Intervista a Giovanni Bianconi, autore di “L'assedio”: «Ho voluto ricordare le difficoltà che ha dovuto affrontare in vita. È diventato un eroe solo dopo la morte.»
Giovanni Bianconi, scrittore e giornalista del Corriere della Sera, scrive “L’assedio. Troppi nemici per Giovanni Falcone” (Einaudi), a 25 anni dalla morte del giudice. Ricostruisce attraverso i documenti e i ricordi dei protagonisti l’ultimo periodo della sua vita. “L’assedio” ci riporta in uno dei periodi più bui della nostra Repubblica. Non è la storia di una sconfitta, ma la straordinaria avventura di un uomo che seppure accerchiato — stretto tra mafiosi, avversari interni al mondo della magistratura e una classe politica a dir poco irresponsabile — con la sua caparbia azione, ha segnato il declino di “Cosa nostra”. Ho incontrato Bianconi durante il tour di presentazione del volume e mi ha concesso questa intervista.
Come nasce questo libro?
Nasce in occasione del 25° anniversario della strage di Capaci, quindi della morte di Falcone, della moglie e della sua scorta, immaginavo che si sarebbero celebrati, come era giusto, i fasti di un eroe nazionale, che ha segnato la storia d’Italia e che è diventato un simbolo del contrasto giudiziario della lotta a “Cosa nostra”, alla mafia. Però ho voluto ricordare con questo libro le difficoltà che ha dovuto affrontare in vita. In realtà è diventato un eroe celebrato solo dopo la morte. Prima, nell’ultimo periodo della sua vita, ha dovuto affrontare tante difficoltà, molti ostacoli, alcuni senza riuscire a superarli e questo mi sembra giusto sottolinearlo, l’Italia è un paese dove troppo spesso, si celebrano gli eroi solo dopo la morte e non vengono riconosciuti per quello che fanno in vita.
Dopo il processo di gennaio '92, nel quale per la prima volta i vertici della mafia vengono condannati, iniziano una serie di azioni mirate ad uccidere Falcone. Anche la politica ha avuto la sua parte. La mafia ha interesse a farlo fuori, ma la politica, perché tanto livore nei suoi confronti?
Probabilmente perché il maxiprocesso alla mafia, che si concluse vittoriosamente per l’accusa, quindi per Falcone che l’aveva costruito, era soltanto il primo passo dell’azione giudiziaria contro la criminalità e contro gli intrecci della stessa con il mondo della politica e dell’economia, come aveva scritto nell’ordinanza di rinvio a giudizio. C’era forse un po’ di preoccupazione che il proseguimento dell’azione giudiziaria potesse scoprire altri livelli di complicità e corruzione, soprattutto della politica con la criminalità organizzata. Quando “Cosa nostra” comincia la sua vendetta contro i vecchi amici o i nemici che avevano contribuito al successo del maxiprocesso, i vecchi amici che non lo avevano impedito e i nemici che lo avevano costruito, la politica, il mondo giudiziario stesso e anche l’opinione pubblica, contribuiscono a creare un clima di isolamento e di ostilità nei confronti di Falcone, che di fatto favorisce l’azione della mafia, tesa ad ucciderlo. Se si uccide una persona che comunque è chiacchierata e ostacolata o che viene isolato dall’interno del suo stesso recinto istituzionale, per la mafia è più facile colpire, così com’è successo.
Falcone parlava dell’imbarbarimento della giustizia. A che cosa si riferiva?
Si riferiva alle richieste che gli arrivavano da quel mondo politico che in precedenza — quando era magistrato a Palermo, prima che venisse trasferito a Roma — aveva fiancheggiato le azioni del pool antimafia e che ora chiedeva a lui ed altri magistrati di continuare la loro azione giudiziaria ma non secondo le regole del cosiddetto “metodo Falcone”, ovvero quello di cercare le prove, renderle solide e poi portare a giudizio persone che avrebbero potuto essere condannate. L’imbarbarimento si riferiva al sistema di inviare avvisi di garanzia o indagini nei confronti di personaggi anche famosi, che poi non avrebbero concluso nulla sul piano giudiziario e che avrebbero finito solo per santificare le persone portate a processo e poi assolte, per agevolare il loro futuro e non certo per condannarle. A questo proposito diceva: “l’azione giudiziaria non può essere qualcosa con la quale si deve fare lotta politica, ma qualcosa che deve raccogliere le prove tali da arrivare ad una condanna.
Oggi qual è lo stato della giustizia nel nostro paese? C’è pressione, c’è condizionamento della politica?
Lo stato della giustizia certamente non gode di ottima salute, ci sono problemi strutturali, di mezzi, ci sono problemi di leggi che rendono lento e farraginoso il percorso giudiziario. C’è qualche residuo, parte del mondo giudiziario, che ancora ritiene di continuare a fare indagini secondo quello che Falcone chiamava imbarbarimento del metodo giudiziario, ovvero scoprire solo degli altarini da mettere in pasto all’opinione pubblica, indipendentemente dal risultato giudiziario che si vuole ottenere. Io penso che a 25 anni di distanza, la lezione di Giovanni Falcone e quello che tentava di applicare, anche per le indagini giudiziarie, sia molto attuale.
Cos’è il terzo livello di cui parlava spesso?
Falcone diceva che non esiste il terzo livello, è nella testa di chi lo propaganda. Era una sorta di sovrastruttura che stava sopra alla cupola mafiosa, fatta di politici, imprenditori e alti esperti di economia, che condizionava l’attività mafiosa. Secondo lui era l’esatto contrario, era la cupola mafiosa che condizionava l’economia, la politica, imponendo le sue regole. Aveva parlato di omicidi di tre livelli. Omicidi di primo livello, commessi dai mafiosi per portare a termine le loro trame criminali, per esempio l’uccisione di uno spacciatore o di un concorrente nel traffico di eroina. Omicidi di secondo livello, erano quelli fra esponenti mafiosi, guerre di bande mafiose. Infine quelli di terzo livello, che la mafia commetteva nei confronti di rappresentanti delle istituzioni o di personaggi di terzo livello rispetto alla scala gerarchica criminale, estranei a quel mondo, che servivano per portare avanti le sue trame. Questa era la definizione del terzo livello.
Molte proposte di Falcone, tra cui la superprocura, la direzione antimafia, furono accolte dal mondo politico e dal Governo di allora, presieduto da Andreotti. Fu accusato di essersi venduto al mondo politico. Perché?
Perché era venuto a Roma, in Sicilia non riusciva più a lavorare come magistrato, a fare un’attività inquirente come avrebbe voluto, e quando gli viene proposta la possibilità di lavorare al Ministero, trova l’occasione per costruire quell’apparato legislativo che gli avrebbe consentito, di tornare in Sicilia a fare il giudice inquirente, come aveva fatto in precedenza. Doveva dialogare con la politica, per costruire quell’apparato legislativo che è ancora in vigore e che paradossalmente è entrato in vigore dopo la strage di Capaci, dopo il sacrificio umano di Falcone e Borsellino. Precedentemente non gli si dava credito e sostegno, perché accusato di essersi creato un ufficio apposito, per sete di potere, per conquistare galloni e posizioni di privilegio e per questo attaccato fino al giorno prima della sua morte.
Cosa rimane oggi di Falcone? Cosa dirà ai ragazzi che incontrerà nelle scuole?
Penso rimangano i suoi insegnamenti, il suo messaggio di portare avanti azioni giudiziarie, quando si ha una relativa certezza di ottenere dei risultati. Rimane una strategia antimafia fatta di legislazioni e professionalità specializzate, che oggi abbiamo e che dopo 25 anni di esperienza è una delle più avanzate nel mondo. Tutto questo è stato possibile grazie al suo sacrificio. Ai giovani che incontrerò nelle scuole, che non erano nati quando Falcone è morto ma sanno che è un eroe, racconterò il suo sacrificio, le difficoltà che ha trovato in vita, prima di diventare un eroe nazionale e che la speranza è quella che non succedano più disastri nel nostro paese.