera…):
- 6 giorni - La legge più veloce della legislatura 2008-2013 per il referendum 2009 sulla legge elettorale.
- 7 giorni - nel 2010 del decreto salva-liste, per la riammissione alle Regionali-Lazio del Pdl, poi bocciata dal Tar
- 8 giorni - manovra correttiva 2011, Berlusconi
- 16 giorni - Salva-Italia di Monti e Fornero
- 20 giorni - Il lodo Alfano
I tempi della produzione legislativa sono più una conseguenza della composizione e della tenuta delle maggioranze. Temi quindi collegati alle dinamiche politiche e alle leggi elettorali, indipendentemente dal numero dei parlamentari.
Una “maggior velocità” nelle dinamiche parlamentari, ammesso che questa non si risolva poi in una compressione del dialogo politico, è comunque già da tempo ottenuta attraverso i regolamenti parlamentari (contingentamenti). Senza contare poi che tutti gli ultimi Governi, compreso l’attuale, hanno fatto sempre un maggior ricorso a decreti-legge e questioni di fiducia ridimensionando così la funzione del Parlamento, altro che sua centralità.
Non è poi automatico che la riduzione dei parlamentari produca meno atti. Infatti, il parlamentare ha libertà di presentare quante iniziative ritiene opportune (almeno ancora ad oggi). D’altro canto meno persone (teste pensanti) significa certo meno confronti: elemento questo che sì dovrebbe indurre a ulteriori riflessioni.
La riduzione come impostata, viene poi motivata dai proponenti anche per adeguarsi agli “standard europei”, visto che l’Italia ha il maggior numero di parlamentari elettivi in Europa. Una lettura forse troppo semplicistica. Come anche precisano dal Servizio studi del Senato, i “dati comparativi, per essere appieno intesi, richiederebbero invero di essere letti alla luce della storia politico-costituzionale, della forma di Stato e di governo, del sistema elettorale, di ciascun Paese - a tacere di fattori altri, socio-economici e politici. “ .
Almeno si consideri che molti Stati hanno una sola camera e che quelli che ne hanno due prevedono meccanismi diversi e contesti funzionali differenti. Così, come suggerisce lo stesso Servizio Studi del Senato, un confronto più corretto (se proprio lo si vuole fare) può essere fatto in relazione alle sole, così dette, Camere Basse: tutte elettive come la nostra Camera dei deputati.
Evidente poi che non si può fare un confronto sul mero numero di parlamentari senza ter conto della popolazione degli Stati. Confronto ancora più importante perché evidenzia il rapporto fra numero di parlamentari e cittadini. In questa classifica l’Italia non ha un così alto numero di rappresentanti e comunque è già ben in linea con gli altri grandi Stati europei. Con la riforma andrebbe all’ultimo posto.
Con possibili conseguenze, per gli elettori più lontani territorialmente dai candidati, di minore conoscibilità degli stessi e di difficoltà a mantenere contatti reali dovendosi affidare sempre di più ai soli mezzi di comunicazione multimediale. Soprattutto al Senato dove è stato calcolato che il rapporto nei collegi fra candidato e cittadini passerebbe da 1/500mila a 1/800mila e in alcuni casi a 1/1,2milioni (Friuli V.G.)
Inoltre, nel caso di “trasformismi” il numero di “elettori traditi” dall’eletto che passa ad altro schieramento sarebbe ancora più alto.
Altre conseguenze ci sarebbero per i collegamenti funzionali /elettivi fra Parlamento e altri organi delle Istituzioni. Come nel caso dei senatori a vita nominati dal Presidente della Repubblica. Positivo che la riforma ne sancisca a cinque il numero, ma il peso di questi aumenterebbe percentualmente nel nuovo Senato: dall’attuale standard di 1,6% a 2,4% (la soglia per i partiti è del 3%). Insomma, come se dagli odierni 5 si passasse a 8: un vero partitino di non eletti in una sede con piene funzioni legislative.
Si potrà dire ma la riforma perfetta forse non esiste e che siamo di fronte all’ennesimo tentativo del “fronte del NO” per non modificare alcunchè. Affatto. Si preferirebbe però vedere un intervento che, pur sempre nel rispetto del’art.138 (mai più riforme tipo Boschi con dentro di tutto di più) sia frutto di una maggior armonizzazione nel funzionamento dell’Ordinamento. Se gli obiettivi sono condivisi (maggior efficienza nel rispetto degli equilibri costituzionali e, perché no, risparmiando anche qualcosa) si torni a discutere magari valutando una vera abolizione del Senato. Del resto, la differenziazione originale fra Camera e Senato, come voluta dalle Madri e Padri Costituenti, sta venendo sempre meno per azzerarsi praticamente del tutto qualora dovessero passare anche le già annunciate riforme sull’età degli elettorati.
In tal senso si potrebbe partire dalla proposta Rodotà come si ricorda sulle pagine del CDC : “Rodotà anni or sono aveva ipotizzato di arrivare alla sola Camera dei deputati, purché con più poteri ed eletta con legge proporzionale, garantendo la possibilità agli elettori di scegliere direttamente i loro rappresentanti. Riduceva il numero dei parlamentari ma in un quadro di allargamento della democrazia e di stabilizzazione del rapporto tra parlamento, governo ed elettori.” Si realizzerebbe in un sol colpo la maggior efficienza anelata (nessun secondo passaggio) e i minori costi tanto pubblicizzati senza incorrere in molti delle conseguenze di cui si è accennato e magari rivedendo, con attenzione, anche il numero dei parlamentari (se proprio lo si dovesse ritenere essenziale).
Insomma, spunti per ulteriori riflessioni non mancano. La forte mobilitazione avutasi nel referendum del 2016 fa ben pensare che il tema possa essere affrontato anche con un maggior coinvolgimento dei cittadini. Per farlo non attendiamo però una consultazione popolare che potrebbe non arrivare. La legge potrebbe essere approvata nei prossimi mesi e non è detto che poi si vada al referendum. Una maggioranza di 2/3 lo eviterebbe e, a oggi, i numeri sembrano esserci. Infatti, sono a favore anche FdI e Forza Italia, partito quest’ultimo del senatore Quagliarella, firmatario del primo dei ddl confluiti nella proposta di Legge in corso di approvazione.
La Costituzione è veramente “la casa degli Italiani” e vista l’importanza della riforma e le potenziali conseguenze è indispensabile un maggior approfondimento e confronto coi cittadini, soprattutto per chi si batte per una democrazia certo “più partecipata e diretta” ma non per questo “meno rappresentativa”.