Dossier. Le donne, ad esempio. Intervista al vicesindaco di Monza, Cherubina Bertola. Donna, mamma, fiera professionista dell'assistenza sociale. Ci racconta la sua esperienza personale, le difficoltà, le soddisfazioni e il suo parere sul concetto di potere: «Il "potere" deriva dalla parola possibilità, a me piace pensare che vada declinato cosi».
Cherubina Bertola, vicesindaco di Monza dal 2012, con delega alle politiche sociali. Moglie e mamma, con un'importante esperienza professionale nel mondo dell'assistenza sociale, ricopre una carica prestigiosa, e — pur essendo una persona abituata a lavorare a "testa bassa", per obiettivi concreti, che non prevedono una continua esposizione alle cosiddette luci della ribalta — ha accettato di buona lena l'incarico propostole dall'allora neo-sindaco Scanagatti, con lo scopo principale di mettere davanti a tutto la propria competenza di professionista del sociale e, perchè no, di donna.
Ho lavorato per moltissimi enti, molto diversi tra loro, senza scalare eccessivamente posizioni. Se questo da un certo punto di vista non mi ha consentito progressioni, mi ha però permesso di conoscere molte realtà e molte sfaccettature del mondo cittadino.
Partiamo dal suo percorso personale.
Comincio naturalmente parlando del mio percorso professionale, che successivamente mi ha portato a ricevere questa proposta di ricoprire la carica di vicensindaco con delega a politiche e servizi sociali: di certo la scelta e la richiesta di disponibilità sono state orientate ad una persona attiva nel mondo dei servizi sociali e della quotidianità cittadina. Per quanto mi riguarda so che è un brutto termine, ma parlerei di "percorso orizzontale", nel senso che ho lavorato per moltissimi enti, molto diversi tra loro, senza scalare eccessivamente posizioni, se questo da un certo punto di vista non mi ha consentito progressioni, mi ha però permesso di conoscere molte realtà e molte sfaccettature del mondo cittadino. Nel 2010 avevo accettato di candidarmi al Consiglio Comunale, ed ero subentrata per via di alcuni avvicendamenti interni al Consiglio. È stata la mia prima esperienza di amministrazione pubblica diretta, ero allora un consigliere di opposizione, e devo dire che è stata un'esperienza molto interessante, di forte apprendimento: interessante perchè porta a conoscere come si formano le decisioni, contemporaneamente è un'esperienza molto impegnativa, la compatibilità con un lavoro professionale è difficile, se lo si vuole fare con dedizione e applicazione. Non mi sono candidata nel 2012, perchè il lavoro in quel momento mi stava portando altrove, dopodichè è arrivata la proposta del partito: sì, del partito, perchè sono iscritta orgogliosamente e faticosamente al PD. Mi è stata richiesta disponibilità, che ho concesso, con la sensazione che fosse un modo ulteriore per mettere a servizio delle comunità la mia competenza diretta. La mia conoscenza col sindaco Scanagatti deriva dalla legislatura precedente, quando Scanagatti era capogruppo del PD, allora all'opposizione della Giunta Mariani; personalmente lo apprezzo molto e c'è una sostanziale fiducia reciproca. Dopo la vittoria elettorale ho ricevuto la chiamata diretta e ho quindi accettato anche la carica di vicesindaco, assumendo la responsabilità di sostituirlo quando assente, come vicario. È un tecnicismo, ma fa parte delle cariche del vicesindaco poter sostituire in termini sostanziali il sindaco. La nostra Giunta peraltro è molto collaborativa, esiste un rispetto sia formale, sia sostanziale dei ruoli. Infine devo dire che ho accettato anche perchè, e lo dico da donna, la condizione famigliare attuale me lo ha permesso, in altri momenti sarebbe stato decisamente piú complesso.
Le donne sono spesso portate ad essere poco consapevoli di sè stesse e delle proprie possibilità, e non solo dei proprio diritti legalmente riconosciuti: il problema sta soprattutto qui, nella consapevolezza delle donne.
L'argomento del nostro dossier del mese è "Donne, ad esempio", ovvero discutiamo di e con quelle donne che ricoprono ruoli di responsabilità, di potere. Perchè dobbiamo parlare di "donne al potere" o "donne con responsabhilità" nel 2014? Dovrebbe essere un non-argomento, non trova?
Evidentemente non esiste una sola risposta alla tua domanda, anche se parliamo solo della nostra realtà: cosa facciamo noi? Mettiamo le donne capolista, usiamo il metodo tremendo delle quote rosa, ma siamo purtroppo costretti ad utilizzarle. Sicuramente siamo influenzati un po' tutti dalla storia del nostro Paese, con quell'idea di sudditanza costante, per cui si rispetta la legge perchè obbligati, non perchè lo si ritenga giusto. Se aggiungiamo i secoli di divisione territoriale, ecco, probabilmente non aiuta; se invece proviamo a rigirare la questione in senso positivo, soprattutto in un periodo come questo di crisi economica, la forza delle identità territoriali, così diverse e distanti, ci sta anche aiutando a provare ad uscirne definitivamente. Un tratto connesso al fatto della mancanza di senso comune, un'appartenenza soprattutto territoriale, spiega in parte, anche culturalmente assieme alle dominazioni esterne, il fatto che le donne sono spesso portate ad essere poco consapevoli di sè stesse e delle proprie possibilità, e non solo dei proprio diritti legalmente riconosciuti: il problema sta soprattutto qui, nella consapevolezza delle donne. Ritengo però che non vada persa l'identità di genere, nè in positivo "sono brava perchè donna", nè in negativo "sbaglio perchè sono donna o uomo": bisognerebbe sempre cercare di volgere la questione al positivo e non vedere solo aspetti limitanti. Quando si dice che con piú donne al potere andrebbe meglio, sarebbe fantastico creare le condizioni per poterne vedere un effetto concreto: siamo così sicuri, a parole, che questo sia sempre vero? L'automatismo per cui tutto ciò che è donna è giusto non va bene nemmeno al contrario.
Qual è il tipo di esperienza personale che permette di entrare nel mondo maschile e di rimanerci con dei risultati concreti?
Sicuramente dando spazio di intepretazione nel ricoprire ruoli di potere, un margine rispetto al proprio modo di essere. Ricoprire certi ruoli comporta anche un necessario ricorso alla propria soggettività, inserire quel quid che lo renda personale, legato ai propri obiettivi personali; chiaro che, se questi obiettivi sono arrivisti, carrieristi, ecc. ovviamente vengono messi in campo anche nell'esercizio del potere. Personalmente parlando, non ho mai vissuto un senso di penalizzazione legata al fatto di essere una donna.
Bisogna stare molto attenti a non esagerare negli atti, diciamo cosi, materni, un modo di segnare l'attenzione a rendere meno dura la vita di chi sta accanto
Il suo ambito lavorativo è tendenzialmente associato alla figura della donna, lo vedrebbe o gradirebbe ugualmente se affidato ad un uomo? La competenza è specifica o anche di genere?
Esiste, è vero, una certa associazione immediata tra politica sociale e donna: nel comune di Monza non è stato sempre cosi in termini di ruolo politico. Nel mondo della formazione, dell'assistenza, lavorano veramente pochi uomini, io lo sento veramente come un enorme limite: l'assistenza sociale gestito per l'80-90% da donne, è un limite, anche al contrario, manca quello scambio, quel confronto, anche tra sensibilità diverse connesse al proprio genere. Manca un pezzo di lettura della realtà, delle chiavi intepretative. Una donna tende a facilitare la vita di chi sta accanto, ad esempio, nel mondo dell'assistenza sociale, bisogna stare molto attenti a non esagerare negli atti, diciamo cosi, materni, un modo di segnare l'attenzione a rendere meno dura la vita di chi sta accanto. Quando ci si trova costretti a scelte molto dure, questo porta dissidi interiori, e perciò si seguono criteri molto stretti e composti da analisi di gruppo tra specialisti diversi, in modo da escludere il piú possibile una soggettività eccessivamente personalistica. L'assistente sociale non è il lupo cattivo, ma nemmeno la badante che ti accudisce (vicesindaco Bertola è molto sanguigna su questo argomento, n.d.A.), il fatto di avere gruppi di lavoro misti è per me un punto di grande forza.
Gli ultimi 20 anni sono stati molto duri dal punto di vista della consapevolezza di sè e del senso di comunità e socialità, recuperare non sarà nè facile, nè tantomeno veloce.
Abbiamo accennato agli strumenti per facilitare l'ingresso delle donne nelle "stanza dei bottoni", come le quote rosa, che mi sembra non siano di suo gradimento...
Mah sono un male minore, dobbiamo purtroppo utilizzarlo, tra l'altro è come sempre iper-complicato dai soliti cavilli e meccanismi tecnici. Dal punto di vista simbolico — e di simboli il nostro Paese ne necessita in quantità industriale — la scelta del Governo o del Parlamento va oltre il meccanismo tecnico: lo scopo dovrebbe essere quello di dismettere gradualmente questi mezzi dal fatto di essere simboli e farli diventare pian piano naturalezza. Gli ultimi 20 anni sono stati molto duri dal punto di vista della consapevolezza di sè e del senso di comunità e socialità, recuperare non sarà nè facile, nè tantomeno veloce. Ho un aneddoto simpatico raccontatomi da mio marito: ha recentemente visto un servizio in TV in cui era rappresentata una situazione quotidiana in cui un uomo di nazionalità francese era messo nella situazione abituale di una donna: portava i bambini alla scuola materna, andava successivamente in ufficio, a far la spesa, lo chiamavano gli insegnanti per problemi legati ai figli nelle rispettive scuole, per cui deve uscire prima dal lavoro, tenere da solo il bambino, ecc... ad un certo punto prende una multa e viene fermato da una vigilessa donna con metodi e modi che normalmente utilizzerebbe un uomo verso una donna; mio marito è rimasto colpitissimo, perchè si è reso conto di quanto fosse assurdo il modo di trattare quell'uomo; se lo pensiamo nella quotidianità, con le donne non sarebbe affatto sconvolgente, perchè lo diamo per scontato, lo associamo ormai naturalmente come abitudinario e quindi quasi lo accettiamo. Misuriamo la distanza di quello che potrebbe essere con quello che è.
Cos'è un uomo ora? Autoritario? O autorevole? Se ci pensiamo bene i due concetti sono ormai fusi, l'autorevolezza diventa autoritarietà, e sfocia in violenza.
Quanto contano, se possiamo quantificarlo, gli esempi e le tradizioni storiche e culturali proprie del nostro Paese?
Non facciamo torto a nessuno se diciamo che la cultura cattolica preminente è di tipo maschile non famigliare, se aggiungiamo la storia del ventennio fascista parliamo di una dittatura machista, con formazione rigida, muscolare, ed esaltazione del ruolo dell'uomo forte. Sono tutti aspetti di background su cui si deve costruire qualcosa di diverso. Abbiamo tutti negli anni scorsi pensato di superare l'impasse femminilizzandoci da maschi o mascolinizzandoci da donne: l'immagine del corpo maschile attuale è si forte, ma anche curata, assomma aspetti non esattamente appartenenti al nostro immaginario del maschio. Ed è fondamentalmente aberrante, perchè è un'esagerazione che non trova spesso una spiegazione reale: da qui deriva anche la crisi della figura paterna, con uomini che non sono capaci di assumersi vere responsabilità. Sempre di conseguenza abbiamo portato gli uomini ad essere gradualmente sempre meno capaci di accettare il no, scatenando come ultimo sfogo la violenza. Cos'è un uomo ora? Autoritario? O autorevole? Se ci pensiamo bene i due concetti sono ormai fusi, l'autorevolezza diventa autoritarietà, e sfocia in violenza. L'ultimo passaggio è quello di trattenere un gesto che razionalmente dovrebbe essere automatico: ovvero denunciare. La rete famigliare, sia quella propria, sia quella più esterna sono fondamentali. Pensiamo al lavoro con le forze dell'ordine che devono gestire l'atto di denuncia e i primi momenti di sfogo: dobbiamo formare le persone che hanno a che fare con donne vittime di violenza, se non sanno come porsi, quando la donna finalmente esce dal guscio, se non sono pronti, possono portare ad un blocco. Lo strumento è assolutamente la formazione.
Quando ricordo a me stessa che sto ricoprendo un ruolo importante, non mi sento a disagio se la vivo come un ruolo di possibilità, di "fare qualcosa per", di "impegno al fine di"... per dare voce alle difficoltà
Mi è venuta in mente un'osservazone parlando dell'argomento del vostro dossier: donne al potere o donne con responsabilità, ci pensavo settimane fa: il potere deriva dalla parola possibilità, a me piace pensare che il potere che mi è dato vada declinato cosi. Il significato banale è: io decido per te, ma questo concetto non è potere, è l'arbitrarietà. Il potere è invece la possibilità di incidere con la propria esperienza e competenza sul miglioramento della propria comunità. Con questa declinazione allora sì, mi sento importante. Quando ricordo a me stessa che sto ricoprendo un ruolo importante, non mi sento a disagio se la vivo come un ruolo di possibilità, di "fare qualcosa per", di "impegno al fine di"... per dare voce alle difficoltà. Non so quanto sia connesso al percorso personale o quanto al fatto di essere donna, però credo di poter dire che questo tipo di declinazione è abbastanza femminile. Se la concezione di "donne al potere" o "donne con responsabilità" è questa, mi piace molto. Le vicende personali poi, anche in alcuni casi vicende difficili, ti rendono consapevole della fragilitä personale e anche collettiva.