Prevista dalla Buona Scuola, l'alternanza scuola-lavoro mostra già al secondo anno di applicazione diverse criticità. Occorre domandarsi se questo progetto rappresenti davvero un valore all'interno del sistema di istruzione e formazione statale.
È uscito oggi sulle pagine de Il Fatto Quotidiano un articolo di Alex Corlazzoli che denuncia diverse storture relative alla cosiddetta “alternanza scuola–lavoro” prevista dalla “Buona Scuola”, la riforma scolastica voluta ormai due anni fa dal governo Renzi.
Che questa “alternanza” fosse un'operazione di marketing o poco più lo si poteva intuire da tempo: un po' di cipria attorno ai vecchi stage che già erano presenti negli istituti professionali e che ora - in forma più invasiva - sono stati estesi ad ogni ordine scolastico. Al di là dell'articolo del Corlazzoli - che pone un tema delicato, ma statisticamente secondario - da insegnante credo che i nodi veri al riguardo dell'alternanza siano tre e riguardino principalmente la sua natura formativa:
1- Sospendere l'attività didattica per tre settimane nel bel mezzo all'anno scolastico ed essere catapultati - quando va bene - in un ufficio, siamo sicuri possa essere un'esperienza che porti davvero qualche frutto? È ragionevole dare tutto questo peso a qualche settimana di stage?
Quando la riforma sarà a pieno regime – per fare un esempio - la relazione di stage sostituirà la tesina da portare all'esame di maturità: al posto di affrontare e discutere uno dei pochi momenti di ricerca attiva presenti nel percorso scolastico di uno studente italiano, parleremo di come è andata l'esperienza in biblioteca durante l'inverno.
Da parte mia, temo si finisca per dare agli studenti un messaggio distorsivo, svalutando ancor più di quanto giù non accada il ruolo di una scuola che educa ad essere buoni cittadini prima che tecnici di qualche cosa. Oggi questo ordine di priorità è sotto attacco, se non già definitivamente sovvertito; ma una scuola che prepara prima di tutto al mondo del lavoro è una scuola che riproduce lo status quo, che insegna ad accettare la realtà così com'è e non scommette sullo sviluppo della capacità critica, limitando così una vera messa in discussione delle regole del gioco.
2- Le scuole oggi stanno impiegando molte risorse per organizzare le attività di alternanza: in ogni istituto il monte ore complessivo di uno o più docenti viene dedicato a fare telefonate alle aziende con il solo obiettivo di organizzare centinaia di tirocini ed evadere la burocrazia annessa. Non abbiamo modi più efficaci di utilizzare questi soldi dentro la scuola? Ci torniamo più avanti.
3- C'è un problema organizzativo serio. Pensare di mandare ogni studente d'Italia a fare centinaia di ore di stage fuori dalla scuola è un problema: il tessuto economico non riesce o semplicemente non è intenzionato ad assorbirli. Non a caso, anche nella produttiva Brianza, in una biblioteca di paese, sono finiti a lavorare contemporaneamente una decina di studenti. Figuriamoci cosa possa succedere laddove il territorio offra meno opportunità.
Infine, crediamo davvero sia possibile in un così breve periodo di tempo fornire “occasioni formative di alto e qualificato profilo” come affermato dai documenti ministeriali?
Temo che dopo la riforma approvata con grande fretta, sia tempo di fermarsi e fare una riflessione seria. Alternative a portata di mano sono già presenti. Perché, ad esempio, non vincolare le risorse dell'alternanza per la costruzione o potenziamento di progetti d'impresa o innovazione dentro la scuola? Ce ne sono già tanti attivi e aspettano fondi, spazi e strumenti per potersi ampliare e migliorare. E' solo una delle tante modalità per destinare a miglior profitto quei soldi. Una scelta che rappresenterebbe un volano positivo: un traino forte per innovare - davvero e non a parole - la didattica e fare esperienza di laboratorio in un contesto che ha competenze e attenzione per seguire al meglio ogni studente.