20171013 seconda generazione 

Dossier razzismo. Intervista a Nadia Bouzekri, presidente dei Giovani Musulmani d'Italia, e a Bilal Daaou, che fa parte del gruppo giovani che si impegnerà nella campagna di Giorgio Gori per la presidenza di Regione Lombardia. «L’unica cosa davvero estrema nella mia vita è mio padre, che è molto interista.»

 

Nadia Bouzekri, 24 anni, è nata e cresciuta a Sesto. La sua famiglia, di origini marocchine, si è trasferita in Italia trent’anni fa. La mamma casalinga e il padre impiegato. Ha iniziato a interessarsi alla politica e all’associazionismo già ai tempi delle scuole superiori; in pochi anni ha scalato le vette più alte dei Giovani Musulmani fino ad essere eletta presidente nazionale nel maggio scorso. L'associ è la più importante realtà giovanile del mondo islamico italiano. Con oltre 1.200 iscritti e 51 sezioni locali, a cui nei prossimi mesi se ne aggiungeranno altre venticinque, su tutto il territorio nazionale da Bolzano a Reggio Calabria. 

Quando ho aperto la lettera che mi chiedeva se sceglievo la nazionalità di questo Paese, mi è venuto da sorridere perché io ero già profondamente italiana.

Com'è fare parte della seconda generazione?

«Sono cresciuta con un'educazione a metà strada tra l'Italia e il Marocco, ma sono nata qui. Nonostante questo, ho ricevuto la cittadinanza solo alla maggiore età: quando ho aperto la lettera che mi chiedeva se sceglievo la nazionalità di questo Paese, mi è venuto da sorridere perché io ero già profondamente italiana. Lo Stato deve fare un passo in avanti verso le seconde generazioni di immigrati. È assurdo che bambini nati qui debbano andare in Questura per rinnovare il permesso di soggiorno. Il modello italiano, però, resta migliore rispetto ad altri Paesi europei, qui non ci sono quartieri-ghetto. Ma lo Stato deve stringere un’intesa con l’Islam riconoscendo i luoghi di culto: così ci saranno spazi di preghiera trasparenti. La lezione belga e francese ci insegna che i terroristi non frequentano centri islamici, hanno una visione distorta della religione, costruita su Internet». 

Hai mai vissuto episodi di discriminazione?

«A Sesto, città medaglia d’oro al valore militare per la Resistenza, non ho mai riscontrato discriminazioni o razzismo. C’è da dire che la comunità musulmana sestese ha intrapreso un lungo percorso di conoscenza, dialogo e iniziative per abbattere i pregiudizi e la diffidenza: dalle cene di Ramadan Saperi e Sapori alla fiera delle associazioni dedite al volontariato. A Milano, invece, molte compagne mi raccontavano che spesso quando salivano con una valigia su un autobus le dicevano “Ciao Isis”. La diffidenza e i pregiudizi verso il diverso non rendono la vita facile anche se si è nati e cresciuti qui in provincia di Milano. Ogni tanto il mio velo porta alcune persone a guardarmi come se fossi non solo estranea, ma persino pericolosa. Non incolpo loro, ma quella classe politica che ha fatto della diffidenza e del pregiudizio una perenne campagna elettorale. A volte per il velo sono stata scartata dai colloqui di lavoro, nonostante il mio ottimo curriculum. Ma io, all’altrui paura, rispondo col sorriso e con la cultura. La conoscenza dell’altro e dei suoi valori permetteranno di non dubitare più dell’Islam».

 

nadia bouzekri

 

A volte per il velo sono stata scartata dai colloqui di lavoro, nonostante il mio ottimo curriculum.

Quali sono le leggende metropolitane dell'Islam, quello che genera diffidenza e pregiudizio?

«Sicuramente il fatto di non distinguere tra la religione e il retaggio culturale tradizionale. Ad esempio, l’Islam non limita la donna, anzi, la pone a un livello pari, se non superiore per alcuni aspetti a quello dell’uomo. Anche in Italia le donne guadagnano meno degli uomini: c’è ancora tanto da fare indipendentemente dal credo». 

Indossi il velo. Ogni tanto non ti viene voglia di non metterlo, di lasciare i capelli sciolti o di indossare dei vestiti occidentali, una minigonna, un top?  

«Nessuno mi ha imposto di indossare il velo. Ho scelto da sola. Avevo 16 anni. Era il 25 aprile. La Festa della Liberazione d’Italia per me era la liberazione dal dover per forza dimostrare sempre qualcosa di diverso dalla mia intelligenza. Liberarsi da qualsiasi preconcetto e riuscire a valorizzare la donna per quello che pensa e non per come si veste».

In cosa ti senti diversa dalle tue coetanee?

«Facciamo shopping in posti diversi, io appena posso corro in Marocco o in Turchia per rifarmi il guardaroba».

È difficile essere donna nella comunità musulmana, visto che la visione occidentale è che le donne siano molto sottomesse all'uomo?

«Ci tengo a sottolineare che una ragazza che indossa un velo, il hijab, non vuol dire che sia sottomessa o segregata in casa, vittima di un padre padrone. È una narrazione errata che relega la donna a un essere umano privo di volontà propria e di intelletto, succube di una mentalità maschilista. Basterebbe guardarsi attorno e notare giovani donne studiose e grintose, che hanno molto da raccontare».

“Le donne sono sorelle degli uomini, non le onora che un generoso e non le maltratta che un infame”

Ti hanno eletta presidente, una presidente donna. I giovani musulmani hanno una mentalità più aperta?

«Non è una questione di essere maschio o femmina. Penso che la mia vittoria sia importante soprattutto perché nelle associazioni esiste un processo democratico con cui i soci possono votare e scegliere chi vogliono che li rappresenti e guidi. Noi lo abbiamo rispettato. Quando mi si chiede com'è essere la prima presidente donna sorrido, perché non è una novità per l'associazione avere donne leader, attualmente il 60% dei responsabili locali sono ragazze dai 18 ai 25 anni, non tanto perché sono donne, ma perché sono competenti e capaci. Ecco il vero metro di giudizio. E nella Giornata internazionale contro la violenza sulla donna, piaga sociale trasversale alle culture e che richiede un’educazione a più livelli, ricordo queste care parole di Muhammad, brevi ma di una grande saggezza: “Le donne sono sorelle degli uomini, non le onora che un generoso e non le maltratta che un infame”».

Non hai riscontrato davvero nessuna difficoltà?

«Alcuni hanno espresso perplessità sulla possibilità di riuscire a fare tutti i viaggi che l’incarico richiedeva. Attraversare l'Italia da sola, con spostamenti notturni. Paradossalmente le critiche maggiori sono arrivate proprio dalle donne. Ognuno è libero di pensare quello che vuole».

Quale è il tuo impegno all'interno dell'organizzazione dei Giovani Musulmani? Per cosa stai lavorando e lottando?

«La mia avventura con i Giovani Musulmani è iniziata 6 anni fa, con il neonato gruppo di Monza e i campeggi regionali, cercando di conciliare studi e attivismo. Un'associazione di giovani per giovani, impegnati nel conoscere se stessi e la propria fede. "Il migliore di voi è il più utile alla comunità", uno degli insegnamenti del Profeta, pace e benedizione su di lui, che abbiamo fatto nostro. E con comunità intendiamo tutta la società, tramite una cittadinanza attiva e una partecipazione consapevole. Ad esempio, ci siamo impegnati sul versante politico promuovendo incontri informativi sul Referendum Costituzionale. Vorrei abbattere quei muri di diffidenza e pregiudizio, far conoscere questa generazione di giovani musulmani italiani che ogni giorno contribuisce a costruire questo Paese. Ci sono medici, avvocati, ingegneri, insegnanti, educatori. Nel loro giorno libero fanno volontariato. Chi con la Croce rossa, chi con le fondazioni per l’assistenza ai profughi e chi in tanti altri settori. Tante brave persone che vengono scoperte solo quando si smette di giudicarle per il loro velo o la loro barba.

L’unica cosa davvero estrema nella mia vita è mio padre, che è molto interista.

Una domanda scomoda. L’associazione è stata spesso accusata di «estremismo», si sono state polemiche anche su eventuali finanziamenti illeciti.

«Lo statuto è chiaro e i membri che ne fanno parte non hanno mai avuto alcun coinvolgimento con pensieri di questo tipo, l’unica cosa davvero estrema nella mia vita è mio padre, che è molto interista. Noi Giovani Musulmani siamo come le Acli, gli Scout. Persone religiose, ma prima di tutto italiani impegnati nella vita sociale. Vorremmo non dover sempre dimostrare di essere davvero italiani, non dover ribadire a ogni strage che siamo contro gli attentati, che quella non è la nostra fede. Credevamo che l’equazione islamismo e terrorismo fosse superata, invece sentiamo tanta diffidenza verso di noi. Il velo o i simboli islamici sono collegati ad aggressività, violenza o estremismo: niente di più sbagliato.  Per i finanziamenti non arrivano dai Paesi arabi, ma attraverso le tessere dei soci, bandi pubblici e, se necessario, ci autotassiamo con l’aiuto delle famiglie».

 

bilal daaou

 

Altro figlio di seconda generazione, è il ventiduenne Bilal Daaou.  Famiglia algerina, nato in Emilia Romagna e compagno di scuola del figlio del Liga, come lo chiama lui. E' arrivato a Milano per studiare ingegneria gestionale. 

C’è un aneddoto della tua vita che spiega bene come si sente un figlio di seconda generazione?

«Ho sempre giocato a calcio ed ero bravo, mio padre, come ogni papà che ama il calcio, spera che suo figlio diventi un calciatore. E così un giorno mentre giocavamo insieme, ho detto che mi sarebbe piaciuto entrare nella nazionale. Mio padre ovviamente dava per scontato che intendessi la nazionale algerina. È stata la prima volta che ci siamo confrontati su questo punto e ha capito come mi sentivo riguardo alle mie origini. Gli ho detto: “Papà ma io sono italiano e giocherò per gli Azzurri. Sono nato e cresciuto qui, conosco i dialetti, mangio pasta tutti i giorni!”. All’inizio è rimasto male, ma poi ha capito, i miei genitori sono molto liberali».

Papà ma io sono italiano e giocherò per gli Azzurri.

Che rapporto hai allora con l’Algeria, con le tue origini?

«Per me l’Algeria è la vacanza. Ci torno in estate per ritrovare i parenti, come succede a tanti miei coetanei nati al Nord e che hanno i genitori del Sud e che d’estate vanno a trovare i nonni. Dell’Algeria mi piace molto l’ospitalità, sono un po’ come la gente del Sud. Mi piace perché sono un popolo libero. E’ curioso però, perché qui in Italia mi dicono che sono algerino, mentre in Algeria mi dicono che sono italiano». 

Sei mai stato discriminato per il tuo nome e le tue origini?

«Quasi mai, devo dire la verità. Al liceo sono andato a Reggio Emilia, ero l’unico a Correggio ad aver scelto l’indirizzo informatico, mi sono ritrovato in una città nuova, in una scuola nuova senza conoscere nessuno. Ovviamente ero l’unico studente musulmano e con un nome arabo e in classe avevo due fascisti di Casa Pound. Com’è finita? È finita che mi sono preso una delle più grandi soddisfazioni della mia vita: uno di loro è venuto a chiedermi aiuto per studiare grammatica italiana. Ma come, proprio tu chiedi a me, figlio di immigrati, aiuto con l’italiano? Comunque l’ho aiutato a studiare».

In classe avevo due fascisti di Casa Pound. Com’è finita? Uno di loro è venuto a chiedermi aiuto per studiare grammatica italiana.

Diciamo che sei anche quanto più lontano ci sia dallo stereotipo dell’arabo: carnagione scura, pronuncia difficoltosa, suoneria con musica arabeggiante sul cellulare...

«Una volta all’università si parlava in  gruppo  con altri studenti e tutti molto carini e gentili. Non appena però pronuncio il mio nome, subito un distacco, una presa di distanza. Non succede spesso, ma a volte un po’ di diffidenza c’è. Diciamo che l’altro cliché da sfatare è che musulmano e arabo siano la stessa cosa. Esiste l’Islam asiatico, turco, e cinese, quello arabo è una minoranza. Capisco che la gente in questo momento storico, di crisi, in cui si sente senza prospettive cominci a guardare il suo vicino. Non capisco invece la politica che esalta questo clima di disagio, di odio e destabilizzazione. Credo comunque che questa mentalità appartenga più agli adulti che ai giovani». 

Perché i giovani come sono?

«Noi siamo la generazione “EasyJet” come la chiamo io, abbiamo demolito le distanze, viaggiamo con facilità, abbiamo internet, sappiamo che esiste la diversità e non ci spaventa. Anzi. Io sono appassionato di tecnologia e innovazione. La grande innovazione che ha investito il mondo degli ultimi 30 anni è iniziata grazie a Internet e grazie al fatto che si sono messe insieme culture diverse per trovare nuove soluzioni».

Tu, un po’ come Mughini, urli «aborro» quando si utilizza il termine «integrazione».

«Quando parlano di integrazione mi cadono le braccia. Parli a me di integrazione che sono ambasciatore emiliano a Milano e ambasciatore italiano in Europa? È un concetto superato, il termine corretto oggi è interazione. Sono cresciuto in oratorio giocando a pallone. I miei amici cattolici la domenica mi portavano in chiesa, ed io ero affascinato dalle vetrate, gli affreschi, quell’architettura bellissima. Mentre io non li portavo in moschea, mi vergognavo. I nostri genitori immigrati affittano un sottoscala, buttano giù i tappeti e quella è la moschea. È una cosa che deve cambiare, i luoghi di culto devono avere arte, bellezza e cultura. Vorrei che le nuove moschee fossero progettate da un architetto musulmano italiano. Ad esempio, oggi è di moda il minimal, le linee pulite, basta minareti come hanno fatto i turchi in Germania! Non ha senso. Mia mamma ha fatto un bell’esempio di interazione: il cous cous con il parmigiano reggiano. Buonissimo!». 

Mi sembra che qui ci sia uno scontro generazionale tra musulmani.

«Più che scontro direi confronto. Comunque sì, c’è stato. Abbiamo lottato per avere la nostra autonomia. Per questo è nata l’associazione Giovani Musulmani d’Italia. Tutto è cominciato quando abbiamo chiesto di fare degli incontri tra noi ragazzi. C’è stato risposto che potevamo solo alla presenza dell’Imam o di un adulto. Ma noi volevamo i nostri spazi e ci siamo riusciti. Non siamo più bambini da proteggere, ma giovani che devono diventare responsabili e autonomi».

Smontiamo oppure confermiamo un po’ di luoghi comuni: il crocifisso nelle scuole.

«Io ho studiato in aule con il crocifisso, così come tanti musulmani miei coetanei. Non ci ha creato alcun problema. Il punto è che se viene uno da un paesino piccolo, con una cultura medievale e fa storie per il crocifisso, la stampa ne fa un caso nazionale. Ma non è il pensiero di tutti. Certo, se si sta alla Costituzione la scuola è laica. Non dovrebbe avere simboli religiosi. Ma io, per risolvere qualsiasi problema li esporrei tutti. Così non se ne parla più».

La condizione e la discriminazione delle donne in Arabia Saudita non dipendono dal Corano ma dal retaggio delle tribù.

L’infibulazione e le donne sottomesse e obbligate ad indossare il velo o il burqa... 

«Non è che i musulmani praticano l’infibulazione. In alcuni Paesi dove si pratica anche l’Islam c’è questo retaggio culturale. La condizione e la discriminazione delle donne in Arabia Saudita non dipendono dal Corano ma dal retaggio delle tribù. Penso che si rimanga ancora troppo in superficie senza approfondire, come per la questione che arabo e musulmano siano la stessa cosa. Io sono musulmano ma di cultura araba non so niente. Cucino italiano, leggo scrittori inglesi, ascolto musica italiana, guardo alla politica americana e italiana. La cultura araba non fa parte della mia vita». 

Ultimo luogo comune. Musulmani e Isis.

«Ogni volta che succede qualcosa, tutti, anche gli amici, mi chiedono “è vero che tu condanni quello che è successo? È vero che tu condanni i terroristi?” Ma certo! Ma io cosa c’entro? O la comunità musulmana cosa c’entra?».

Così aperto e moderno, allora ti fidanzeresti anche con una ragazza atea?

«Certo, la religione è solo un aspetto della vita. Mio fratello si è sposato con una ragazza romagnola cattolica». 

Cosa ne pensi di come viene trattata spesso comunità musulmana?

«Penso che sarebbe ora di pensare insieme al futuro. I musulmani sono i nuovi terroni. Tra 40 anni non si parlerà più di noi. Ma io dico di non perdere tempo, di imparare dalla storia. La cooperazione con le seconde generazioni può aprire delle porte economiche verso nuovo Paesi.  Io posso essere un ponte per  l’Algeria. La cooperazione è la strada giusta per il futuro».

 

La foto di apertura è tratta da www.meltingpot.org

 

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Gli autori di Vorrei
Sonia Minchillo