Il 25 novembre è la Giornata internazionale per l'eliminazione della violenza contro le donne. Ma a che punto siamo con la condizione della donna e del femminismo? Ne parliamo con Rosa Melodia
Raggiungo Rosa al suo studio, in una strada centrale della città. L’orario non è quello di punta, ma c’è parecchio traffico e la luce lunga del pomeriggio sta lasciando il posto alle prime luci serali che riscaldano i toni di un autunno tutto sommato mite da queste parti.
Ci troviamo nel bel mezzo di un anello che circonda la cinta muraria medievale della città.
Vista dalla finestra di quel primo piano, la vita scorre al ritmo lento del traffico: nessun eccesso, lievi accelerazioni e stanche frenate, prima di arrivare a quella che, malgrado l’odonomastica, è nota ai più come la “salita dei Persio”, storica famiglia che in quella strada ci viveva e ci vive ancora.
Sembra, in quella parte della città, che le strade si siano adattate ad un’edilizia preesistente e che i palazzi siano stati disegnati prima rispetto alle vie che bisogna percorrere per raggiungerli.
Una volta, le strade e i loro nomi si adattavano agli usi dei posti intorno ai quali si dislocavano, indicando spesso un segno di appartenenza che le riconduceva ai “signori”.
Il senso del bene comune, forse, era ancora lontano e inaccessibile alla mentalità contadina altamurana dell’epoca, che viveva quella frattura tra dominanti e dominati, come il paradigma storico che ancora si replica tra governanti e governati.
La rivoluzione del 1799 è un ricordo troppo sfocato nonostante la via dedicata ai suoi martiri, non molto lontana da lì. Ma si sa, all’occorrenza si usa la storia a nostro piacimento e io spesso uso “la rivoluzione” per giustificare qualsiasi cosa.
Parliamo di questo con Rosa Melodia, del suo impegno politico, di storia, di beni comuni (Rosa è consigliera comunale e rappresentante del movimento civico Abc – Altamura Bene Comune), parliamo dei suoi antenati nobili.
Ma i nobili ora non ci sono più. Nobili restano le cause, le idee e le azioni quotidiane, le azioni politiche.
Nobile può essere parlare ancora di lotta di classe, di femminismo inteso come il primo momento politico di critica storica alla famiglia e alla società, che è il principale motivo per cui sono venuta a trovare Rosa. Nobile è parlarne ora in un contesto (il nostro) in cui le nuove generazioni «pensano di fare un salto nel mondo delle streghe quando si affrontano questi temi» — mi dice Rosa.
Nobile è la consapevolezza degli anni che Rosa conta e riconosce sulla pelle matura: «cedo il passo ad una bellezza giovanile che non mi ha compiaciuta» — si presenta così quando le chiedo di parlare di sé.
In quella stanza, il profumo e il fumo di sigaretta si riconoscono a vicenda. Le chiacchiere invitano a stare alla finestra, magari per continuare a fumare, o per sbirciare ancora un po’ la città che cammina ai nostri piedi al ritmo di un singhiozzo.
Le chiedo di suo padre, del suo cognome, perché in fondo le partenze sono importanti, e mi ritrovo a parlare anche io di me e di un ordine patriarcale sovvertito nella mia famiglia, in un mondo che normalmente vuole i figli più figli dei padri che delle madri.
Giustifico il mio intervento anch’io con un cognome, il mio, che mi è stato tramandato da una donna: una bisnonna che rimasta vedova, aveva dato ai suoi figli il proprio cognome.
Continuare ad avere figli senza un marito in un meridione degli anni ‘30, poteva essere una scelta tanto scellerata quanto coraggiosa. A me piace pensare che avesse compiuto una piccola rivoluzione di provincia dai confini domestici.
Senza saperlo aveva messo in discussione due ordini millenari che saranno teorizzati solo quarant’anni dopo nel manifesto di rivolta femminile (basato sul testo elaborato da Carla Lonzi, Carla Accardi ed Elvira Banotti e comparso sui muri di Roma nel luglio del 1970).
1966 Carla Accardi nello studio di Roma. Foto di Ugo Mulas
Quella donna nata nel 1907, quando nel nord Europa le donne iniziavano a votare (mentre in Italia dovremo aspettare il 1946), cambiava la regola secondo cui con il matrimonio si designa quel passaggio di proprietà dal padre al marito, perdendo insieme al cognome l’identità.
E cambiava la regola (che sarà scritta anni dopo nel manifesto) secondo cui «chi genera non ha la facoltà di attribuire ai figli il proprio nome: il diritto della donna è stato ambito da altri di cui è diventato il privilegio».
Ho sempre pensato a quella donna mai conosciuta, come penso oggi a Franca Viola, che rivendicò pubblicamente e con forza quel non appartenere a nessun altro se non a se stessa, in quella Sicilia dove Pietro Germi ambienta Divorzio all’italiana. Franca fece la sua parte, anticipando lo slogan che sarà sessantottino “io sono mia” e rifiutando un matrimonio riparatore in nome della sua libertà piena e logica come è logica la consapevolezza dell’ingiustizia. Erano gli anni ‘60 della modernità, quando si preferiva il delitto d’onore al divorzio.
Inizia tante volte la conversazione tra me e Rosa, con esperienze di vita vissuta e scambiata, nostre e delle donne che conosciamo e che riconosciamo. L’incontro con Rosa parte da un’esigenza, ossia quella di affrontare ancora una volta, i temi del femminismo in un momento storico in cui l’aggettivo “femminista” ha assunto un’accezione negativa e sembra che il femminicidio abbia sostituito il delitto d’onore.
D’altra parte l’abrogazione delle disposizioni sul delitto d’onore è storia recente (il 1981 è l’altro ieri) ed è avvenuta persino dopo il referendum sul divorzio (1974). Un reato che si è perpetuato fino a tempi così recenti, dimostra quanto sia ancora radicato quell’esercizio di dominio e di controllo sessuale e sociale sul sesso femminile da parte dell’uomo.
La questione pura e semplice, è che siamo di fronte ad un abuso di potere e non ammetterlo (come è evidente dal marasma mediatico delle ultime settimane) equivale ad essere più garantisti con gli uomini che con le donne. Ammetterlo invece, significherebbe (forse) capire che non c’è un abito femminile che sospenda la libertà di decidere, che sospenda l’essere libere “di” e l’essere libere “da”.
Esiste una sorta di legittimazione culturale per non denunciare il maschilismo, in un paese dove (per esempio) un premier (ora ex) si sente autorizzato a dire alla vicepresidente della camera (e cito un esempio a caso) “che è più bella che intelligente”.
Ed è questa la vera radice della violenza sulle donne: quel perpetuarsi nella sfera pubblica come in quella privata del patriarcato maschile.
«Il patriarcato maschilista » — come dice Christian Raimo — « è l'acqua in cui abbiamo nuotato, anche se abbiamo avuto la fortuna di essere stati educati in ambienti emancipati e abbiamo scelto di essere femministi».
Per millenni la donna è stata considerata non in rapporto alla società, ma solo in rapporto alla famiglia della quale sembrava l’unica custode. Non le era permesso di partecipare alla vita politica, così come non le era permesso di istruirsi e anche questo è un dato che ci viene consegnato da una storia relativamente recente.
Il movimento femminista che si muoveva sull’onda della contestazione giovanile del ‘68, vedeva in quegli spazi politici di entusiasmo rivoluzionario dove si condivideva locus e logos, il primo reale momento storico di emancipazione vera. Ma persino le idee di uguaglianza che pervadono la lotta e l’impegno degli studenti e dei partiti di sinistra, non trovano un riscontro reale nel rapporto uomo donna.
Anche all’interno dei movimenti sembra perpetuarsi quel ruolo subalterno e marginale delle donne e presa coscienza di questa discriminazione, le sessantottine creano spazi solo femminili dove incontrarsi e discutere. Si aprirà in questo modo una politica separatista che vedrà “le donne parlare solo con le donne”. Anche per questo, le donne rivendicheranno una parità di genere che sfocerà spesso nel voler adottare modelli maschili.
Ma oggi sappiamo che la donna non assume dignità in quanto copia dell’uomo e che la risoluzione del problema non sta nella parità o nell’assimilare la donna al “modello maschile”. La liberazione non sta nell’uguaglianza, ma nel rispetto delle differenze.
È con questo pensiero che introduciamo Labodif il laboratorio delle differenze, che in questi ultimi anni aveva sollevato una curiosità alla quale sentivo di dover dedicare attenzione. Rosa che partecipa ai percorsi di ricerca, formazione e analisi della società Labodif, è lì a dare una risposta a quella mia curiosità incerta, quella di chi non sa bene da dove iniziare. «Per definizione, Labodif» — mi spiega Rosa — è una società di consulenza e servizi nel campo della comunicazione e delle ricerche di mercato».
Per le donne che lo frequentano come Rosa, è una tavola apparecchiata dove poter intingere dallo stesso piatto. È una casa dove potersi piegare i vestiti a vicenda.
Il lavoro di questa società mira ad un approccio strutturato di ricerca e valorizzazione degli elementi distintivi che contraddistinguono qualsiasi realtà.
L’obiettivo principale è trovare l’elemento differenziante nei progetti di ricerca e comunicazione.
Oggi le differenze contano sempre di più, per questo Labodif ha implementato metodologie ad hoc per studiare e comunicare con target sempre più diversificati per età, genere, religione, cultura. In particolare Labodif ha investito nella creazione del metodo IES, ossia l’indice di intensità di espressione della soggettività, indicatore che misura la capacità e l’intensità di desiderare qualcosa.
«La metodologia IES» — mi spiega Rosa — «sposta il metodo d’indagine dal “comportamento” al “desiderio” e studia l’attitudine degli individui a trasformare i propri desideri in azioni».
Ideatrici di questo programma sono Giovanna Galletti (responsabile dell’area attività ricerca) e Gianna Mazzini (responsabile dell’area immagine e comunicazione).
Labodif diventa il pretesto per aprire una finestra su un mondo dove il patriarcato ha lasciato le sue tracce come un aratro trainato a dissodare la terra prima della semina.
Rosa è attenta alle parole, consapevole che la rivoluzione passa anche dal linguaggio, in un mondo dalle etimologie contraddittorie, dove la patria è madre, ma vige la legge dei padri e dei loro cognomi, dove virile e virtù hanno la stessa radice e il patriottismo è una cosa da uomini.
E non conta se la storia ci ha restituito un “esercito” di donne/operaie che durante la seconda guerra mondiale hanno sostituito i mariti in fabbrica, o se le partigiane hanno contributo combattendo alla liberazione.
Da Labodif capisco che c’è bisogno di partire dal presupposto che uomini e donne sono profondamente diversi.
“La donna é l'altro rispetto all'uomo. L'uomo é l'altro rispetto alla donna”, recita il primo articolo del manifesto della rivolta femminile, rifiutando l’uomo come portatore del ruolo predominante.
Ci ritroviamo a saltellare da un discorso all’altro io e Rosa, come dei grilli che cambiano prospettiva a seconda del salto, e così parliamo del Processo per stupro, oggi attuale più che mai.
Frame tratto da “Femminismo” di Paola Columba
L’avvocata Tina Lagostena Bassi, che nel processo era difensore di parte civile, sottolineava come gli avvocati che difendevano gli accusati di stupro potevano essere altrettanto violenti nei confronti delle donne, inquisendo sui dettagli della violenza e sulla vita privata della vittima, puntando a screditarne la credibilità e finendo per trasformarla in imputata.
L'atteggiamento mentale che emergeva in aula non era tanto diverso da quello che succede oggi: se c'era stata una violenza, questa doveva evidentemente essere stata provocata da un atteggiamento sconveniente da parte della donna. La vittima diventava imputata.
Era il 1979 e questo fu un caso capace di cambiare il codice penale e la percezione del reato (forse).
Un dato interessante a questo punto è sapere che l’approvazione in Italia della legge della violenza sessuale, risale al 1996 quando ha smesso di essere un reato contro la morale diventando reato contro la persona.
A Hollywood è stato scoperchiato un vaso di Pandora, ma questo è solo un esempio: basterebbe guardare qualsiasi campo, anche quello più emancipato e insospettabile, per scoprire che fuori dai tribunali alcune donne subiscono ancora quei processi.
Viene da chiedersi da dove iniziare.
Abbiamo detto che la rivoluzione passa anche per il linguaggio, perché la lingua è il ricettacolo dei nostri pregiudizi, delle nostre convinzioni e dei nostri preconcetti. E mentre qui siamo a discutere se sia opportuno o meno usare il termine femminicidio, in Francia si discute di grammatica e “scrittura inclusiva”, perché la lingua francese fa testo ad una grammatica di fine ‘700 che giustifica la nobiltà del genere maschile con queste parole di Nicolas Beauzée: «il genere maschile è reputato più nobile del femminile a causa della superiorità del maschio sulla femmina».
Ogni giorno scegliamo e pesiamo le parole con cui parlare. A tutti coloro che rifiutano di utilizzare il termine femminicidio, vorrei dire che questa parola non indica il sesso della persona uccisa, ma il motivo per cui viene uccisa.
Vorrei dire loro che questa cosa succede più o meno ogni tre giorni e che «gli uomini violenti non riescono ad avere una risposta evoluta e costruttiva all’impotenza che provano quando sono rifiutati definitivamente dalla partner che credevano loro, e attuano le più istintive e distruttive risposte per recuperare un senso di potere sulla realtà come » — come spiega Nives Favero.
Viene da chiedersi, come continuare.
Occorrerebbe recuperare una dialettica sana dove gli autori conversino con le autrici. Occorrerebbe studiare i libri scritti dalle donne e adottarli nei percorsi scolastici, rileggere la letteratura femminile. Virginia Woolf, per esempio (come suggerisce Rosa) con la sua Le tre ghinee, ritenuto uno dei testi di origine del pensiero della differenza sessuale, ha lasciato uno dei contributi più significativi del femminismo pacifista.
Viene da chiedersi, perché Dovremmo essere tutti femministi, parafrasando Chimamanda Ngozi Adichie, una scrittrice nigeriana contemporanea che lo ha spiegato durante una conferenza. L’ha fatto con parole semplici e per questo le riconosciamo un grande merito. Il Time, la annovera nella sua classifica delle cento persone più influenti al mondo dal punto di vista intellettuale.
Perchè dovremmo essere tutte femministe e tutti femministi lo spiega con parole semplici anche nel suo libro Cara Ijeawele, ovvero Quindici consigli per crescere una bambina femminista.
Siamo tutte figlie, ma non tutte le figlie sono madri.
Questo vademecum è quindi soprattutto per tutte le donne.
Tra i consigli che mi sono piaciuti di più, ne condivido alcuni con Rosa:
- Sii una persona completa. La maternità è un dono fantastico. Ma evita di definirti solo in termini di maternità.
- Non dire mai a tua figlia che deve fare o non deve fare una cosa perchè è una femmina. Perchè sei femmina non è mai una buona ragione. In nessun caso.
- Di a tua figlia che è importante cavarsela da sola e badare a sè.
Diamo subito per scontato che le ragazze non sappiano fare molte cose. Falle provare a riparare gli oggetti quando si rompono. - C’è una sfumatura di paternalismo nel fatto che le donne debbano essere difese e onorate perché sono donne. Mi fa pensare alla cavalleria, e il presupposto della cavalleria è la debolezza femminile.
- Insegnale a bandire l’ansia di compiacere. Il suo obiettivo è essere pienamente se stessa, una persona onesta e consapevole della pari umanità degli altri.
Molte ragazze dopo un abuso rimangono zitte perché vogliono essere carine. Molte ragazze passano troppo tempo a cercare di essere carine verso chi fa loro del male.
Viviamo in un mondo pieno di donne incapaci di respirare a fondo perché costrette per tanto tempo a rinchiudersi nei modelli che le rendono gradevoli.
Anziché insegnarle a compiacere, insegnale ad essere onesta, gentile, coraggiosa.
Incoraggiala ad essere franca, a dire quel che pensa davvero, a dire la verità e lodala quando lo fa. Lodala quando prende una posizione scomoda o impopolare perché rispetta la sua genuina opinione. Dille che la gentilezza e importante e che non è necessario piacere a tutti. - Non pensare che educarla al femminismo sia rifiutare la femminilità. Femminismo e femminilità non si escludono a vicenda.
- Insegnale a mettere in discussione l’uso della biologia a giustificazione delle norme sociali. Spesso usiamo la biologia per giustificare i privilegi degli uomini, prima di tutto la loro superiorità fisica. La biologia è una materia bella e affascinante, ma non bisogna mai prenderla a giustificazione di qualsivoglia norma sociale. Perché le norme sociali sono create dagli esseri umani, e non c’è norma che non possa essere cambiata.
Lascio Rosa con l’ultimo consiglio letto tra quelli di Chimamanda, che mi ritrovo a ripetere come un mantra sulla strada del ritorno, tra le luci dei lampioni e i fari delle macchine:
che una donna sostenga di non essere femminista non sminuisce la necessità del femminismo.
In apertura: Louise Bourgeois Cell XXVI, 2003 (detail). Collection Gemeentemuseum Den Haag, The Netherlands
Photo: Christopher Burke. © The Easton Foundation / VEGAP, Madrid