Ospitiamo l'intervento di Anna Ascani, parlamentare del PD «I nostri ragazzi sono chiamati a uno sforzo epocale e avvincente, che è quello di saper maneggiare gli strumenti con cui competere nel mondo del lavoro, essere responsabili dei contenuti che producono online e saperli usare a fini umanistici, integrando la comunicazione frammentaria e veloce del nostro tempo con la saggezza immortale che si insegna sui banchi di scuola.»
A chi tocca educare genitori e figli all'uso consapevole dei social network e più in generale degli strumenti di comunicazione digitale? A questa domanda, lanciata proprio su Facebook, alcuni giorni fa hanno risposto insegnanti, genitori, educatori. E le risposte sono state assai diverse. Così come c'è stato un tempo in cui molti genitori non avevano gli strumenti per insegnare ai propri figli a leggere e scrivere, in questi anni recenti siamo stati addirittura sorpresi, travolti dalle novità portate dalla comunicazione digitale e molti di noi sono impreparati, improvvisano comportamenti che non sempre risultano condivisibili. Si arriva talvolta a essere molto peggio di quello che si è nella “realtà”, cioé fuori dai display. Allora a chi tocca insegnare a usare in maniera corretta e consapevole la grande quantità di strumenti che abbiamo a disposizione? Proveremo a ragionarci su queste pagine. A cominciare dall'intervento che ci invia Anna Ascani, parlamentare PD componente della VII Commissione (Cultura, Scienza e Istruzione) che si sofferma su quanto in proposito è stato previsto nella Legge 107 del 2015, la cosiddetta “Buona scuola”. (AC)
La scuola è il più grande intermediario culturale e sociale del paese: è l’emanazione dello Stato che coinvolge quotidianamente il numero più alto di persone tra studenti, personale e famiglie. Essa rappresenta il crocevia tra il linguaggio dei ragazzi, quello del mondo esterno e quello codificato nella cultura. Nel corso di questa legislatura abbiamo trovato il coraggio di affrontare le criticità del mondo dell’istruzione italiano, con riguardo soprattutto alla rivoluzione digitale che ha radicalmente cambiato il modo di comunicare e che ha prodotto un grande senso di solitudine in molti insegnanti, in particolar modo in quelli anagraficamente distanti dai nativi digitali che incontrano quotidianamente tra i banchi. Con la Legge 107 del 2015, comunemente detta La Buona Scuola, abbiamo raggiunto l’obiettivo di dare un sostegno concreto all’innovazione digitale, mettendo in condizione la scuola di intraprendere un percorso di ammodernamento e di superare quel senso di permanente inadeguatezza rispetto al processo di digitalizzazione che caratterizza la nostra società. La scuola deve infatti saper comprendere i modi e le tecniche del linguaggio del mondo, e sublimarli, educando ad un utilizzo critico e consapevole di ognuno di essi, come soggetto corresponsabile del processo educativo: non può essere subalterna a ciò che succede fuori dalle aule, ma non può neppure ignorarlo.
Con la Buona Scuola sono stati attivati investimenti ingenti sul personale che consegnano per sempre al passato l’epoca della precarietà infinita e si è sviluppata un’organizzazione più razionale basata sull’idea di autonomia scolastica e di organico funzionale. D’altra parte, quel testo ha dato dignità a quello che per anni è stato il convitato di pietra e che è entrato finalmente dalla porta principale: la nostra scuola educherà al digitale, sia dal lato dalla prevenzione degli abusi (con particolare attenzione al cyberbullismo, attraverso la proposta di legge S.1261, ora in seconda lettura al Senato), sia da quello dei contenuti e degli strumenti. In quest’ottica, il 27 ottobre 2015, è stato presentato il Piano Nazionale per la Scuola Digitale (PNSD) che de La Buona Scuola rappresenta, come abbiamo detto, uno degli elementi chiave. Esso si snoda in 35 azioni che fanno riferimento a tre livelli: formazione, infrastrutture e contenuti. Il PNSD è un documento di indirizzo che punta ad introdurre le nuove tecnologie nelle scuole, a diffondere l’idea del “life long learning” (educazione permanente) e a estendere il concetto di scuola dal luogo fisico a spazi di apprendimento virtuali. Il percorso che ha portato all’adozione del PNSD è complesso. Sono passati quasi 10 anni dalla prima volta in cui si è aperto un dibattito sulla “modifica degli ambienti di apprendimento” e risale al 2008 l’introduzione delle prime lavagne interattive multimediali, con la formazione delle “Classi 2.0” e, dal 2009, la creazione delle “Scuole 2.0”. Laboratori, ambienti di apprendimento innovativi e realizzazione di contenuti digitali sono stati distribuiti in scuole di vario ordine e grado, anche grazie al supporto della “Azione Editoria digitale scolastica” del 2010 che ha contribuito alla dematerializzazione dei servizi. Secondo l’ultima analisi conclusa dall’Osservatorio tecnologico del Miur, nell’anno scolastico 2014-2015 il 70% delle classi italiane è connessa alla Rete ed il 58% utilizza forme di comunicazione scuola-famiglia online.
Anna Ascani (Foto tratta da www.primopianonotizie.com/)
Sono dati parzialmente confortanti, ma che il PNSD mira a potenziare: la rete cablata o wireless è ancora inadatta alla didattica digitale e solamente il 6% delle scuole può dirsi dotato di tecnologia adeguata nei laboratori, nelle biblioteche e nelle aule. Il PNSD attinge alle risorse messe a disposizione dalla Legge su La Buona Scuola e dai Fondi strutturali Europei (Pon Istruzione 2014-2020) anzitutto per formare gli insegnanti, gli unici che possono fungere da motore per la rivoluzione tecnologica nella didattica. Abbiamo una classe insegnante tra le più vecchie d’Europa ed è indispensabile che lo Stato si faccia carico della formazione obbligatoria e strutturale – secondo la dicitura introdotta dalla Legge 107 – di questo personale che rischia altrimenti di doversi affidare alla sola buona volontà dei singoli o, al contrario, di arrendersi alle difficoltà della contemporaneità L’obiettivo del piano di formazione previsto dal PNSD è quello di seguire il docente lungo tutto l’arco della carriera, a partire dalla valorizzazione e armonizzazione delle competenze esistenti. A tale scopo sono già stati individuati più di 8000 animatori digitali - molti dei quali, nota di folklore, dialogano con costanza tra di loro attraverso un gruppo Facebook - che fungono da cinghia di trasmissione delle linee di indirizzo ministeriali riguardo il digitale e da supporto ai colleghi. Questa misura ha un’importanza cruciale: molto spesso a bloccare i processi di innovazione nella didattica sono i timori riguardo la riuscita di un nuovo metodo da parte di un insegnante abituato ad utilizzarne uno differente; la formazione tra pari è l’unica che può porre rimedio a questo genere di blocchi. Per quanto riguarda le infrastrutture, da un lato un protocollo MIUR-MISE sottoscritto in occasione della presentazione del PNSD ha previsto l’inclusione della digitalizzazione delle scuole come priorità del piano banda ultralarga da portare a compimento, almeno per il 75%, entro il 2017, dall’altro La Buona Scuola ha stabilito lo stanziamento 30 milioni di euro ogni anno (90 nel 2015) per la digitalizzazione e circa 90 milioni per i laboratori. Ammodernare infrastrutture colpite da anni di tagli lineari, che in tutto ammontano a circa 8 miliardi, per di più in un periodo di difficoltà economiche globali, è chiaramente un’impresa che richiede tempo.
La buona notizia, però, è che non abbiamo bisogno di aspettare il 2017 per avviare il lavoro sui contenuti. Per esempio: può essere avviato fin da subito il percorso di creazione di identità digitali di studenti e professori su una piattaforma online; la progressiva abilitazione di contenuti digitali che sostituiscano la carta muovendo dal basso e da reti di scuole; l’introduzione del coding per imparare a essere non solo utilizzatori della tecnologia, ma programmatori. E in questo senso le azioni intraprese dopo la pubblicazione del PNSD sono state diverse. Penso alle varie iniziative svolte nel corso della Settimana del Piano Nazionale Scuola Digitale, in corrispondenza della Settimana internazionale dell’Ora del Codice, in cui tantissime scuole hanno aperto le loro porte (e i loro laboratori) ai futuri studenti e ai loro genitori, ma anche ad associazioni e semplici cittadini, per raccontare l’innovazione che già esiste e le altre novità che il Piano porterà con sè. Penso, inoltre, ai numerosi webinar, gratuiti e aperti a tutti, organizzati, con il patrocinio del Ministero, dalle associazioni per la promozione, la tutela e la conservazione del digitale, per condividere esperienze e progetti futuri. Ma penso, soprattutto, agli 8.303 insegnanti - che ho citato sopra come “animatori digitali” - che da gennaio 2016 stanno cominciando a guidare l’attuazione del Piano, portatori di innovazione nelle loro scuole. Docenti di ruolo, con un’età media di 45 anni e in prevalenza donne, gli Animatori digitali avranno il compito di seguire, per il prossimo triennio, il processo di digitalizzazione della scuola di appartenenza. Organizzeranno attività e laboratori, individueranno soluzioni tecnologiche e metodologiche innovative da portare nel proprio istituto e lavoreranno per la diffusione di una cultura digitale condivisa. Si tratta prima di tutto di azioni formative: 850.000 euro, già stanziati a livello nazionale dal Ministero, sono destinati proprio alla formazione di queste figure di Animatori digitali, ed è di recente pubblicazione, 8 febbraio scorso, la nota con cui il Ministero fornisce le indicazioni per individuare le sedi degli Snodi formativi territoriali in cui si svolgeranno queste attività focalizzate sull'innovazione didattica e organizzativa. Ma si tratta anche di azioni meritocratiche, prevedendo l’attribuzione di 1.000 € per consentire ad ogni scuola di dar vita ai progetti digitali immaginati. Visto il grande successo conseguito, il Ministro Giannini ha recentemente annunciato che il prossimo anno vedrà uno stanziamento aggiuntivo di 100 milioni di euro per il rafforzamento delle competenze digitali degli studenti (65 milioni alla scuola del primo ciclo e 35 alla secondaria di secondo grado). L’obiettivo è quello di consentire ad ogni studente di avere gli strumenti adatti per imparare a programmare: 60 ore all’anno di coding sono un passo necessario per avere, tra 10 anni, una popolazione di giovani italiani perfettamente alfabetizzati in quello che si chiama “il nuovo pensiero critico”. In un’economia ormai globale, i nostri ragazzi sono chiamati a uno sforzo epocale e avvincente, che è quello di saper maneggiare gli strumenti con cui competere nel mondo del lavoro, essere responsabili dei contenuti che producono online e saperli usare a fini umanistici, integrando la comunicazione frammentaria e veloce del nostro tempo con la saggezza immortale che si insegna sui banchi di scuola. Navigare nella superficie in costante moto, rimanendo profondi e facendo uso di sé, della profondità subacquea, per darsi l’impulso. La sfida è questa: alla scuola compete il dovere di raccoglierla.
L'illustrazione di apertura è di Rebecca Mock e tratta time.com/americangirls/