La Monza che Vorrei. Secondo Giuseppe Longoni, professore della Statale, questa è la città delle occasioni sprecate, che crede poco nella cultura. "Occorre favorire l'imprenditorialità immateriale, culturale, con un ruolo decisivo del soggetto pubblico, suscitando energie nuove, comprese quelle dei tanti stranieri che qui vivono ed operano.
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rofessore, ci parla del suo rapporto con Monza?
Rispondo con Catullo, Odi et amo. Ho sempre abitato qui, salvo un anno. Lavoro a Milano e, come city user, apprezzo il rientro a Monza. Milano attrae e respinge. Monza attrae poco ma respinge poco. Ho studiato per anni la storia della città e naturalmente so che la memoria tende a rendere il passato affascinante, a scapito del presente. Monza ha elaborato esperienze significative, ma si è spesso fermata sulla soglia dell’eccellenza; come intimorita da Milano, troppo vicina.
Anche tenendo conto di questo, non si può evitare di vedere le eredità sprecate, le occasioni perdute. Come abbia prevalso sugli spunti creativi che si sono manifestati una mentalità in apparenza legata alle specificità locali e in pratica prona a interessi piuttosto gretti e a volte totalmente estranei.
Mi irrita invece il provincialismo, il tradizionalismo finto e l’incapacità di percepirsi come realtà dinamica ed autoprogettante
Quali sono gli aspetti della città che più apprezza e quelli che meno le piacciono?
Mi piacciono le ridotte dimensioni del centro storico, sufficientemente conservato, il Parco, grande invenzione teresiano-napoleonica e presidio d’originalità urbana, una cert’aria di provincia in fondo non sgradevole e poco incline alla retorica e l’impegno professionale e civico di una parte degli abitanti, la memoria diffusa di una civiltà del lavoro che ha marcato in profondo il carattere della popolazione anziana.
Mi irrita invece il provincialismo, il tradizionalismo finto e l’incapacità di percepirsi come realtà dinamica ed autoprogettante: si pensi alle stupidaggini inventate per proteggere la città dal raccordo col sistema dei trasporti metropolitani, alla vicenda della Cascinazza e in generale alla lotta sorda e tenace per neutralizzare il Piano regolatore a vantaggio dei soliti noti, ai progetti tragicomici delle cento torri ecc., l’aggrapparsi all’Autodromo (tra l’altro vecchio e probabilmente svantaggioso economicamente) come sola eccellenza.
Monza guarda più al passato o più al futuro?
Nel complesso troppi non guardano; si limitano a gestire; Monza rischia di addormentarsi nel piccolo ruolo di capoluogo rispetto a un territorio sul quale, peraltro, esercita un'influenza decrescente.
l’impressione è che ai figli si pensi poco, o meglio che si pensi a sostenerli e farli consumare in un quadro di corto respiro
Quanto di quello che accade o si costruisce oggi sarà un bene o un male per i nostri figli?
Accade poco: l’impressione è che ai figli si pensi poco, o meglio che si pensi a sostenerli e farli consumare in un quadro di corto respiro. Si è costruito con un’idea malata dello sviluppo. Ma i nostri figli vanno in giro per il mondo, molto più di noi, vedono come vanno e come potrebbero andare le cose.
Cosa pensa dei destini della Villa Reale e della rinuncia delle Amministrazioni locali a gestirla?
Il complesso Villa reale-Parco è un’eccellenza assoluta: sottovalutata e penalizzata. L'atteggiamento sulla Villa è figlio di una cultura in auge da decenni che recita: il privato fa sempre meglio del pubblico. Naturalmente questo non è vero, non lo è mai stato e spesso è vero il contrario. In una logica di mercato la Villa non sarebbe mai stata costruita. Il rapporto pubblico- privato si declina storicamente.
Certo è un problema di difficile soluzione, che meriterebbe un lungo discorso. Per impostarlo cito Philippe Daverio: l’arte va considerata “eredità” (non tanto
L'atteggiamento sulla Villa è figlio di una cultura in auge da decenni che recita: il privato fa sempre meglio del pubblico. Naturalmente questo non è vero, non lo è mai stato e spesso è vero il contrario.
patrimonio, parola che suggerisce una valutazione solo economica). Eredità evoca anche una dimensione etica, l’impegno dei figli a onorare i padri nella trasmissione e nella reinvenzione del loro lascito, elaborando le radici civili e culturali. In una prospettiva aperta ai suggerimenti che arrivano dal mondo e dalle esperienze alte. L’approccio a un problema complesso deve essere alto e non ispirarsi ad una logica di bottega: quanto ci posso guadagnare domani? Così non si va lontano.
Foto di Massimiliano Giani
Che considerazione ha della vita culturale e sociale di questa città?
Vita culturale un po' depressa, da sempre, salvo qualche fulgore momentaneo; gli amministratori e anche molti cittadini non ci credono, non si impegnano, non vi dedicano le energie migliori. Le intelligenze locali, beninteso, non mancano ma non sono sostenute né stimolate e quindi ricadono facilmente nell’autoreferenzialità. Ma le iniziative buone attecchiscono. Basta pensare al ciclo Abitatori del tempo della povera Rosanna Lissoni, che ricordo con affetto. Mi viene in mente, qui vicino, anche il Museo del territorio di Vimercate, bella realizzazione. E nella musica anche il jazz, se ben proposto, trova ascolto e consenso oltre al lavoro di Michele Sangineto con la sua famiglia sull’arpa celtica. Ma occorre cambiare mentalità: il brianzolo lavoratore e onesto ma incolto e insensibile è uno stereotipo consunto e inutile.
Monza è una città accogliente verso gli immigrati, italiani o meno che siano?
Questione complessa. Da noi sembra raro il razzismo ideologico di tipo nazionalista-fascista, portatore di esclusione; è presente invece un fastidio diffuso, frutto di una mentalità miope e vecchia; credo che qui i fattori decisivi siano quello anagrafico e quella che Galbraith chiamava “la cultura dell’appagamento”, la convinzione che si sta bene così e gli altri rompono le scatole. Invece i nuovi arrivati sono, in grandissima maggioranza, una valida risorsa
oggi affiora soprattutto la delusione verso la delega cieca e pare crescere la volontà partecipativa. Occorre dare slancio a queste spinte.
Il vento che ha cominciato a soffiare con le ultime elezioni potrebbe arrivare anche qui?
Siamo in pianura, anche se ai piedi delle Prealpi; i venti non hanno ostacoli di fronte a sé. Il vento aveva soffiato nel ’93 e poi ancora nel 2002; sono state fatte cose buone e compiuti vari errori, anche se l’elettorato non ha tanto punito gli errori ma registrato altri venti. Quello attuale serpeggia da tempo e occorrono nocchieri che sappiano alzare le vele e poi tenerle tese.
Fuor di metafora: oggi affiora soprattutto la delusione verso la delega cieca e pare crescere la volontà partecipativa. Occorre dare slancio a queste spinte.
È possibile – secondo lei – favorire l'incontro, il confronto dei cittadini di una città, renderli partecipi delle sue sorti? Se sì, come?
Nell’unico modo possibile: stimolandoli con l’impegno, la mobilitazione, la proposta sui temi locali come su quelli generali, che ormai spesso coincidono; è importante, tra l’altro, recuperare la vita di quartiere che certo l’abolizione delle circoscrizioni non favorisce.
Queste cose le può fare un ceto politico che dia l’esempio: convinzione, chiarezza, idealismo, onestà.
Ci sono dei settori sociali di Monza che, per scelta o meno, non hanno voce in capitolo sui destini collettivi?
A occhio e croce direi soprattutto i giovani; ovviamente non si tratta di mettere per forza dei ragazzi in certi posti ma di guardare avanti e saper rischiare qualcosa. Loro vedono, non ascoltano le prediche ma capiscono come uno razzola. E poi la il mondo legato alla conoscenza e alla cultura. L’attività culturale troppo spesso è vista dalla vecchia mentalità come orpello e celebrazione.
Occorre puntare ai collegament con la metropolitana e il territorio brianteo, sollecitare la sostenibilità e sostenere la cultura
Su quali fondamenta dovrebbe costruire il suo futuro il capoluogo della Brianza milanese?
Credo su tre cose: collegamenti con la rete metropolitana e con il territorio brianteo, il che implica anche quello con le reti internazionali; sollecitazione verso l'economia verde e le soluzioni produttive sostenibili, il che implica anche la salvaguardia delle condizioni di lavoro; il controllo e anche la programmazione razionale dell’attività edilizia; il sostegno alla cultura come attività costante e libera di osservazione, analisi, rappresentazione, critica, immaginazione, che mobiliti le intelligenze migliori, ovviamente aprendosi al confronto col mondo.
Quali sono i “talenti” su cui Monza dovrebbe puntare, le singole persone e le capacità collettive che possono darle prospettive di lungo e positivo respiro?
I talenti storici collettivi di queste plaghe sono la laboriosità e l’imprenditorialità specialmente manifatturiera; essi oggi sono in crisi, per tanti motivi, seri e complessi.
Occorre favorire nuove forme di imprenditorialità e laboriosità nei settori ambientale, immateriale, culturale, con un ruolo decisivo del soggetto pubblico e suscitando energie nuove, comprese quelle dei tanti stranieri che qui vivono ed operano. Diciamo: sintonizzarsi ad un’economia 2.0.
Poi c’è il capitolo del volontariato associativo, altra risorsa da incoraggiare.
Se un giorno si svegliasse sindaco di Monza, quale sarebbe il suo primo provvedimento?
Una cosa si può fare subito. L’interfaccia esterna è banale, non rende giustizia: bisogna far parlare le componenti cittadine che hanno poca voce ma cose da dire. Occorre uno strumento di comunicazione pubblica che trasmetta gli elementi vitali della città e non li ingessi negli stereotipi più frusti tanto cari alla subcultura cucinata in base alle ricette della comunicazione pubblicitario-televisiva. La gente in gamba deve sapere che può comunicare, far sapere quello che fa e pensa.
Nato a Monza nel 1951, Giuseppe Maria Longoni è laureato in Lettere Moderne all'Università Statale di Milano. Insegna Storia contemporanea. Studia i fenomeni economici e culturali legati ai processi di modernizzazione, soprattutto nell'area lombarda e nel territorio di Monza. Fra i volumi pubblicati “Una città del lavoro” (1987), “La Fiera nella storia di Milano” (1988), “L'arte dei cappellai” (2001), "La voce del lavoro: vita di Ettore Reina" (2006), "Lo sguardo dei Camperio" (2009) oltre a numerosi saggi su riviste specializzate, tra cui “Nuova rivista storica” e ”Archivio storico lombardo”. La foto è di Fabrizio Redaelli ed è tratta dal libro "Monzesi" edito da Vittone editore (2003).