Da dove viene e dove va l'Impero di Mezzo. Gabriele Battaglia racconta la grande Repubblica Popolare del 2017, tra passato, presente e futuro.
Gabriele Battaglia è uno dei pochi giornalisti italiani che lavorano stabilmente in Cina. Corrispondente per Radio Popolare, voce competente di quanto accade nel Far East eurasiatico, scrive su Internazionale, Il Venerdì di Repubblica, Q Code, Il Fatto Quotidiano ed è direttore dell'agenzia China Files.
Abbiamo approfittato di un suo breve periodo di permanenza a Milano per incontrarlo e provare a mettere ordine tra le principali trasformazioni che stanno avvenendo oggi nella Terra del Dragone.
Nell'ultima conferenza di Davos abbiamo ascoltato il presidente Xi Jinping farsi difensore della globalizzazione; sempre più spesso vediamo, quella che un tempo fu la grande fabbrica a basso costo del mondo, presentarsi col vestito nuovo e il portafogli pieno a comprare aziende strategiche, materie prime, squadre di calcio, anche sui mercati europei. La Cina cambia in fretta e quel che era vero ieri non lo è più oggi. In queste righe ci siamo chiesti soprattutto come sarà domani e - pur nell'impossibilità oggettiva di dare una risposta - Gabriele non si è tirato indietro e ci ha detto la sua.
Di seguito una sintesi della lunga chiacchierata fatta di molti temi importanti: l'eredità della Rivoluzione nella Cina di Xi Jinping, i grandi piani di urbanizzazione di massa, i possibili cambiamenti politici dei prossimi anni, la condizione dei contadini fanalino di coda della globalizzazione, il ritorno delle religioni e il timore delle infiltrazioni terroristiche di stampo islamista.
Gabriele Battaglia
Gabriele, iniziamo così: 1917-2017, ci sono ancora tracce della rivoluzione comunista nella Cina di oggi?
Nel 1917 la Cina era in uno dei periodi più difficili della sua storia contemporanea, già si avviava al tramonto l'esperienza della rivoluzione repubblicana del 1911, che fu il primo grande tentativo di uscita dal mondo imperiale. Quanto avvenne in Russia nel 1917 ebbe riflessi ovviamente anche in Cina: a Shanghai, correva il 1921 – lo stesso anno in cui accadde in Italia – nacque il Partito Comunista Cinese (PCC). C'è quindi una linea di continuità da quel 1921: il partito che si forma Shanghai un secolo fa è ancora lo stesso partito al potere oggi. Certo, nel frattempo, il volto del PCC è molto cambiato, poiché dal 1949 – anno in cui Mao prese il potere a Pechino, dopo la fine della guerra civile - il partito ha subito trasformazioni così forti che oggi sono in molti a chiedersi quanto resti di “comunista” dentro un simile sistema di potere.
Il grande successo della globalizzazione, a fronte dell'impoverimento del ceto medio europeo, è stata la svolta cinese.
Ecco, anche noi lo chiediamo a te: cosa resta?
Probabilmente resta l'avanguardia delle masse, un partito di tipo leninista, democrazia intesa come centralismo democratico, in cui è il vertice che decide per il bene di tutti. Per quanto riguarda i contenuti invece, oggi li caratterizza uno spirito marcatamente capitalista, conseguente al grande cambiamento avvenuto dopo la morte di Mao, nel 1976, e la successiva presa del potere da parte di Deng Xiaoping, che diede avvio alle quattro modernizzazioni e quindi alla progressiva apertura al mercato. Il pragmatismo dopo Mao l'ha avuta vinta e gli ultimi 40 anni sono stati definiti dal tentativo di creare crescita economica. Un tentativo riuscito, se è vero che il Partito Comunista ha portato 800-900 milioni di persone fuori dalla povertà. Di questi tempi si critica molto la globalizzazione, ma il grande successo della globalizzazione, a fronte dell'impoverimento del ceto medio europeo, è stata la svolta cinese.
Statua di Mao Tse Tung a Luoyang (via: wtop.com)
In mezzo a queste trasformazioni com'è cambiato esattamente al suo interno il PCC?
Alla fine degli anni '90, Jiang Zemin per la prima volta espose la “teoria delle tre rappresentanze”, da quel momento il PCC ha finito di essere un partito di classe ed è divenuto un partito che rappresenta tutti. Il partito ha oggi 85 milioni di iscritti, in un paese di un miliardo e mezzo di persone non sono tanti, ma sono pur sempre più degli abitanti della Germania. Dentro ci sono dagli sfegatati neoliberisti ai nostalgici della rivoluzione: i sette che governano il paese devono trovare una mediazione e dare grandi indirizzi. Detto ciò, esistono comunque degli elementi di continuità anche con l'era maoista.
Un sistema come quello delle democrazie occidentali, in cui possono arrivare al potere un Trump o un Hitler, per i cinesi è semplicemente inammissibile
Ad esempio?
In Occidente abbiamo una democrazia formale, basata sul diritto di voto, che rende il sistema abbastanza duttile per rispondere alle sfide della Storia. Nel momento in cui larghe fette di popolazione si sentono insoddisfatte per una guida a carattere neoliberista, sorgono dei movimenti populisti che, attraverso il successo elettorale, propongono una visione diversa, per esempio.
Nella grande Repubblica Popolare un modello così risulterebbe intollerabile. La Cina per sua tradizione storica – ma qui, lo dico chiaramente, mi avventuro in mie interpretazioni che non hanno pretesa di essere oggettive – ha una atavica paura dell'instabilità. Un sistema come quello delle democrazie occidentali, in cui possono arrivare al potere un Trump o un Hitler, per i cinesi è semplicemente inammissibile: al potere deve esserci un gruppo dirigente responsabile di fronte alla popolazione, come alle generazioni passate e a quelle future. In un paese che in tutta la sua storia è stato percorso dalla dialettica tra centralizzazione e tensioni centrifughe, è diffusa l'idea che se tutti potessero votare liberamente si verificherebbe una vera e propria esplosione. La Cina deve restare Cina e c'è bisogno di un imperatore che dal centro manovri saldamente il paese. Oggi questo imperatore è un imperatore collettivo: il PCC.
Dopo piazza Tienanmen, 1989, il patto non scritto, tra Partito Comunista e popolo cinese è stato: lasciateci governare e in cambio vi daremo il benessere.
Banalizzo un po', crescita economica, ma anche forti disuguaglianze: il tema del “dare da mangiare a tutti” è ancora una priorità per il PCC?
Quello è ancora il grande disegno di fondo. Dopo piazza Tienanmen, 1989, la grande promessa, il patto non scritto, tra Partito Comunista e popolo cinese è stato: lasciateci governare e in cambio vi daremo il benessere. Oggi la sfida per il PCC è riuscire ad estendere quel benessere anche alla parte di popolazione che è rimasta fuori dalla grande ondata di crescita degli ultimi trent'anni. La Cina di oggi è, infatti, uno dei paesi con i livelli di diseguaglianza sociale più alti al mondo. C'è una gran massa di popolazione che è diventata ceto medio e che si è urbanizzata e allo stesso tempo ci sono sacche di povertà e arretratezza.
A Chongqing la fermata della metropolitana al settimo piano di un palazzo (via: mybestplace.com)
Hai parlato di urbanizzazione: è quella la via che il PCC conferma per combattere la povertà?
Partiamo da una considerazione: in Europa il tasso di urbanizzazione è attorno al 70% e negli USA circa l'80%. I cinesi analizzano questo dato e pensano legittimamente che la via per diventare una società avanzata passi, nel bene e nel male, da lì. Il 2011 è stato l'anno del sorpasso, con la popolazione urbana che supera quella rurale. Questa spinta all'urbanizzazione è stata ed è favorita da Pechino per motivi intuibili: in un paese così popoloso gli abitanti devono essere meglio redistribuiti per ragioni economiche, sociali e di sostenibilità ambientale. È una delle principali leve scelte per compiere la grande transizione cinese, quella che dovrebbe trasformare la “fabbrica del mondo” in un'economia evoluta; una società ancora operaio-contadina in un immenso ceto medio soddisfatto e perciò non conflittuale.
Per portare avanti l'urbanizzazione del paese il PCC ha avviato una grande operazione controllata dall'alto in cui si prevede la costruzione di 200 nuove città. La guida dall'alto è necessaria perché si teme che, lasciate libere, la maggior parte delle persone continuerebbe ad ammassarsi nelle megalopoli dell'est, che sono già sovrappopolate e problematiche. Così, è stato organizzato un sistema che, attraverso una serie di misure, alloca le persone secondo un preciso ordine: il giovane laureato ad Harvard, figlio di un industriale o di un funzionario di partito, appena rientrato in Cina avrà un lavoro di ricerca in università e potrà vivere a Pechino; il lavoratore migrante, impiegato in edilizia, che comincia ad avere un reddito maggiore e il cui figlio forse sarà il primo della famiglia ad accedere all'istruzione universitaria, non potrà permettersi la capitale, ma sarà indirizzato in un centro urbano appena costruito a 200 km di distanza. Se vorrà fare shopping a Pechino con la famiglia nel week-end lo potrà fare spostandosi con treni ad alta velocità.
La città di Shenyang nella nebbia - © Feature China/Barcroft Media
Questa è ingegneria sociale...
Sì, un grande progetto di ingegneria sociale, che assume a fondamento l'idea di diseguaglianza. Non è causale che in contemporanea ci sia un forte ritorno del confucianesimo, che fondamentalmente è una teoria della diseguaglianza, finalizzata però - secondo parametri cinesi - al bene complessivo, all'interesse generale.
Quanto c'è di comunista in questo? Lecito chiederselo. A mio parere emergono due aspetti: la costante applicazione del metodo scientifico sperimentale e l'idea di arrivare allo sviluppo materiale per tutti.
Cosa intendi con “applicazione del metodo scientifico sperimentale”?
I cinesi stanno guidando lo sviluppo a piccoli tentativi, che poi vengono applicati su vasta scala solo se danno buoni risultati nelle aree di prova. Il Partito Comunista ha sempre operato circoscrivendo delle zone campione in cui sono state applicate diverse soluzioni e dove, di volta in volta, si è valutata la loro bontà. Una volta individuato il modello vincente, questo è stato replicato anche in altre parti del paese o esteso a scala nazionale. E' andata così ad esempio per le Zone Economiche Speciali nell'era di Deng. Oggi si stanno sperimentando le Zone Finanziarie Speciali.
Alla fine, la verità è che c'è un consenso. Il nuovo ceto medio condivide delle pratiche e un modo di pensare comuni
Con il benessere materiale non è lecito aspettarsi anche una maggior richiesta di altri diritti e libertà? Esistono, in questo senso, oggi forme di critica?
Questo è l'aspetto che per ora non si vede, non c'è una richiesta diretta di ulteriori diritti. In Cina oggi si fa una vasta e generica critica del sistema: se parli con la gente tutti si lamentano del Partito Comunista: «sono corrotti», «sono tutti ladri», però se gli fai un nome, che so, il presidente Xi Jinping, ti dicono: «no lui è bravo perché sta perseguendo i corrotti, sta facendo il bene della nazione, ec». Alla fine, la verità è che c'è un consenso. Il nuovo ceto medio condivide delle pratiche e un modo di pensare comuni: non vuole disordini e finché qualcuno è in grado di garantirgli benessere economico tutto sommato non ci sono motivi di cambiare.
I cinesi, a differenza nostra, vedono il futuro e dicono: «se non per me, per i miei figli». Qui in pochi possono pensarlo. L'altro giorno sono usciti i dati ISTAT e parlano da soli.
Questa idea di progresso e la fiducia nel futuro tiene i cinesi avvinti al potere.
Quanto si potrà andare avanti con questo mix di crescita economica e ridotte libertà personali?
Xi Jinping a novembre ha il 19° congresso del PCC, che sanzionerà i suoi prossimi 5 anni di governo; poi, nel 2022, lui sarà sostituito da qualcun altro, così come è successo da Deng in avanti. Alcuni teorizzano che lo scopo dei 10 anni delle presidenza di Xi Jinping siano gli anni in cui la Cina debba fare il salto e diventare una società del benessere, raggiungere il livello dell'Occidente in termini di PIL e di consumi. A quel punto, ci sarà da intraprendere una riforma della politica. Questo compito verrà affidato alla generazione Tienanmen, quelli che avevano 20 anni nel 1989. Saranno loro i prossimi al potere e si dovranno occupare di dare un nuovo rivestimento politico alla trasformazione già avvenuta a livello materiale e sociale. Certo sempre con un controllo dall'alto: il controllo dell'imperatore che garantisce armonia sotto i cieli.
prendere la cassetta degli attrezzi occidentale, scegliere quanto di utile e poi rimaneggiarlo secondo caratteristiche ed esigenze cinesi
Cosa ci si può concretamente aspettare?
Sicuramente non una liberal-democrazia di stampo occidentale! Perché quello è un modello frutto della nostra storia e della nostra antropologia, che non sono le loro. Comunque sia, all'interno dei vertici del PCC stanno già discutendo di domani e dopo domani. Discutono come sempre utilizzando anche spunti che vengono dall'esterno. Per intenderci: oggi per il governo cinese non c'è nessun problema ad invitare intellettuali occidentali a parlare presso la scuola del PCC - l'istituzione dove tutti i funzionari vanno a formarsi. Vengono invitati anche coloro che hanno idee critiche nei confronti del sistema comunista. Nessun problema a dare libertà di parola: quelle parole rimarranno nelle stanze del partito e da quelle parole, attraverso confronti e discussioni, i vertici del PCC elaboreranno i loro modelli.
Niente di nuovo, è quanto i cinesi hanno fatto nell'ultimo secolo: prendere la cassetta degli attrezzi occidentale, scegliere quanto di utile e poi rimaneggiarlo secondo caratteristiche ed esigenze cinesi.
Il modello politico futuro che nei discorsi si prefigura più frequentemente sembra quello di una sorta di democrazia confuciana, in cui alla base ci sarà più apertura di oggi, mentre al vertice si continuerà con l'attuale meccanismo di cooptazione: un funzionario va ad occuparsi di una municipalità, se in quel contesto si distingue, diventerà leader di partito in una provincia e così via. Il toto nomi di chi si siederà nella stanza dei bottoni al prossimo giro è già in corso e sono tutti personaggi a cui, non a caso, sono stati affidati compiti particolarmente complessi. Si tratta, anche qui, di metodo scientifico sperimentale basato sull'efficienza.
“One Belt One Road”, la nuova Via della Seta
In politica estera invece si prosegue sulla linea della non intromissione?
Attualmente tutti i messaggi politici del Partito sono rivolti al “grande sogno cinese”, alla “nuova Via della Seta”, alla cooperazione con i paesi vicini: rivelano, ancora una volta, una visione solo economica dello sviluppo, tutta tesa ad assicurarsi stabilità interna ed esterna al paese. Al tempo stesso, questa visione è affiancata da nazionalismo e patriottismo: «siamo una superpotenza e gli USA ci devono trattare alla pari» e cose del genere. Tutto questo, senza mai varcare il confine, senza voler esportare il proprio modello politico altrove.
Per molti versi hanno un atteggiamento opposto a quello che ha caratterizzato l'Occidente, in particolare da Clinton in avanti. Noi abbiamo scelto libero mercato e democrazia come ricetta per tutti e siamo andati ad imporli ai quattro angoli del mondo; per i cinesi i principi della diplomazia restano quelli della non intromissione negli affari di politica interna degli altri paesi. Il discorso è come sempre pragmatico: se tu paese confinante hai un regime diverso dal mio a me non interessa, possiamo comunque fare affari insieme e giovarne entrambe. Questo atteggiamento caratterizza l'azione cinese in Africa, in Medio Oriente e nell'Asia vicina. L'idea è quella di realizzare politiche win-win, cioè in cui guadagnano entrambi gli attori che collaborano. Questa tendenza è ancora presente, anche se negli ultimi anni, in particolare dopo alcuni grosse figuracce (vedi finanziamenti allo Sri Lanka), a Pechino stanno più attenti nel cercare di capire dove vanno a finire i loro soldi.
I contadini sono quelli che hanno pagato il prezzo più alto in questi decenni di sviluppo.
Da tutto quanto mi hai raccontato sembra completamente sparita la grossa fetta di popolazione rimasta nelle campagne.
I contadini sono quelli che hanno pagato il prezzo più alto in questi decenni di sviluppo. Nelle campagne la popolazione era organizzata in comuni agricole. Con l'arrivo di Deng e la fine delle comuni popolari il contadino ha ricevuto un pezzo di terra di cui era responsabile (pur non essendone proprietario). Negli anni '90, quando il PCC ha dato impulso alle zone economiche speciali e alla nuova urbanizzazione di massa, pian piano tutti i governi locali, soprattutto per fare cassa, hanno incominciato a vendere terreni agricoli per farci fabbriche o altre operazioni immobiliari. Non essendo proprietari della terra, molti agricoltori si sono ritrovati nullatenenti, andando a costituire quella che ancora oggi viene definita “popolazione fluttuante”: legata formalmente alla terra, ma destinata a spostarsi in città per cercare delle alternative.
Dico legata alla terra perché in Cina molti servizi pubblici (assistenza sanitaria, istruzione, ec) sono garantiti solo nel paese di nascita. Se un contadino delle campagne si sposta in città per lavoro e poi necessita di cure mediche, può farsele prestare gratuitamente solo tornando al villaggio di origine. L'hukou – così si chiama questo sistema - era un vecchio metodo di epoca imperiale per controllare gli spostamenti della popolazione.
Nell'epoca del grande sviluppo questo meccanismo fu anche funzionale al modello economico, che si basava proprio sull'enorme riserva di manodopera a basso costo. L'immensa quantità di merci vendute negli anni passati a basso costo dalla Cina nascono così, dal fatto che nelle fabbriche stavano giovani immigrati dalle campagne – la “generazione fluttuante” – pronti a trasferirsi da una parte all'altra del paese per lavorare. Una popolazione “di serie B” senza diritti e senza tutele che, di fatto, per un misero stipendio avrebbe detto di sì a qualsiasi cosa.
Oggi questo sistema resta in vigore perché è uno strumento con cui gestire il processo di urbanizzazione di cui parlavamo prima.
E per i contadini cosa prevede il PCC in futuro?
Il piano è quello di formare cooperative di medie grandi dimensioni, di modo da accrescere la produttività della terra. Questo è un passaggio obbligato: non è possibile pensare di urbanizzare tutta la popolazione e cancellare totalmente la campagna. Vedremo, per ora la diseguaglianza è forte. Nelle campagne si concentrano oggi diverse emergenze sociali: il modello della famiglia confuciana – che, idealmente, voleva tre generazioni sotto lo stesso tetto - si è rotto con l'arrivo dell'impetuosa industrializzazione e della migrazione di massa. Oggi nelle campagne rimangono vecchi e bambini. Si registrano aumenti di suicidi tra le persone anziane, sempre più sole e trascurate, e i figli piccoli, che possono andare a scuola gratuitamente solo nel villaggio di nascita e crescono, in pratica, senza genitori.
In città sono nate anche scuole per i figli dei migranti, ad opera di associazioni o di presidi di buona volontà, che hanno accolto dentro i loro istituti anche i figli dei migranti, ma sono iniziative che partono e poi vengono fermate dal governo o comunque ostacolate.
Ho conosciuto una signora che vendeva té a Pechino la cui famiglia era divisa in due: lei nella capitale col figlio più piccolo, il marito nel natìo Fujian, in cui la figlia più grande frequenta le scuole superiori e si prepara al gaokao, l'esame per accedere all'università.
C'è il grande progetto di ingegneria sociale e poi c'è la vita delle persone che si barcamenano per sopravvivere nel grande meccanismo.
Scena di vita scolastica a Shanghai - © Nir Elias/Reuters
Si parla molto di “Nuova Via della Seta”, di cosa si tratta?
Sgombriamo subito il campo dai dubbi: non verrà costruita una “nuova via della seta”, non si tratta di un progetto unitario. Hanno lanciato un messaggio e messo un'etichetta a una serie di processi già in corso. In Cina il messaggio politico è molto importante per cui nel momento in cui il Partito lancia lo slogan “One belt, one road” chi fa business dice: «ok, tutto ciò che viene fatto in quell'ambito va bene», così l'etichetta “One belt, one road” finisce ovunque e intanto il messaggio passa.
Riguardo al lancio di questo nuovo disegno strategico ci sono varie interpretazioni: c'è chi sostiene sia la prima grande proposta di globalizzazione alternativa a quella americana e altre voci che sostengono sia un grande slogan tramite cui si legittima semplicemente l'esigenza della Cina di garantirsi approvvigionamenti di ogni genere e sbocchi per le proprie produzioni in un contesto mutato. Una non esclude l'altra.
la Cina non ha idee universali che possano fare presa fuori dall'impero.
Questo grande sviluppo cambia il ruolo della Cina sul piano internazionale?
Lentamente la Cina si trova sempre più spesso nella posizione di superpotenza chiamata in causa nelle grandi decisioni, implicata nella risoluzione di conflitti, ec. Non si sa per quanto Pechino potrà continuare a smarcarsi dal suo nuovo ruolo e dalle responsabilità che ne conseguono. Per ora non hanno ancora trovato il modo, stanno tentando di capire come fare. Non vogliono imitare gli americani, esportando o imponendo un loro modello o degli ideali. Il soft power cinese, peraltro, è ancora scarso: la Cina non ha idee universali che possano fare presa fuori dall'impero. Qualcosa si muove in questo senso, ad esempio con la diffusione degli istituti Confucio, ma per il momento non può fare di più, semplicemente perché le proposte cinesi non ci appartengono o non ci interessano.
Vorrei chiederti un paio di cose sulle due storiche regioni della Cina esterna, che da sempre rappresentano dei nodi da sciogliere per Pechino: il Tibet - di cui non si sente quasi più parlare - e lo Xinjiang, ultimamente nominato per via del terrorismo islamico.
Dello Xinjiang - la grande provincia autonoma del nord ovest - il Partito Comunista vorrebbe fare un hub, uno snodo per i flussi di merci verso tutta l'Asia, ma ci sono forti tensioni con la popolazione locale (gli uiguri, popolo islamico di origine turca) e rischi per l'infiltrazione di associazioni terroristiche di stampo islamista. Recentemente, infatti, nella regione sono state adottate una serie di misure antiterrorismo precedentemente sperimentate in Tibet.
Le province della Cina e lo Xinjiang
Il Tibet oggi è una regione a bassa conflittualità ed quindi stata usata come laboratorio per testare nuove forme di controllo poi adottate anche altrove. Se le cose sono funzionate lì, perché non dovrebbero funzionare in Xinjiang? Si sono detti. Non a caso, l'attuale leader del partito in Xinjiang, Chen Quanguo, era il precedente leader del partito in Tibet. Le misure di sicurezza adottate sono peraltro molto restrittive: la requisizione dei passaporti dell’intera popolazione – sia uiguri sia han – l’obbligo, in alcune aree, di partecipare a speciali sedute collettive - a base di canti patriottici - organizzate dai quadri del PCC, la presenza sempre più massiccia di forze di sicurezza sul territorio, fino al divieto di pregare al di fuori dei luoghi di culto “ufficiali”. Tutte le pratiche in odore di fanatismo religioso sono state vietate, si prega solo nella moschea del villaggio. Non altrove. In alcuni casi neanche a casa.
Al momento quello che si vede è una grande repressione: se può funzionare nell'immediato, non si sa che effetti potrebbe generare nel lungo periodo.
Il ritorno delle religioni è oggi incoraggiato dal Partito, che le vede come uno strumento di controllo sociale e come un modo per riempire il vuoto morale portato dal capitalismo
Parlando di religione, prima citavi un ritorno al Confucianesimo. In che modo sta avvenendo?
Mao aveva indicato il confucianesimo – insieme alle altre filosofie religiose - come simbolo del vecchiume, del passato, della società imperiale. Tentò diverse volte di eradicare le forme religiose popolari, ma fu una battaglia persa. Appena finì la repressione queste filosofie – prima praticate di nascosto - sono tornate ad essere molto presenti nella vita popolare. I cinesi sono antropologicamente confuciani, la diseguaglianza è un tratto distintivo della società e delle sue relazioni: padre-figlio, uomo-donna e così via. Le famiglie sono fortemente gerarchiche, ma lo sono anche i rapporti di amicizia, non si è mai sullo stesso piano: l'amico più vecchio prevale su quello più giovane, quello più autorevole su quello meno.
Il ritorno delle religioni è oggi incoraggiato dal Partito, che le vede come uno strumento di controllo sociale e come un modo per riempire il vuoto morale portato dal capitalismo, che ha spazzato via i vecchi ideali comunisti senza sostituirli con altri valori, che non fossero quelli edonistici o di consumo.
Il PCC si interroga su come trasmettere valori a una popolazione enorme, che sta cercando di arricchirsi e basta. Cominciano a manifestarsi fenomeni sociali preoccupanti: se ti viene un infarto in mezzo alla strada è probabile che nessuno si fermi ad aiutarti. Davanti a questi episodi - che sono più di una volta finiti sul giornale - nel grande progetto di costruzione sociale, il PCC cerca di inserire anche qualche “integratore” morale. Va benissimo il ritorno del confucianesimo e del taoismo, ma anche strizzare l'occhio a Papa Francesco e al cattolicesimo.
Il cardinale John Tong Hon, uno tra i più attivi mediatori tra la Santa Sede e il governo cinese. (via: www.catholicherald.co.uk)
Anche il cristianesimo è sostenuto?
Qualche anno fa il PCC era molto favorevole ai missionari protestanti: erano perfetti per una società che si stava lanciando nella grande corsa capitalistica. Ad un certo punto, però, si è diffuso il timore che i predicatori fossero la quinta colonna degli Stati Uniti. Questa paura ha spinto i vertici cinesi a contenere la loro espansione e ha così preso avvio un programma di distruzione delle chiese protestanti, coperto dalla scusa di colpire degli abusi edilizi.
Battute d'arresto a parte, il PCC è alla ricerca di possibili valori da diffondere tra la popolazione e, se perde terreno il cristianesimo protestante, perché non provare col cattolicesimo?
Certo è difficile pensare a un matrimonio felice, perché sia il comunismo che il cattolicesimo sono universalismi, non tollerano intrusioni e si schiacciano i piedi a vicenda. Il cattolicesimo va bene finché dà valori, ma quando il Papa vuole avere voce in capitolo su vicende interne ai confini politici cinesi questo non può essere tollerato, perché l'imperatore in Cina è uno solo: il Partito Comunista.
Parlavamo prima dell'islam ed è significativo il caso musulmano per capire come viene utilizzata la religione all'interno dei progetti del PCC. L'islam ha sempre avuto un rapporto importante con la Cina, presenze islamiche consistenti in Cina ci sono fin dai tempi dei Ming. Oggi il rapporto con l'islam è tutt'altro che univoco: in Xinjiang, come dicevamo, le pratiche islamiche sono controllate e contrastate, nel Ningxia, la regione affianco, dove ci sono gli hui - musulmani di etnia cinese, molto integrati e vicini al potere centrale - l'islam va a gonfie vele e vengono costruite moschee e parchi a tema religioso, finanziati dall'Arabia Saudita, il tutto con beneplacito del Partito. Tutto ciò che dà una morale ed è compatibile con i disegni di Pechino oggi è ben accetto. Torniamo, quindi, ancora una volta, all'applicazione del metodo sperimentale: in Cina non c'è regola fissa, si avanza, pragmaticamente, per tentativi e l'ultima parola su come comportarsi spetta sempre al potere centrale.