Romano Bonifacci incontra un militante di “lotta comunista” e si ricorda la sua storia di redattore e “strillone” per l'Unità, animata da uno spirito che non c'è più
È quasi ora di cena. Suona il campanello. Penso sia il mio vicino. Apro. Davanti a me c’è un giovanotto, piuttosto alto, magro con occhialini da intellettuale e una gran testa di capelli. A cavallo del braccio tiene un fascio di giornali. “Ciao compagno. Come va?”. E mi allunga una copia di “lotta comunista”. Il giovanotto ha un suo fascino. Sembra un professorino ed ha una gran chiacchiera. Dice cose sensate ma in maniera disordinata. Cerca, con poche battute, di superare una presunta ostilità. Ma io non gli sono ostile, e glielo dico anche. Lo faccio entrare. Il termine compagno mi è sempre piaciuto. E ancor di più oggi che sembra caduto in disuso. Faccio alcune domande. E in cambio ho un profluvio di riposte. Pago e ci aggiungo una piccola offerta. Quel giovanotto se la merita tutta. Do una occhiata al giornale: si dichiara organo dei gruppi leninisti della sinistra comunista. È stampato in nero che sulla carta bianca gli dà un aspetto luttuoso. Ed è scritto fitto, fitto. Un articolo per pagina e titoli a caratteri enormi. Illeggibile all’apparenza. Un mattone. La copia che ho in mano porta il numero 556. Esce una volta al mese. La testata ha quindi più di 45 anni. Il mio interlocutore aggiunge un volantino che annuncia per gennaio 2017 il mese della stampa leninista. E mi invita ad una assemblea nella sede locale dove tutti i venerdì c’è – mi dice e così è scritto - “relazione e dibattito”, non meglio specificati. Il giovanotto mi saluta lasciandomi la certezza che lo rivedrò ancora. Senza dubbio alcuno, il prossimo mese.
Quel “lotta comunista” mi ha risvegliato dei ricordi. Anch’io portavo casa per casa, soprattutto la domenica, un quotidiano ma era l’Unità, il giornale che oltretutto contribuivo a fare, tutti i giorni dell’anno, come giornalista nella redazione di Viale Fulvio Testi 75. Quella del diffusore era una bella esperienza. Si raccoglievano elogi e anche critiche da compagni che normalmente erano distaccati dalla vita di Partito. In via Sempione, a Monza, allora c’era un circolo cooperativo. Oggi ci trovi una rinomata e molto frequentata pizzeria. Bastava mettere il pacco dei giornali su un tavolo e i compagni si servivano da soli, versavano il dovuto in una apposita cassettina. Un bianchino al bar e poi una scorsa rapida della varie pagine de l’Unità, qualche commento e poi la solita concitata partita a carte. Verso le undici e mezza arrivavano le compagne che avevano fatto il giro delle case e le parole erano sempre le stesse: “Venduto tutto”. E giù a far conti. E a preparare l’elenco dei diffusori della prossima domenica. All’epoca l’organo del Partito comunista italiano, fondato da Antonio Gramsci, vendeva quasi normalmente 400 mila copie la domenica, con punte anche più che raddoppiate in certi appuntamenti speciali.
Ma al di là del numero delle copie, quel giornale era un collettivo che, già a quei tempi, molti ci invidiavano. Tanta passione, tanta professionalità, tanta iniziativa, tanta competenza, tanto volontariato e … stipendi sotto il minimo sindacale per consentire al nostro editore, che era poi il Pci, di fare gli investimenti necessari. Per noi stare su un mercato non era facile: significava coprire sia il nord che il sud, isole comprese. Allora l’Unità era l’unico vero giornale nazionale, gli altri avevano diffusioni importanti ma di carattere essenzialmente regionale. Per noi era diverso: laddove c’era una Sezione di Partito, l’iscritto poteva leggere ogni giorno l’Unità. Era un suo diritto, costosissimo per la “ditta” ma sancito nello stesso statuto. Allora i mezzi tecnologici odierni non esistevano ed era giocoforza servirsi di ben quattro tipografie a Roma, Milano, Genova e Torino e poi, superato il periodo della teletrasmissione degli articoli con quella della fotocomposizione delle pagine, di altrettanti centri stampa (Roma, Milano, Bologna, Palermo e Sassari). Si trattava di un impianto complicato, certamente non economico ma che rispondeva alla necessità di dare una informazione a chiunque fosse iscritto. Condizione costosa, come si può ben immaginare, ma nello stesso tempo di grande rilevanza politica e organizzativa. Non avevamo finanziatori ma solo avversari che non ci facevano certo favori, anzi ci boicottavano in mille modi, ad esempio, con la pubblicità. Il prezzo di copertina del giornale non bastava e allora sotto con mastodontiche campagne di abbonamenti, con feste de l’Unità in ogni dove, con sottoscrizioni straordinarie e con clamorose diffusioni che in più di una occasione si sono avvicinate al milione di copie. La forza dei nostri diffusori era incredibile. E fuori del comune era anche lo spirito di sacrificio di coloro che il giornale facevano. Poveri ma felici? Certamente stimati, apprezzati e in qualche caso anche invidiati.
Rappresentavamo, insieme a migliaia di altri compagni, la vera anima del Pci, quella che il Pd non ha. E che a sinistra non c’è più per il semplice motivo che il Pci non c’è più. Dalla sua scomparsa la sinistra non ha certamente tratto tutti quei vantaggi di cui qualcuno agli inizi degli anni 90 favoleggiava.
Sia chiaro, chi scrive non è un nostalgico tout court, ancora oggi è convito che il Pci andava rinnovato sotto diversi profili : politico, organizzativo, statutario e anche ideale. Ma la sua anima andava salvata e consegnata alla sinistra. Ma Renzi non la vuole? Per me Renzi non conta. Per me contano di più, e mi fanno rabbia, quei comunisti che sono passati tranquillamente attraverso prima del Pds e poi del DS e che oggi nel Pd contano assai poco. Sono loro che dovevano conservare quell’anima popolare, quei legami con la nostra gente. Che più d’uno ha considerato, e tuttora considera, dei lacciuoli. Smantellare si fa presto, costruire ci si impiega di più.
Ma allora non c’è più speranza? Io sono vecchio e dubito di vedere gran che del nuovo. Mi basterebbe che qualcuno riflettesse, ricordasse e dal passato traesse qualche insegnamento. Apro i giornali e precipito nello sconforto quando leggo che un amministratore della cosa pubblica, ex comunista, è indagato oppure colluso, oppure che le Coop di questo o quel settore sono finite nel mirino dei giudici. Mi sembra incredibile. Mi ero abituato all’idea che i comunisti fossero diversi, proprio come li voleva Enrico Berlinguer. Ma anche lui è finito nel tritacarne della storia, malgrado quel 33,3 per cento di voti conquistati nel 1984 con lui segretario. Il suo funerale è stato giudicato come il più grande della storia della nostra Repubblica. Una grandiosa manifestazione di popolo. E badate, Enrico Berlinguer, era comunista, reo confesso. Amen.