La giornalista e la situazione attuale in Palestina. La confusione fra antisionismo e antisemitismo e l'invito a non essere accondiscendenti con i governi israeliani, ignorando i loro crimini contro i diritti umani dei palestinesi.
Si è tenuta a Monza il 27 gennaio scorso l’incontro “Medioriente: conoscere il presente, immaginare un futuro”, per iniziativa congiunta del Circolo 4 del Partito Democratico di Monza e dell’associazione Rete Ebrei Contro l’Occupazione (rete-ECO.it). Ospite centrale della serata Amira Hass, giornalista israeliana, inviata nei Territori Palestinesi Occupati del quotidiano di Tel Aviv Haaretz, che ha parlato ad un’uditorio attento che riempiva la Sala D del Binario7, con una vivace discussione finale.
L’intento degli organizzatori è stato dare elementi di informazione per capire il presente, in cui vediamo l’intera area mediorientale andare a fuoco, in una escalation di conflitti che sembra avere poche vie di uscita; e affrontare il problema partendo dal conflitto più antico nella regione a partire dal secondo dopoguerra, quello tra Israele e i palestinesi, che è drammaticamente ancora aperto, come è stato raccontato esaurientemente da Amira Hass, che vive a Ramallah - nella Cisgiordania occupata - e da anni metodicamente osserva lo stato della convivenza tra i due popoli.
Figlia di sopravvissuti dell’Olocausto, in Italia è ben nota ai lettori di Internazionale, con cui collabora tenendo una rubrica fissa. Ha dedicato molto del suo intervento a descriverci una situazione invivibile per la popolazione palestinese, a causa di una politica coloniale espansiva e aggressiva tutt’ora in corso da parte israeliana, fatta di espropri di terre palestinesi per la costruzione di colonie o avamposti militari, di espropri di case e di risorse naturali; di limitazioni pesanti della libertà di movimento, di controlli continui, di frequenti incarcerazioni preventive, e molto altro. A Gerusalemme est, come in altre zone dei Territori, ogni abitante palestinese sa che in ogni momento la sua casa può essere sequestrata, può essere aggredito dalla polizia o dai coloni, lui o il suo bambino può essere arrestato, può perdere il lavoro, può essere ucciso.
La giustificazione israeliana per tutto ciò è, da sempre, la sicurezza, il timore di attentati e degli attacchi da parte di terroristi. Ma con l’occupazione coloniale non si difende la sicurezza, dice Amira Hass, la giustificazione non tiene. È chiaro, dice, che l’obiettivo non dichiarato di queste politiche è conquistare progressivamente terre e risorse per la popolazione ebraica, riducendo gli abitanti originali a poche “riserve” tra loro isolate, come accadde agli Indiani d’America.
Che soluzione vede a tutto questo, chiedono dal pubblico: la soluzione dei Due Stati (Israele e Palestina, come richiesto con gli accordi di Oslo del 1993)? Oppure un solo Stato per tutti, come hanno proposto altri? Attenzione, dice Amira: certo, è un’aspirazione di tutti arrivare ad una convivenza in un’unica comunità pacificata, in cui diritti uguali sono garantiti a tutti, senza distinzioni di etnia, provenienza, eccetera. Ma adesso in Israele e Palestina sarebbe molto difficile una convivenza in un unico Stato, se prima non si ottiene la restituzione delle terre occupate dalle colonie, che, ricordiamolo, sono riservate ai soli ebrei e occupano illegalmente le terre migliori della Cisgiordania drenando la maggior parte delle riserve idriche disponibili; e ugualmente bisogna restituire la libertà di movimento. Dunque, dice Amira, non vale la pena di stare a discutere di uno o due stati, finchè non sarà messo in chiaro che prima di adottare una qualunque delle due soluzioni, vanno smantellate le colonie; è una necessità che deve essere accettata dalle opinioni pubbliche e messa in pratica dai governi. Cerchiamo dunque di concentrarci sui diritti delle persone, prima che sulla forma statuale, raccomanda la Hass.
E questo, aggiunge, richiederebbe anche un cambiamento radicale delle politiche attuate dall’Autorità Nazionale Palestinese. E richiederebbe un grosso impegno da parte della comunità internazionale, che è l’unica che può oggi fare pressioni efficaci per l’interruzione delle politiche di occupazione.
Tante ancora le domande rivolte alla relatrice: cosa porterà di nuovo l’era Trump per la situazione in Israele e Palestina; che risonanza hanno le sue opinioni tra l’opinione pubblica israeliana (ahimè, scarsa, risponde lei, ma non nulla, ci sono gruppi organizzati di giovani giornalisti che la hanno come punto di riferimento, come il gruppo 972mag.com); come commenta l’equivoco diffuso nei media occidentali che equipara l’antisionismo all’antisemitismo. Qui la risposta della Hass è articolata: il termine “antisionismo” certo non equivale ad “antisemitismo”. Però oggi è usato in modo ambiguo, per alcuni è sinonimo della richiesta che tutti gli ebrei abbandonino il Medioriente. Ma, dice Amira, mentre capisce che un palestinese che vive in un campo profughi chieda che gli ebrei occupanti se ne vadano, perchè l’ingiustizia che subisce è insopportabile; però invece quando sente europei o occidentali dire la stessa cosa, nella sua mente suonano campanelli di allarme che segnalano un facile rigurgito di antisemitismo: detto da un europeo non lo accetta, vorrebbe piuttosto vedere un’azione decisa e mirata per costringere gli israeliani e i loro governi a fare veramente la pace con i palestinesi. Dunque, a chi vuole opporsi al colonialismo israeliano Amira raccomanda, invece che proclamarsi antisionisti, di usare perifrasi come “contro le politiche coloniali israeliane”: più lunghe, ma più chiare. E così non si esporrà il fianco agli argomenti di chi pretende di assimilare qualsiasi critica delle politiche israeliane con una manifestazione di razzismo antisemita.
Nella sua introduzione alla serata, la moderatrice Elena Pagliaretta ha sottolineato che le cause del conflitto israelo-palestinese risalgono ai primi anni del XX secolo, e vedono responsabilità enormi della Gran Bretagna, che ottenne il Protettorato della Palestina storica dopo la scomparsa dell’impero ottomano alla fine della prima guerra mondiale. In più, come è stato messo bene in luce da Giorgio Forti, rappresentante di Rete ECO, già dalla fine degli anni ’30 in poi una grave responsabilità fu quella degli USA, che restrinsero drasticamente i permessi di immigrazione agli ebrei europei in fuga dalle persecuzioni antisemite, lasciando così la Palestina come una delle poche vie di fuga. Dopo la guerra, l’emigrazione degli ebrei sopravvisuti all’Olocausto verso la Palestina fu incoraggiata anche dagli europei, senza considerazione del fatto che quella terra fosse già abitata da una popolazione che non aveva alcuna responsabilità dell’Olocausto. Così il conto dell’antisemitismo fu fatto pagare a chi non c’entrava affatto: tutti noi europei abbiamo un debito pesante, non solo morale ma economico, verso la popolazione autoctona palestinese che perse (o sta perdendo adesso) casa, terre e mezzi di sostentamento, e verso chi fu costretto ad una diaspora in campi profughi tutt’ora sparsi nel Vicino Oriente, in Libano, Siria, Giordania e altro.
Un motivo in più per raccogliere l’invito di Amira Hass a non essere accondiscendenti con i governi israeliani, ignorando i loro crimini contro i diritti umani dei palestinesi. Finchè non ci saranno pressioni esterne, ci dice tristemente Amira Hass, è difficile che la situazione in Israele possa cambiare, ci sono troppi interessi contrari. Tutti noi europei abbiamo dunque la responsabilità di aiutare la ricerca della pace, facendo pressione affinchè i nostri governi siano severi con i governi israeliani e impongano ritorsioni efficaci (come viene fatto in altri casi) fino a che gli israeliani non dimostrino con i fatti una vera intenzione di fare la pace rispettando i diritti di tutti.