Un grande viaggiatore, frequentatore del Medio Oriente dove ha conosciuto la quotidianità, i sogni e le delusioni dei rifugiati. Ha realizzato diversi reportage sulle migrazioni, concentrandosi negli ultimi anni sulle vicende afghane.
L’indomani la chiacchierata fatta con Paolo, ero in partenza, carica delle sue parole e delle descrizioni dei suoi paesaggi che cercavo di confondere con i miei, quelli che in quel momento sbirciavo dal finestrino di un aereo.
Cercavo di prendere appunti visivi e di dare un senso ad una mappa informe, dove gli agglomerati urbani somigliavano a dei rosoni gotici che si decomponevano man mano che ci si avvicinava alla periferia. Tra le coltivazioni, alcune abitazioni sorgevano solitarie e le colline verdeggianti si alternavano ai più dolci pendii pettinati dai chiaroscuri dell’autunno.
Tutto questo era lì, sotto i nostri piedi, a comporre un'opera musiva dalle tessere irregolari le cui fughe erano strade che correvano fino ad incrociarsi, quasi per caso, per poi ripartire veloci.
Quel susseguirsi di immagini ci invitava a fare uno strano gioco, quello di indovinare i confini sotto di noi non più evidentemente riconoscibili. Ridisegnavamo così una carta geografica fatta di supposizioni e di ipotesi, tirando ad indovinare, facendo appello alla memoria sperimentata a scuola davanti ad una cartina fisica.
Con questa immagine, ruminavo ancora le parole di Paolo Martino. Il fascino dei suoi appunti di viaggio mi obbligava a ricostruire i suoi itinerari e le sue mappe, che avevo dovuto consultare per capire dove fosse stato. Avevo riscoperto paesi e confini che si snodavano man mano che snocciolava i suoi racconti.
La sensazione non era molto diversa da quel sorvolare territori difficili da riconoscere. Mi ritornavano in mente alcune parole di Tiziano Terzani: l’idea che l’aereo, essendo una comoda scorciatoia di distanze, avesse finito per imporre una limitata percezione dell’esistenza, finendo per scorciare tutto, anche la comprensione del mondo.
Anche alcuni pensieri cambiano altitudine.
Paolo è un grande viaggiatore, frequentatore del Medio Oriente dove ha conosciuto la quotidianità, i sogni e le delusioni dei rifugiati. Mi dice che dal viaggio tende ad estrapolare la parte poetica, e questo leggendolo è evidente. «Viaggiare per me è come seguire un impulso, obbedire ad una sensazione» – racconta.
Nel 2006, è stato testimone diretto del conflitto tra Israele e Hezbollah. Durante quel viaggio è iniziata la sua esperienza di blogger. Ha esplorato distanze al ritmo antico dei pedali, nel 2007 infatti, ha pubblicato per Osservatorio Balcani e Caucaso un reportage fotografico realizzato in Kosovo durante un viaggio in bicicletta.
Paolo ha realizzato diversi reportage sulle migrazioni, concentrandosi negli ultimi anni sulle vicende afghane. Ha realizzato documentari come Terra di transito, che racconta le odissee personali dei profughi afghani partendo dal racconto di un rifugiato bambino.
Nell’autunno del 2011 ha viaggiato tra Caucaso e Medio Oriente, dove ha realizzato un reportage, sempre per Osservatorio Balcani e Caucaso, “Dal Caucaso a Beirut”, un viaggio iniziato in Libano, dall’altopiano della Bekaa.
Ha ricucito i tasselli di un popolo che ha seguito il triste destino della sua capitale medievale Ani
Per questo lavoro ha ripercorso le tappe della diaspora armena attraversando la Turchia orientale, la Giordania e la Siria fino a Yerevan con il sottofondo delle atmosfere trionfali del compositore armeno Aram Khachaturian. Ha ricucito i tasselli di un popolo che ha seguito il triste destino della sua capitale medievale Ani: un tempo splendente simbolo dell’impero armeno, appare oggi in tutta la sua decadente bellezza, un rudere abbandonato in un angolo di territorio turco.
«Un secolo fa il genocidio armeno sanciva la fine della convivenza turco-armena in Anatolia. Aleppo, Damasco, Baghdad e Amman diventano il grembo della diaspora armena, mentre in Libano nasce la coscienza e la rivendicazione politica armena e si esprime l’anima della più grande comunità armena del Medio Oriente» – spiega.
È partito da Burj Hammoud, il quartiere di Beirut in cui si annida l'anima della minoranza armena, dove (dice) «gli intonaci mal imbiancati rivelano le raffiche di proiettili che in vent'anni di guerra civile hanno crivellato il quartiere».
Paolo ha lasciato che lo accompagnassero le parole dei testimoni della storia, uomini e donne che si è fermato ad ascoltare: il professor Adakessian docente dell'università armena Haigazian, Angel, la donna più anziana di Anjar, Sarop il guerriero, guardia del corpo di Arafat e poi protagonista della lotta armata armena. Ci sono soprattutto tanti volti in questa storia.
Misuro tutte le parole che Paolo ha condiviso nelle case e nei vicoli di questi posti che, a suo dire, come dei labirinti sono metafora della storia intrigata di chi li abita. Leggendo i suoi appunti di viaggio, viene da chiedersi, quale sia il destino di un profugo.
«Dipende da una nave presa o persa, da un consiglio che segue o che ignora?» – si chiede Paolo – «La diaspora è la terra delle circostanze. L'unica patria dei profughi è la memoria, e la guerra è la loro vera madre» – risponde.
Allo stesso modo, viene da chiedersi quale sia il modo per comprendere le scelte di tutti coloro che abitano questa storia e per risalire all’elemento umano. Per Paolo è camminare sui sentieri di quelle migrazioni, «misurarle col metro dei passi, della pioggia, degli orizzonti monotoni dell’altopiano e del deserto».
Questa storia ha una tappa in comune con un altro viaggio, la Valle di Van, testimone di infinite migrazioni. «Qui sotto passava la Via della Seta, foriera di preziose merci persiane e indiane» – racconta Paolo – «Su queste rive fanno sosta migliaia di pellicani, cormorani, gabbiani e fenicotteri, sulla loro ancestrale rotta migratoria per l’Africa». Un’altra preziosa mercanzia transita oggi in quella valle. Questa volta Paolo segue le tracce di Mussa Khan, e seguendo il suo itinerario ripercorre quello di un intero popolo, quello afghano. Con questo reportage Paolo ha vinto il Premio europeo Insieme contro le discriminazioni.
«Chi è Mussa Khan?» – chiedo a Paolo con l’imbarazzo di aver fatto una domanda scontata. Segue infatti un velato sorriso e la risposta – «Il progetto “Mussa Khan” nasce da un incontro casuale con i muhajirin afghani e iraniani, dopo aver condiviso con loro il marciapiede della Stazione Ostiense di Roma e aver ascoltato e vissuto le loro storie. Mussa Khan è solo un ragazzo. Seguendo le sue tracce, però, ci si imbatte in un intero mondo in movimento, fatto di storie, di speranze, di persone» – dice – «Il progetto ha il nome di una persona, un muhajır, termine che designa la condizione di milioni di afghani che, a metà tra rifugiati e migranti, vivono in condizioni precarie a causa del conflitto trentennale che affligge il loro paese. La sua è la storia di tanti milioni di afghani che ogni anno lasciano la loro famiglia e percorrono milioni di km per fare domanda di asilo in Europa. Questa è anche la loro storia, scritta seguendo uno ad uno i loro passi nella polvere – spiega Paolo – mesi, anni, sempre in cammino. Respinti, invisibili, ai margini. È questo il destino dei muhajiri afgani, alla tenace ricerca di un sogno chiamato "Europa". Mussa Khan è uno di loro».
Ha viaggiato per due mesi sulle rotte dei migranti attraverso Turchia, Grecia e Italia
«Per realizzare questo reportage, pubblicato a puntate» – si legge in Osservatorio Balcani e Caucaso – «l’autore ha viaggiato per due mesi sulle rotte dei migranti attraverso Turchia, Grecia e Italia; ha visitato venti diverse associazioni; ha intervistato poliziotti, camionisti, equipaggi di navi; ha incontrato trafficanti, falsari, faccendieri e intermediari. Ma soprattutto ha condiviso con i muhajirin la lunga strada lastricata di sogni, aspettative, delusioni e notti insonni che porta in Europa».
Correva l’anno 2010 e facendo sosta alla stazione di Roma Ostiense ci si poteva imbattere nelle vicende umane e nei volti dei muhajirin. «Arrivano o transitano in quella stazione che rappresenta il principale snodo italiano lungo il tragitto dei migranti afghani diretti in Europa» – dice Paolo – «Passato l’adriatico arrivano qui guidati dai trafficanti o dal passaparola».
«L’ira funesta dei profughi afgani che dal confine si spostarono dell’Iran» cantava Franco Battiato negli anni ’80. Continuavo a canticchiarla nella mia mente mentre rileggevo una frase scritta da Paolo: «Un popolo sganciato dalla geografia sopravvive solo se riesce a sostituire al mito fondante delle origini un mito speculare: il mito del ritorno».
Forse anche per questo il suo viaggio si è concluso a Roma dove tutto aveva avuto inizio e dopo centinaia di km nelle gambe.
Io intanto proseguivo il mio viaggio da una prospettiva privilegiata, conservando le immagini e le parole di Paolo che raccontano un qualcosa che lui non riesce ancora a chiamare lavoro perché «a differenza del lavoro che replica, questo ha sempre qualcosa di nuovo» – mi dice.
Le montagne si elevano come cattedrali dai portali di roccia.
Le montagne si elevano come cattedrali dai portali di roccia. Superata la cortina delle nuvole quello che rimane è un paesaggio inconsistenze e impalpabile.
Non potevo fare a meno di pensare a come sarebbe stato lo stesso viaggio se avessimo percorso le strade di quei territori.
Le strade sono sinonimo di tante cose, ma soprattutto sono sinonimo dell’eterno andare e ritornare. Sulla strada si compiono i viaggi come quelli di Paolo Martino.