Il racconto di un'esperienza di volontariato che apre spunti di riflessione su una tragedia di cui spesso, o sempre, il mondo occidentale si dimentica. O finge di dimenticarsi
È da quattro anni che una decina di bambine e bambini (dai 9 agli 11 anni), provenienti dai campi profughi del Saharawi, vengono accolti per una “vacanza” nella nostra città. Capita di agosto, quando Monza è vuota e si respira aria calda di assenza. Forse per questo la loro presenza passa ai più (quasi) inosservata.
È questo un piccolo racconto di una esperienza di volontario in quel del Convento-Ostello dei Francescani alle Grazie Vecchie.
A distanza di tempo, quali i segni rimasti da questa esperienza?
Lo strano suono dei loro nomi: Daf, Asma, Moulud, Nahai, Ahmed, Salem, Liha, Salea, Leila (una e due), Farimetu; i sorrisi dei loro volti delle foto scattate e che parlano da sé, le storie alle loro spalle. Bambini provenienti da una tendopoli città/nazione di 250 mila persone, al confine tra Algeria e Marocco, in una delle aree desertiche più inabitabili del mondo.
Della loro presenza mi hanno colpito i loro costanti sorrisi, le affettuose espansività, una vivacità “bambina” coniugata a un rispetto delle “regole” e un'autonomia da adulti un po’ difficile da trovare dalle nostre parti.
L’organizzazione è stata capace di tenere insieme un programma di attività ludiche (gite in montagna, biciclettate, animazione, feste, laboratori artistici e di cucina) e un'accoglienza strutturata (il cibo, i servizi, gli ampi spazi), ma nella quale ho potuto anche respirare quell’aria serena di spontaneità, tipica della migliore tradizione volontaria.
L’accoglienza in “rete”, per il quarto anno, è stata possibile grazie alla regia appassionata di Monica Pagani (Operatrice comunale), per la fattiva e laica ospitalità dei frati (bimbi di religione musulmana), per il supporto della Ong di Mantova, che fa da punto di riferimento nazionale (più di 2000 bambini ospitati in Italia ogni anno) e per la presenza a rotazione (giorno e notte) di una trentina di volontari di associazioni monzesi diverse ma anche di singole persone soprattutto giovani, compreso due ragazzi nigeriani, che da “profughi” monzesi, si sono sentiti in dovere di aiutare altri profughi venuti anche loro da lontano.
Per importante che sia una esperienza di accoglienza, qual è il senso della loro annuale presenza a Monza e in Italia?
Un primo motivo lo ha ben esplicitato Cherubina Bertola che, come Assessore alle Politiche sociali e per i migranti, ha dall’inizio sostenuto questa iniziativa: «Siamo di fronte a un popolo che lotta per i suoi diritti, la sua indipendenza suoi diritti, la sua indipendenza, ma lo fa in modo pacifico, rinunciando all' uso della forza armata, ma rimanendo caparbiamente legato alla sua terra... I piccoli ospiti saharawi sono anche un veicolo pacifico per ricordare a tutti l a situazione di un popolo che da 40 anni rivendica la sua casa, la sua terra. Il Comune di Monza – continua l'assessore – è stato coinvolto quattro anni fa nel progetto di adesione al Coordinamento regionale di solidarietà al popolo saharawi e lo ha fatto con la convinzione di andare ben oltre l'adesione formale e poter dare, anche con l' accoglienza dei bambini, voce a un popolo troppo spesso dimenticato. L' ospitalità è poi diventata una bella e forte esperienza per la città».
Un secondo motivo l’ho incontrato parlando con le volontarie che da anni se ne occupano: ancora una volta, mancanza di informazioni per una delle tante guerre e tragedie dimenticate da media e dalle politiche internazionali.
L’occupazione, la guerra e la fuga
Sahrawi è il popolo del Sahara Occidentale, colonia spagnola che dopo la loro uscita, avrebbe avuto il diritto (sancito dall'Onu) a un referendum per l'autodeterminazione. Cosa poi mai accaduta. Ci fu invece un'invasione di 300 mila “inviati” dal re del Marocco per occupare quei territori e acquisire soprattutto la costa, ricca e pescosa.
Da lì in poi decenni di conflitti, anche armati (ma mai terroristici), con il Fronte del Polisario che rivendicava l’indipendenza del popolo Saharawi, ma con la preoccupazione principale di proteggere la popolazione civile dagli attacchi dell’esercito marocchino.
Migliaia di persone in fuga attraversarono il deserto fino al confine algerino, dove, nei pressi di Tindouf, venne allestita una prima tendopoli di accoglienza. L’esodo di massa avvenne sotto i bombardamenti dell’aviazione marocchina.
Un Muro nel deserto
E così oggi c’è un popolo diviso in due: una parte (400 mila persone) è rimasto nel Sahara occidentale sotto il regime marocchino e le altre 250 mila vivono da 40 anni rifugiati nel deserto algerino, dove hanno autoproclamato la Repubblica Araba Saharawi democratica (Rasd). Di fatto una nazione non riconosciuta dalle autorità internazionali. Un popolo “figlio di nessuno” che sopravvive soprattutto grazie all’aiuto delle organizzazioni umanitarie.
A dividere in due questo popolo è un muro. Sì, avete letto bene un muro (forse il più sconosciuto)! Un muro di filo spinato nel deserto di oltre 2700 chilometri, una barriera che si confonde con il colore della sabbia, nel deserto algerino,al confine con il Sahara occidentale, presidiato tuttora da migliaia di soldati marocchini.
La responsabilità dell’informazione e dei piccoli gesti concreti
Con mia colpevole ignoranza, nemmeno io sapevo nulla di tutto ciò. L’esperienza di volontariato mi ha però permesso di mettere insieme un altro tassello delle tante tragedie di guerra e povertà sconosciute, con cui conviviamo inconsciamente ogni giorno.
Vivo un sentimento contrastante, tra la frustrazione dei troppi silenzi, delle vuote piazze e l’emozione vissuta e provata grazie ai sorrisi e alla gioia trasmessa, proprio da chi in realtà ne è vittima.
Probabilmente, se non vogliamo arrenderci all’impotenza è questo il tempo di riprendere la responsabilità della informazione e della consapevolezza di quanto accade nel mondo anche quando si spengono le luci dei televisori (ammesso che si accendano). Così come è tempo di piccoli segni e gesti concreti.
Per saperne di più:
saharawi.tsnet.it
www.rainews.it
www.saharawi.org