Dalla morte di Berlinguer alla cancellazione della parola “Comunista”, da Berlusconi a Renzi. Che fine ha fatto la Sinistra in Italia? Romano Bonifacci apre il dibattito su Vorrei ricostruendo 30 anni di passi falsi e controsensi.
“I padroni non ci sono più. E non c’è più nemmeno il lavoro. E così si è risolta la possibile dialettica tra capitale e lavoro. Siamo oltre il comunismo mai realizzato. Non lo sapevamo. Siamo nel paradiso terrestre. Grazie a chi ce lo ha fatto scoprire”. Il sillogismo non è nostro. Ce lo ha condiviso su Facebook un carissimo amico e compagno, Bruno Ugolini, importante firma de l’Unità, grande esperto di lavoro e di lavoratori e biografo di Bruno Trentin, un segretario generale della Cgil che ha fatto storia e che purtroppo non è più tra noi.
Il ragionamento di Ugolini, rigorosamente deduttivo, fa sorridere, non c’è dubbio; come fanno sorridere spesso le vignette di Altan o di Vauro o di Ellekappa. Ma è un sorriso che dura poco perché in quel sillogismo c’è il senso di smarrimento di una sinistra che non si vede e non si sente quasi più.
C’è però il Pd, qualcuno potrebbe obiettare. È vero ma il Pd, guidato da Matteo Renzi, si fa fatica a collocarlo a sinistra. Il suo giovane leader, grande affabulatore, non a caso ha entusiasmato Silvio Berlusconi. Lui, uno così, non ce l’ha, non riesce a trovarlo nelle file del suo disastrato centro destra. E prova invidia.
Non usiamo la parola traditi, perché Renzi di sinistra, probabilmente, non lo è mai stato.
Invece quel che rimane della sinistra tradizionale esprime ben altro sentimento: una forte preoccupazione, che spesso si trasforma in disagio. Noi personalmente, lo avrete già capito, ne siamo immersi. Non usiamo la parola traditi, perché Renzi di sinistra, probabilmente, non lo è mai stato. Il che non è una colpa, ci mancherebbe. Il guaio è che il disinvolto Matteo da simpatico ed efficiente sindaco di una grande città qual è Firenze è passato a Palazzo Chigi, è diventato il capo del governo e contemporaneamente anche del Partito. Come è stata possibile tale allucinante deriva?
Facciamo un salto indietro e becchiamoci pure l’accusa di essere dei nostalgici. L’11/6/84 muore Enrico Berlinguer e con lui – a nostro avviso - muore anche il Pci, che della sinistra era l’architrave. È il 3/2/91 quando il congresso di Rimini decreta il suo scioglimento e subito dopo dà vita al Partito Democratico della Sinistra, Pds. Il termine comunista viene cancellato. Perchè? Più per ragioni di estetica politica, di opportunità, che per altro: in realtà è un cedimento a chi sostiene che l’anticomunismo si batte anche cassando quell’aggettivo. Che illusione!
Achille gioca la parte dell’innovatore, vuole rompere il tran tran degli ultimi anni con scelte dirompenti, la prima delle quali è quella per l’appunto di tirar giù la saracinesca del Pci.
Sulla scena irrompe Achille Occhetto, un Renzi ante litteram. lo sconquasso è forte: è vice segretario del Partito quando, in maniera perlomeno disinvolta che ricorda molto la fine fatta fare ad Enrico Letta, prende il posto del segretario, un malconcio Alessandro Natta, colpito da un infarto. Poi il 12/11/1989 va alla Bolognina, ad una assemblea di partigiani, e sorprende tutti anticipando quel che sarà deciso 13 mesi dopo al congresso di Rimini, in un clima tutt’altro che entusiasta, caratterizzato da tante divisioni, palesi e occulte, al vertice e alla base. È vero la gestione Natta era stata di transizione, poco brillante, piuttosto grigia, caratterizzata da un interminabile scontro - non poi tanto sotterraneo - tra miglioristi, occhettiani e ingraiani. Achille gioca la parte dell’innovatore, vuole rompere il tran tran degli ultimi anni con scelte dirompenti, la prima delle quali è quella per l’appunto di tirar giù la saracinesca del Pci. La riflessione politico e ideale è molto carente e soprattutto scarsamente convincente. È un momento di grave smarrimento, personale oltre che generale, indigna più d’uno, e nell’architrave della sinistra - leggi Pci e poi Pds - si rompe qualcosa di importante.
Ma è proprio vero che la parolina comunisti è un ostacolo per una politica di riforme e per lo sviluppo di nuove alleanze? A tanti anni di distanza, la nostra risposta è negativa. Erano altre le paroline che eventualmente andavano cambiate. In un certo senso in quei giorni viene anticipata una querelle simile a quella odierna sul famoso art. 18, considerato un ostacolo per gli investimenti in Italia; come se corruzione, mafia, mancanza di valide infrastrutture e un opprimente sistema burocratico fossero delle varianti secondarie.
Del comunismo dell’est non c’era certo d’andare fieri, la caduta del Muro di Berlino era stata accolta come una liberazione anche dai comunisti italiani perchè il Pci, pur con i suoi non pochi errori, era un’altra cosa fin dalla sua fondazione. A nostro avviso quella operazione di maquillage fu un sacrificio inutile perché gli avversari – il Cavaliere, anzi l’ex Cavaliere, in testa – il termine comunisti hanno continuato a sbatterlo in faccia, come un insulto, anche ai dirigenti del Pds, poi dei Ds e ora del Pd, che con l’imbarcata di ex democristiani in occasione del matrimonio Ds-Margherita è notevolmente mutato.
Ma il Pci di Achille Occhetto non sconta solo le conseguenze della affrettata e affannosa liquidazione del vecchio Partito (una miniera di passione politica, di tensione ideale, di forte militanza buttata alle ortiche), commette anche alcuni clamorosi errori politici, soprattutto nel 1992 l’anno di Tangentopoli. Sottovaluta prima il fenomeno leghista considerandolo una sorta di fuoco di paglia, poi la discesa in campo dell’imprenditore Silvio Berlusconi (costretto a questa scelta anche dal grave indebitamento delle sue aziende) senza sollevare con forza il mostruoso conflitto di interessi che si portava dietro (“Era l’ultimo italiano che avrebbe potuto scendere in politica” dice ora Vittorio Dotti, ex membro del cerchio magico dell’ex Cavaliere, suo legale di fiducia, ex capogruppo di Forza Italia alla Camera, un avvocato del diavolo che il diavolo Silvio conosce molto bene). Quel conflitto andava contrastato, avrebbe meritato certamente una grande battaglia politica in punta di Carta Costituzionale. La realtà è che entrambe le discese in campo, quella della Lega Nord e quella del Cavaliere non furono giustamente valutate e combattute con l’impiego della tanto strombazzata e inesistente “gioiosa macchina da guerra”. Risultato? Il varo del governo Berlusconi - Bossi.
"Il Quarto Stato" di Giuseppe Pellizza da Volpedo (1901)
Altra sottovalutazione: Tangentopoli. Si abbatte con violenza sulla Dc, sul Psi, sul Pli e persino sul Pri. Ma schizzi raggiungono anche il Pds, in maniera pesante a Milano, a Pavia, a Torino, a Varese, a Venezia. E il Partito giustamente impegnato a denunciare gli scandali degli altri, che sono senza dubbio alcuno più gravi e disastrosi, è portato a ridimensionare i propri, senza indagare a fondo le ragioni che hanno permesso in questo o in quel caso di snaturare un costume e uno stile di vita del militante che un tempo non solo era un vanto ma un segno distintivo. Ma distinguersi, essere diversi, sembra sia diventata una colpa. Un demerito.
Ma il ruolo del sindacato è tuttora importante e soprattutto merita rispetto. Quel rispetto che Matteo Renzi non ha.
Chi dice il contrario diventa di colpo un moralista. Chi dichiara di essere a fianco dei giudici impegnati a fare pulizia (e meno male che ci sono) un fottuto giustizialista. Trionfa il berlusconismo. La sinistra e le sue battaglie per la difesa dei diritti dei lavoratori viene definita roba sorpassata. Bisogna liberalizzare. E la corruzione e l’evasione fiscale? Nessuno oggi ne parla più. Tutto è ridotto all’art. 18. E alla Cgil,che timidamente protesta, si dice di farsene una ragione. Il nuovo è così, prendere o lasciare. Sembra di navigare in un brutto sogno, in un mondo alla rovescia. Certamente siamo ben lontani dal paradiso terrestre evocato nel sillogismo d’inizio. Il sindacato, tanto per fare un ultimo esempio, è un’ altra architrave, addirittura della nostra democrazia. Se crolla anche quella, addio sinistra. La Cgil sia quella di Giuseppe Di Vittorio che quella di Luciano Lama e di Bruno Trentin, a casa ha portato grandi conquiste, che non hanno impoverito il Paese ma lo hanno fatto progredire. Il miracolo economico, lo statuto dei diritti dei lavoratori, la sconfitta del terrorismo sono anche merito della lotta e della politica sua, degli altri sindacati e più in generale del movimento dei lavoratori. È vero, alcune conquiste non sono state gestite al meglio, in più d’una occasione hanno creato aree di furbizia che vanno giustamente combattute. Ma il ruolo del sindacato è tuttora importante e soprattutto merita rispetto. Quel rispetto che Matteo Renzi non ha.
E allora come sorprendersi se in molti lasciano il Pd?
Da quanto abbiamo sin qui scritto è chiaro che non tutte le colpe sono di Matteo Renzi, lui è figlio di una situazione creatasi dopo tutta una serie di errori che portano la firma di Pds, Ds e Pd. Di una sinistra che non ha saputo né unirsi e men che meno reinventarsi. Questa è l’opinione di chi scrive. Ma la vostra qual è?