Dossier. Le donne, ad esempio. Intervista a Giovanna Forlanelli Rovati, donna, mamma, moglie, manager. Sulle donne ha le idee chiare: «Porsi normalmente come donna è solo visto positivamente. Non è un problema filosofico, ma tecnico, di mancanza di strutture e rete sociale».
La prima domanda parte dal titolo del nostro dossier “Le donne, ad esempio”: e quindi chi è Giovanna Forlanelli Rovati.
È innanzitutto una donna che si è laureata in Medicina e Chirurgia e poi ha deciso di sposarsi. Dopo un’esperienza in un’azienda di marketing internazionale, ha cominciato a lavorare nell’azienda di famiglia — intesa come famiglia del marito — per fare un percorso realmente da manager, partendo dal marketing fino a fondare il reparto di comunicazione dell’azienda, che inizialmente non c’era. Per moltissimi anni, in quanto commerciale, ho viaggiato tanto - l’azienda vende in 75 paesi nel mondo - poi a 33 anni ho avuto una figlia e a quel punto ho deciso di limitarmi ai viaggi europei, proprio per starle più vicino. Sono una donna per così dire privilegiata, perché ho un grande aiuto a casa e questo mi dà la possibilità di curare altre attività e di coltivare i miei interessi, che sono soprattutto di origine culturale e legati all’arte contemporanea. Nel 2005 ho fondato una casa editrice che si chiama Johan&Levi (ne abbiamo scritto su Vorrei nel 2009, ndr) che pubblica saggistica di arte contemporanea. Come tutte le donne, sono molto impegnata perché nonostante l’aiuto familiare, tutti i problemi legati all’andamento e alla gestione della famiglia sono comunque a carico della donna.
Riassumendo: una laurea in Medicina e Chirurgia, responsabile dell’ufficio Comunicazione e Relazioni Esterne di Rottapharm ed editore con la Johan & Levi. Provocatoriamente e ironicamente, questo percorso è frutto di una versatilità “al femminile” tra virgolette?
Più che versatilità sono le curiosità femminili. Pur essendo stata, mi passi il termine, “costretta” in un’azienda di famiglia, ho dovuto dimostrare a me stessa, fondando la Johan&Levi, di essere in grado di costruire un progetto totalmente indipendente. E questa è una sfida che secondo me spesso molte donne, magari meno fortunate di me, non possono affrontare. Il fatto è che noi donne siamo un po’ più introspettive, viviamo talvolta in uno stato di incertezza che ci fa porre domande del tipo “ma sono arrivata fin qui perché ce l’ho fatta io o perché c’è tutto l’environment che mi ha aiutato”?
Nel suo percorso professionale ha incontrato ostacoli riconducibili al suo essere donna?
In azienda mi piaceva molto la parte commerciale e vendita. Tuttavia non ho mai pensato, ad esempio, “vado a dirigere l’azienda in Germania” perché ciò avrebbe comportato una separazione netta dalla famiglia. Avere un marito che ricopre una determinata posizione fa sì che — in linea di massima da quello che vedo io — sia sempre la donna a rinunciare a determinati passi di carriera. Naturalmente ribadisco che sono una donna soddisfatta, fortunata, che ricopre una certa posizione. Ma il più delle volte se credi nella famiglia, hai dei figli, vivi bene in un determinato paese, hai un bel legame con tuo marito, capita di dover fare dei compromessi, ma come nella vita. Tutto sta nell’accettarlo molto serenamente. Lo vedo in Confindustria — sono in giunta di Confindustria e della Fondazione della comunità di Monza e Brianza — nelle grandi associazioni. Un po’ meno forse nel mondo dell’arte, perché lì c’è molta presenza femminile. La donna, soprattutto se è pragmatica, è sempre quella più attiva e quella che alla fine fa, passatemi il termine, il lavoro materiale. Agiamo sempre un po’ da dietro le quinte, abbiamo paura di essere in prima fila. Perché facciamo tante cose e vogliamo farle tutte bene. Ma poi ci scontriamo con una società — quella italiana, perché ad esempio in Olanda è completamente diverso — dove persiste una mentalità per cui la donna è sempre il primo soccorso nella famiglia. E questa cosa comunque vincola.
L’Italia è un paese che offre dei servizi per la donna? Penso a tutte le varie strutture di asili nido presenti nelle aziende, a tanti altri servizi. Quanto è presente questa “rete sociale” in Italia?
La rete sociale effettivamente è carente. E difatti chi la sta costruendo, con gli asili privati ad esempio, sono ancora una volte le donne, per senso di solidarietà. Quello che le posso dire, avendolo vissuto sulla mia pelle, è che se una donna ha raggiunto determinate posizioni, ha un approccio con il personale femminile diverso da quello maschile. C’è una maggiore flessibilità.
Lei che si è ritagliata spazi di lavoro in settori così diversi tra loro, ha notato delle differenze a tal proposito, ossia esistono settori potenzialmente “più femminili” di altri?
Sicuramente tutto il terziaro lo è; l’editoria è un altro settore dove le donne hanno più spazio. In generale lo è tutto ciò che permette alle donne di avere una gestione più flessibile del tempo, che si riflette anche nella possibilità di operare su più ambiti e su diversi piani contemporaneamente. È importante comunque fare anche una scelta di lavoro. Se si ha come principio la famiglia, è difficile puntare a diventare un grande manager. In Italia perlomeno è complesso. Oltre a tutti i problemi già evidenziati di rete sociale insufficiente, nel nostro paese permane ancora un lato negativo su una donna che è in evidenza, che viene vista un po’ mascolina.
Lei ha dovuto rinunciare a qualcosa della sua “femminilità”, del suo essere donna?
No, anzi credo che la femminilità sia un’arma che dobbiamo sfruttare. Da giovane, appena entrata in azienda, indossavo sempre pantaloni e tailleur dal taglio maschile. Con gli anni ho imparato che porsi normalmente come donna è solo visto positivamente, hai un approccio più rilassato e vieni accolta più calorosamente.
C’è qualcosa sul piano personale a cui ha dovuto rinunciare nel perseguire i suoi obiettivi professionali?
Ho fatto delle scelte non legate alla famiglia, ma legate al mio essere e alla mia personalità. Sicuramente rimane questo contrasto interno del dover dimostrare, dell’essere sicura che tutto il successo ottenuto derivi solo dalle mie forze. Ma è una questione caratteriale, molte donne non lo vivono, così come molti uomini possono invece provarlo. Non è una questione di genere.
Vorrei condividere con lei un breve passo tratto dall’introduzione scritta da Simone de Beauvoir al suo libro Il secondo sesso: «Ho esitato a lungo prima di scrivere un libro sulla donna. Il soggetto è irritante, soprattutto per le donne; e non è nuovo. Il problema del femminismo ha fatto versare abbastanza inchiostro, ora è pressoché esaurito: non parliamone più. Tuttavia se ne parla ancora. E non pare che le voluminose sciocchezze spacciate durante l’ultimo secolo abbiano fatto gran parte luce sul problema. D’altra parte c’è davvero un problema? Qual è?» Il libro è stato pubblicato nel 1949 da Gallimard. Ora, senza entrare nel merito di discorsi lunghi e lontani dalla nostra chiacchierata, le chiedo semplicemente se secondo lei è ancora condivisibile questo pensiero, alla luce della sua esperienza.
È condivisibile da un punto di vista tecnico, non è un problema filosofico. Noi non abbiamo un sistema che faciliti il lavoro della donna. Mancano le strutture, mancano gli asili, abbiamo delle leggi sul lavoro che obbligano l’assunzione, per cui anche dall’altra parte è difficile a volte “sposare” un lavoro che sia consono al tipo di vita o a determinati periodi della vita che una donna ha. Non è questione di mentalità. Tutte le donne iniziano a lavorare, ma c’è poi una “perdita” dovuta a problemi tecnici. Anche negli stati anglosassoni, dove si è raggiunta una maggiore parità sul lavoro, comunque il salario della donna in media è più basso. Ci sono senz’altro dei casi eclatanti, però il fatto stesso che la stampa ne parli come caso vuol dire che non è una cosa “normale”.
Spostandoci in ambito più territoriale, ossia nella realtà di Monza e Brianza, sia nel settore industriale che in quello culturale, come vede la situazione della donna?
Sicuramente in ambito culturale ci sono molte più donne che si muovono. In ambito industriale sta cominciando a cambiare qualcosa, nel senso che ci sono donne con attività proprie, probabilmente più attività commerciali, meno industriali. Ma l’autonomia c’è sicuramente.