Eurostat certifica che il tasso di abbandono scolastico in Italia è del 14% e che, dopo 10 anni di graduale diminuzione, nel 2017 questo numero è tornato a crescere.
Secondo un’indagine della rivista specializzata Tuttoscuola il 22% degli studenti che si iscrivono ad una scuola secondaria superiore non arriva al diploma in quell’istituto. Tra questi, qualcuno recupera cambiando scuola, iscrivendosi a scuole private o a corsi di formazione professionale. L’Eurostat, in ogni caso, certifica che il tasso di abbandono scolastico in Italia è del 14% e che, dopo 10 anni di graduale diminuzione, nel 2017 questo numero è tornato a crescere.
Peggio di noi in Europa solo Malta, Spagna e Romania, come noi lontani dall’obiettivo del 10% entro il 2020 che l’UE aveva indicato per i Paesi più in difficoltà. Poco male, si dirà: è inevitabile perdersi qualcuno durante il percorso. Sbagliato: Giappone, Corea e Norvegia hanno un tasso di abbandono scolastico prossimo allo zero. Molti Paesi sono sotto il 5%.
Anzi, doppiamente sbagliato: in Italia i disoccupati con la sola licenza media sono il doppio dei diplomati e quattro volte i laureati. E, statisticamente, chi non abbia conseguito un diploma superiore o una qualifica professionale ha anche più facilmente a che fare con problemi di salute, di delinquenza, di emarginazione sociale. Così che la povertà, appena abolita da un balcone, rischia di rientrare dalla finestra.In Italia i disoccupati con la sola licenza media sono il doppio dei diplomati e quattro volte i laureati.
Un maggiore livello di istruzione, secondo tutte le rilevazioni condotte, conduce con più probabilità verso risultati positivi per gli individui e per la società in relazione al grado di soddisfazione per gli impieghi, retribuzioni più alte, migliori condizioni di salute, maggiore coesione sociale, minore tasso di criminalità, minori costi pubblici in prestazioni di welfare erogate.
L’aumento dell’abbandono scolastico italiano al 14% è tanto più preoccupante anche perché ingrossa la crescente quota di giovani che non studiano e non lavorano, in un Paese già in fondo alle classifiche Ocse per capacità di lettura e competenze matematiche, in cui circa un quarto dei pochi laureati si trasferisce all’estero. Numeri impietosi, ma pochi ne parlano.
Naturalmente il fenomeno non è omogeneo: più alto al sud (specie in Sardegna, Sicilia e Campania) rispetto al nord (ma in Lombardia è al 12%); più alto tra gli stranieri che non tra gli italiani.
Le singole scuole, con pochi fondi a disposizione, tendono a fornire risposte standardizzate ai bisogni degli studenti in difficoltà, quindi la loro azione risulta efficace solo in parte. Corsi di recupero a metà e alla fine dell’anno scolastico, sportelli di ascolto, tutoraggio tra pari servono, ma non bastano.
La ricetta individuata dai governi negli ultimi anni è consistita in una lenta, faticosa costruzione di reti tra scuole e parrocchie, centri sportivi, associazioni di volontariato, per attività formative di dopo-scuola. Ma il necessario coordinamento nazionale, regionale e comunale rende tutto farraginoso, lacunoso.
Il governo attuale ha stanziato nella legge di bilancio fondi per l’assunzione di due mila insegnanti da impiegare contro la dispersione, per estendere il tempo pieno e quello prolungato.
I “budget educativi”: un progetto sperimentale che intende contrastare la povertà educativa e ampliare le opportunità culturali collegate all’attività scolastica attraverso progetti di formazione personalizzata
Ma una novità nell’approccio al tema si registra grazie ai “budget educativi”: un progetto sperimentale che intende contrastare la povertà educativa e ampliare le opportunità culturali collegate all’attività scolastica attraverso progetti di formazione personalizzata, superando le disparità di partenza. Comunità di docenti, famiglie, enti no-profit promotori del progetto (tra cui alcune Università, diverse Caritas diocesane, Nomisma e altri) gestiranno un milione di euro per tre anni per intervenire su cento classi in nove regioni italiane. Il finanziamento avviene attraverso il fondo per il contrasto della povertà educativa, creato dal governo nel 2016.
La sperimentazione sta partendo e, se dovesse dare risultati tangibili, dal quarto anno potrebbe diventare strutturale in tutte le regioni, avvicinando le risorse da spendere alle situazioni di difficoltà degli studenti e incidendo al contempo sui territori coinvolti.
L’obiettivo del 10% di dispersione nel 2020 ormai si può dire mancato, ma iniziare a far breccia nella rassegnazione sempre più diffusa tra tutti gli attori del mondo della scuola sarebbe comunque un bel segnale.