“La società a costo marginale zero” Se la prima rivoluzione industriale era basata su vapore-telegrafo-ferrovie, e la seconda su petrolio-telefono/radio/TV-autoveicoli, la terza è caratterizzata da energie rinnovabili-internet-logistica digitalizzata.
Con “La società a costo marginale zero” (Mondadori, 2015) Geremy Rifkin ha inteso offrire una visione globale del suo pensiero, collegando tra loro i concetti espressi nei suoi libri precedenti, da “La fine del Lavoro” (1995), all’”Era dell’Accesso” (2000) a “La terza rivoluzione industriale” (2010).
I capisaldi della sua visione sono:
- Il progresso tecnologico porterà a un livello vicino a zero il costo marginale di tutti i prodotti e servizi.
- Le nuove generazioni daranno una importanze sempre minore alla proprietà, preferendo l’accesso ai beni al loro possesso.
- Crescerà lo spirito comunitario rispetto all’individualismo utilitarista proprio del secolo scorso.
- Il mercato verrà in gran parte soppiantato dalla condivisione dei beni. Si passerà così dall’economia capitalista all’economia del “Commons collaborativo”, che chiamerei in italiano “economia comunitaria”.
- La struttura economica e sociale sarà sempre più reticolare, “laterale”, e sempre meno gerarchica.
- Le rivoluzioni industriali della storia dell’economia sono contrassegnate dal cambiamento della triade comunicazione-energia-logistica. Se la prima rivoluzione industriale era basata su vapore-telegrafo-ferrovie, e la seconda su petrolio-telefono/radio/TV-autoveicoli, la terza è caratterizzata da energie rinnovabili-internet-logistica digitalizzata.
- Tutto ciò porterà a una economia dell’abbondanza sostenibile, consentita dai costi marginali tendenti a zero, dal superamento culturale del materialismo-consumismo e da una inversione dell’aumento della popolazione mondiale.
A sostegno di questa prospettiva, che può apparire utopica, Rifkin fornisce prove molto consistenti.
A cominciare dalla possibilità, impensabile qualche decennio fa, di accedere a conoscenze, scambiare idee e beni via internet a livello globale e a costi irrisori.
Altrettanto radicali, e ormai ampiamente diffusi, sono gli effetti del web sui settori editoriale, musicale e dello spettacolo.
Il passaggio progressivo dalle fonti di energia estrattive a quelle rinnovabili porterà non solo a una drastica riduzione dei costi, ma anche a livelli di efficienza energetica inusitati, da cui dipende, molto più che dal capitale e dal lavoro, la produttività dell’economia globale.
Importante è anche lo sviluppo in atto dell’istruzione via Internet, che potenzialmente consente a una persona meno abbiente di laurearsi in una università prestigiosa con risultati pari a quelli di un facoltoso studente interno.
Anche la tendenza delle nuove generazioni a condividere abitazioni, trasporti, oggetti vari, piuttosto che a possederli, è in crescita esponenziale.
Ma l’aspetto più avvincente è lo sviluppo in atto delle applicazioni della rete a tutti gli oggetti e alle loro relazioni, al “collegamento di ogni cosa con tutte le altre in una rete globale integrata”, che va sotto il nome di “Internet delle Cose”. “Nel giro di dieci anni, scrive Rifkin, ogni edificio d’America e d’Europa, così come di altri paesi del mondo, sarà dotato di contatori intelligenti. E ogni apparecchiatura - termostati, linee di montaggio, strumentazione di magazzino, televisori, lavatrici o computer - avrà sensori collegati ai contatori intelligenti e alla piattaforma IDC (Internet delle Cose)". E ancora: "Nel 2008 i sensori per collegare i più disparati tipi di marchingegno pensati dall’uomo erano 10 milioni. Nel 2013 il numero si è avvicinato ai tre miliardi e mezzo. Ma ben più impressionante è il dato previsto per il 2030, quando saranno collegati all’IDC centomila miliardi di sensori”.
Ma oltre a dedicare ampio spazio agli argomenti che corroborano la sua visione, Rifkin non trascura di analizzare i possibili ostacoli che ne possono intralciare la realizzazione. In primo luogo la possibilità che gli stessi sistemi comunitari possano formare oggetto di mercato, e portare a forme di monopolio.Lo stesso Internet, gestito da enti indipendenti, in cui sono tuttavia rappresentati il mondo accademico, gli stati, le imprese ed esponenti della società civile, può essere influenzato dai diversi interessi. Soprattutto gli stati e le imprese tentano di orientare o vincolare la rete ai propri interessi. “Internet è un Commons, osserva Rifkin, ma le piattaforme del web rientrano in un ventaglio che va dalle organizzazioni no-profit alle imprese commerciali, orientate al mercato. Wikipedia e Linus rientrano nella prima categoria, Google e Facebook nella seconda”. Da parte delle imprese commerciali “le informazioni dell’utente sono archiviate, immagazzinate, isolate, in sostanza trattate e trasformate in beni commerciabili”. E potrebbero nascere “monopoli aziendali non meno esclusivi e accentratori di quelli della seconda rivoluzione industriale”.
In realtà già oggi la maggior parte dei principali settori di internet è sotto il controllo di un’azienda dominante o di un oligopolio: così è per Facebook, Amazon, Skype, Twitter, Apple, eBay, Google.
Quindi, così come per i monopoli tradizionali, Rifkin riconosce che “bisognerà mettere a punto una serie di regole e protocolli atti a garantire la trasparenza e l’obiettività, in presenza di realtà commerciali che controllano sia i dati che gli algoritmi”. Direi di più: occorrerà porre limiti drastici alle posizioni dominanti.
Rifkin non prospetta comunque una realtà nella quale stato e mercato, tradizionali protagonisti delle precedenti rivoluzioni economiche, spariranno a favore dell’economia comunitaria. Ritiene tuttavia che diverranno marginali rispetto al Commons collaborativo. Fa notare comunque che le rivoluzioni precedenti non si sono verificate dall’oggi al domani, ma hanno richiesto decenni per dispiegarsi completamente.
A sostegno di questa prospettiva egli contrappone alla figura dell’homo oeconomicus, interprete della cultura economica del secolo scorso, mosso esclusivamente dall'utilitarismo materialista, degenerato nel consumismo, la figura nuova dell’”homo empathicus”. “L’impulso fondamentale dell’uomo, egli dice, non è una brama insaziabile di cose materiali, come gli economisti hanno voluto farci credere, ma la ricerca della socialità” Come dire che la famosa affermazione di Margaret Thatcher, secondo cui la società non esiste, non è vera. La società esiste, e anche grazie al progresso tecnologico prenderà il sopravvento rispetto all’individuo isolato e autoreferenziale.
Rifkin porta ampi riferimenti filosofici e sociologici a sostegno della sua tesi. Ma l’impressione è che da una visione estremizzata verso l’individualismo Rifkin passi a una visione estremizzata verso il comunitarismo, con il rischio di cadere in un utopico irenismo.
Sappiamo tutti quanto complesse siano le pulsioni degli esseri umani, e che se sono animali sociali, portati alla cooperazione, sono anche amanti del confronto, della competizione. Che in tempi di pace si traduce nel mercato e nello sport - attività umane che si perdono nella notte dei tempi -, ma in altri tempi, purtroppo, nella guerra che, come aveva descritto lo psicologo James Hillman nel suo “Un terribile amore per la guerra”, esercita sugli uomini una malefica attrazione.
D’altra parte, la sua visione appare purtroppo in forte contrasto con il clima politico che aleggia al giorno d’oggi sul globo. Si potrebbe chiedergli: ma non vedi l’aumento crescente della paura dell’altro, il calo della fiducia reciproca, il ritrarsi degli stati e delle persone alla cura dei soli propri interessi, in una prospettiva di conflitti di tutti contro tutti?
Ma si potrebbe pensare, con lo storico Francis Fukuyama (vedi l’intervista a la Repubblica del 29/07/2016) che sono colpi di coda di regimi in via di estinzione, all'interno di una evoluzione inesorabile verso un sistema democratico universale.
In effetti Rifkin ragiona sul lungo termine, trascura le contingenze, prospettandoci un futuro possibile, suffragato dalla storia che ha portato l’umanità, sia pure con riflussi e squilibri spesso drammatici, a un crescente benessere. Un futuro di “abbondanza compatibile”, resa possibile da una umanità passata da una cultura del consumismo e dello spreco a quella di una ragionevole frugalità, E ciò perché “l’eccesso del consumo è figlio della scarsità, della paura dell’indigenza, non dell’abbondanza”.
Nella visione di Rifkin gioca peraltro un ruolo fondamentale la sua previsione di un calo drammatico della popolazione mondiale, addirittura da dieci a cinque miliardi, che sarebbe fortemente correlata con la diffusione della luce elettrica in ogni angolo del mondo, che sarebbe la causa del calo della fertilità nei paesi sviluppati o in via di sviluppo.
La sua visione lo avvicina a quella di Serge Latouche di una “decrescita serena”, in un certo senso spontanea, che per certi versi sembra già in atto ma di cui è difficile prevedere i contraccolpi rispetto al metabolismo capitalista!
Questa prospettiva è insidiata, a suo parere, da due “incognite apocalittiche”: la possibile incapacità degli uomini di ridurre l’impronta ecologica, e interventi distruttivi sulla rete da parte di hacker. In particolare descrive gli effetti catastrofici che avrebbe una mancanza prolungata di energia elettrica. Ma proprio da quest'ultimo punto di vista, il diffondersi di un sistema energetico distribuito, nel quale l’energia sia prodotta in una miriade di prosumer anziché in grandi centrali, appare nella sua potenzialità strategica.
Come nei miei articoli precedenti, ho cercato di capire se e in che misura lo scenario proposto da Rifkin è funzionale alla soluzione dei problemi, per me fondamentali, del futuro: quello delle disuguaglianze e della lotta alla povertà, e quello delle nuove forme che potrà assumere il lavoro nel contesto della vita umana.
Per quanto riguarda quest’ultimo, Rifkin si sottrae alla diatriba tra gli economisti pessimisti secondo i quali il progresso tecnologico determinerà un drammatico aumento della disoccupazione, e quelli secondo i quali, al contrario, l’offerta di nuovi beni e servizi sostituirà quella del passato.
Egli ritiene che sicuramente l’aumento della produttività conseguente all’automazione, alla sostituzione dei lavoratori con i robot, ai progressi inarrestabili dell’intelligenza artificiale renderanno sempre meno necessario il lavoro umano. Ma ritiene allo stesso tempo che gli uomini cambieranno il modo di lavorare, diventando prosumers, cioè produttori e consumatori nello stesso tempo, e svolgendo nuove attività fuori mercato. Egli parla di “una migrazione del lavoro dall’economia di mercato capitalista all‘economia sociale basata sul Commons collaborativo”. “Non è improbabile, osserva, che tra mezzo secolo i nostri nipoti guarderanno al lavoro di massa svolto in un contesto di mercato con lo stesso senso di incredulità con cui noi oggi guardiamo alla condizione di schiavitù e servitù dei secoli passati. L’idea stessa che il valore di un essere umano fosse misurato quasi esclusivamente dalla sua produttività di beni e servizi e ricchezza materiale apparirà primitiva, se non barbara, e sarà guardata dai nostri posteri come un terribile spreco del valore umano”.
E’ invece sorprendente l’assenza di un discorso sulle disuguaglianze. Sembra quasi che Rifkin ritenga che, con il passaggio alla terza rivoluzione industriale, con la tendenza a zero del costo marginale di ogni prodotto o servizio, con la diffusione dell’economia comunitaria a scapito dell’economia di mercato, di un’economia basata sull’accesso cooperativo ai beni e servizi invece che sulla proprietà, automaticamente le disuguaglianze si ridurranno.
Credo che sia lecito dubitarne. Il processo di capitalizzazione del lavoro e di finanziarizzazione dell’economia continuerà a svolgere la sua azione cieca e iniqua, discriminante tra ricchi e poveri, in atto ormai da quasi quarant’anni, con esiti sicuramente allarmanti.
Non mi sembra che il pur importante impegno pluriennale di Rifkin contro l’appropriazione da parte delle multinazionali di beni e servizi che rivendica alla comunità (come Occupy Wall Street e altri movimenti analoghi) sia adeguato rispetto alle forze da sconfiggere.
Una nuova, potente ed estesa gestione politica dovrà sostenere i protagonisti dell'economia comunitaria. Altrimenti l’utopia diventerà veramente utopia.