L'associazione che da quattro anni è divenuta un punto di riferimento per i migranti che transitano a Roma
Baobab è un enorme albero tropicale ma usando la lente dell’etimologia sta per “frutto dai numerosi grani”, almeno quanti sono i contributi – innumeri -, senza cui Baobab experience non esisterebbe.
Sono decine di migliaia i sostenitori di questa associazione che da quattro anni è divenuta un punto di riferimento per i migranti che transitano a Roma. Da quando Andrea Costa, vetraio di Via Cupa oggi portavoce di Baobab, insieme ad altri artigiani e privati cittadini del quartiere intorno a Ponte Mammolo si accordarono sui social per fornire vitto e un riparo ai tanti migranti orfani di quel minimo d’assistenza primaria in seguito allo sgombero della tarda primavera del 2015.
Allora a Via Cupa i volontari romani riuscivano a mettere insieme il pranzo con la cena per 500 extracomunitari; oggi, al presidio di Piazzale Spadolini a fianco della stazione Tiburtina, c’è da mangiare e dormire per 60/80 migranti.
Gli sbarchi diminuiscono in maniera direttamente proporzionale a quanti vengono lasciati morire in mare o rinviati indietro. “Il mio sogno? Che tutti e 47 i milioni di extracomunitari presenti in Europa, un’Europa di 540 milioni di cittadini, facciano richiesta di rimpatrio”: non ha dubbi Michelle Muller, attivista di Baobab associazione che dal 2016 si è data uno Statuto, “allora i vari ministri degli Interni firmerebbero a velocità supersonica tutte le richieste d’asilo”. Un sogno, per ora. Ora che c’è da fare quel che lo Stato non riesce o non vuole o non sa. Basti pensare che a Roma c’è il solo ufficio immigrazione di Tor Sapienza dove attivare la procedura di richiesta asilo. Attivazione che richiede giorni e giorni in fila, disumano.
Baobab, oltre la distribuzione dei pasti, del vestiario, fornisce un posto dove dormire e cure sanitarie e sostegno psicologico e assistenza legale e lavoro: “Chi arriva vuole un documento, un tetto e un lavoro”.
Viaggi che durano anni, si parte dalla Nigeria, dal Mali, dalla Guinea, il Gambia, il Marocco, il Burkina Faso, l’Egitto, l’Eritrea, l’Etiopia, il Sudan, la Siria, l’Iraq kurdo e l’Afghanistan. Si parte dai postumi del Colonialismo. Anni di vite in bilico, in pericolo costante che alla lunga logora, sfibra: “C’è non poca reticenza sulle violenze subite in viaggio”, violenze che lasciano traccia in paranoie, manie di persecuzione, autolesionismo e autosegregazione. Patologie che quelli di Baobab affrontano grazie al contributo di Medu, Dac, medicine du monde e Medici senza frontiere, e a un servizio di assistenza psicologica attivato al San Gallicano.
Tanti gli alleati di questi cittadini volontari che in cinque anni si sono presi cura di 70.000 migranti: Help Refugiees offre un contributo per i mediatori culturali, la Chiesa Valdese un progetto per l’equipollenza dei titoli di studio; e poi c’è da far fronte alla violenza sulle donne, fra le quali c’è chi ha subito diversi stupri nel corso del viaggio.
Tante le donazioni, tutto meticolosamente rendicontato in bilancio, ma non solo denaro: “Ciascuno partecipa come può e quando vuole”, lei, Michelle, dedica molto del suo tempo, tanto da essere diventata la coordinatrice del gruppo orientamento al lavoro e formazione. Dal giugno del 2017 ha redatto 235 curriculum di cui il 40% ha avuto un contratto di lavoro o una borsa di studio universitaria o post. Gli stessi migranti insegnano in corsi di formazione per altri migranti: “Nel caso sciagurato di diniego su tutti i fronti possono tornare a testa alta nel Paese d’origine avendo imparato un mestiere”. Formazione che ha un reale impatto sulla vita di oggi: si diviene esperti in pannelli solari, in fibre ottiche o nella rigenerazione di cellulari. Da aiutati ad aiutanti, i migranti del Baobab vivono una formazione continua; alcuni parlano otto lingue, una per ciascun paese dove hanno vissuto, un patrimonio considerevole.
E per sconfiggere la postura da questuante – alcuni sì, fuggono da guerre, fame e dittature, ma altri per una vita migliore -, Baobab è anche cultura e svago, come visite ai musei, partecipazione a concerti “per vedere il davanti e non solo il didietro” di quest’Occidente.
Per pensare altrimenti dai luoghi comuni dettati dalla paura, si è appena concluso “Pensare Migrante 2019”, il convegno Baobab alla Città dell’Altra Economia di Testaccio. Si è discusso fra l’altro di come ridefinire il Trattato di Dublino, stilato nel 1990 e ormai desueto, che all’articolo 13 prevede che la responsabilità dell’asilo sia del Paese di primo sbarco. Ma c’è da lottare anche contro la cattiva informazione, come quella di chi non sa che i fatidici 35 euro a migrante, nelle tasche dei diretti interessati si riducono al cosiddetto pocket money, nient’altro che due euro e cinquanta.