Gigi Perego, 66 anni. 42 anni passati a lavorare, 32 trascorsi da sindacalista Cisl. Conosciuto soprattutto per essere stato sindaco di Seregno per ben 10 anni, dal 1995 al 2005, Perego tra il 1967 e il 1970 ha vissuto in prima persona il periodo più caldo della rivolta operaia in Pirelli Bicocca, il motore della contestazione sessantottina nelle fabbriche.
Foto di Uliano Lucas
Molta della letteratura sul ‘68 gravita attorno alla rivolta studentesca, ma forse è corretto concentrarsi su quanto avvenne nelle fabbriche prima ancora che nelle Università.
La contestazione studentesca in realtà si innestò sulla massiccia rivolta operaia delle grandi fabbriche come la Pirelli Bicocca, la Falck, la Breda e che poi si allargò alle realtà industriali più piccole.
Ripercorrendo quella stagione, cosa accadde negli anni precedenti?
Nel ’67 alla Bicocca accaddero due fatti che innescarono la reazione, innanzi tutto il rinnovo del contratto nazionale del settore gomma che si chiuse con un risultato deludente per cui i salari ebbero un aumento minimo, del 2,5%. Inoltre gli operai che a quest’esito si ribellarono con lo sciopero furono multati dall’azienda. Non seguì alcuna protesta. In seguito, però, in Pirelli furono assunti 5000 giovani tra diplomai e laureati che portarono nuova linfa ed energia alla contestazione.
A ci ò si aggiunga un fatto importante: la popolazione operaia di allora era costituita da una generazione anziana proveniente dalla Brianza, piccoli imprenditori del mobile che avevano chiuso a seguito di una grande crisi del settore e altri piccoli artigiani per i quali la fabbrica era un ripiego. Questa condizione permetteva loro di resistere a lungo durante gli scioperi perché potevano occuparsi diversamente. Per ciò gli scioperi in Pirelli poterono essere lunghi ed efficaci.
Quali erano gli obiettivi della contestazione?
L’obiettivo è riassumibile nello slogan “Agnelli Pirelli ladri gemelli”. La lotta all’autoritarismo esasperato e vuoto che si respirava in fabbrica. La vita in fabbrica era davvero dura.
Qualche esempio?
Un esempio su tutti: in Bicocca non era consentito transitare da un reparto all’altro altrimenti si veniva multati. Avveniva per evitare il contatto; c’erano reparti più turbolenti, turni più vivaci, in special modo il 6931, quello da cui partivano le contestazioni. Quegli operai erano segregati in un’area della fabbrica separata dal resto da una cancellata. Cancellata che venne simbolicamente presa d’assalto in una delle contestazioni.
E il lavoro?
Cottimo e catena di montaggio. Si erano trovate scappatoie per non venir penalizzati dal cottimo, “la dove non arriva l’operaio arriva la matita” si diceva; si faceva cioè scorta di gomme per segnarle nei giorni in cui la produzione andava peggio. Comunque era difficile, con i “tempisti” che misuravano i tempi di produzione e segnalavano alla direzione chi non fosse produttivo. La catena di montaggio in cui il rapporto era individuale, operaio-gomma, poi era annullante. Il movimento operaio contestò fortemente entrambi questi aspetti: verso il ‘70 ottenemmo le “isole” in sostituzione della catena, così il lavoro da individuale passò ad essere di gruppo, il cottimo veniva suddiviso sulla squadra che lavorava attorno alla macchina.
Quali furono gli episodi più significativi della contestazione in fabbrica?
Fu un periodo pieno e confuso, le provocazioni si intersecavano e si nutrivano dello strano rapporto di competizione e cooperazione tra i turni. Uno dei momenti più caldi fu la marcia sul Corriere della Sera. Un giornalista qualche giorno prima era riuscito a infiltrarsi in fabbrica, nel reparto caldo. Uscì un articolo in cui gli operai della Pirelli venivano descritti come turbolenti, non rispettosi delle regole, scansafatiche; inoltre il giornalista scrisse di 6931 operai scambiando il numero del reparto per il numero di operai. Quel giorno il terzo turno iniziava alle 22, alle 22.10 gli operai erano già tutti in assemblea nella grande mensa, un fiume di tute bianche. Si decise di marciare sul Corriere. Si uscì dalla fabbrica, fuori gli attivisti dei sindacati già distribuivano fiaccole, tutto era già stato pensato. Si attraversò in corteo viale Sarca e si arrivò in via Solferino dove una delegazione di una cinquantina di noi venne ricevuta da Di Bella, il vice direttore.
E il famoso assedio al Pirellone?
Fu un grande segnale di forza. Il cuore delle transazioni venne messo sotto assedio per tre giorni, tre giorni in cui nessuno poteva entrava o uscire, tutto era organizzato alla perfezione, in termini quasi militari, gli operai si davano il cambio. Al mattino i carabinieri tentarono di liberare l’ingresso, ci fu uno scontro ma gli operai tenerono l’assedio. In quell’occasione, vidi un attivista dei nostri che aggrediva un tenente: con una mano che gli schiacciava tra le gambe e con l’altra il collo, altri due operai gli staccavano le mostrine, gli sottrassero un guanto e il cappello; un affronto indicibile per un carabiniere essere disarmato dei suoi simboli! Ad un certo punto scese una pace incredibile quando Trincale, un cantastorie, montò su una cinquecento e intonò “Il fischietto dell’operaio”: gli operai si sedettero e anche i carabinieri si calmarono e si tornò alla turnazione. Dopo un paio di giorni ci fu un corteo interno in Pirelli partito dal 6931: gli operai portarono questi simboli, le stellette, il guanto e il cappello su una specie di bara.
Quale era la percentuale di partecipazione?
Era altissima. Le condizioni dure e la rabbia generavano voglia di cambiamento, di ribellione. In più c’era tutto l’ambiente esterno: il Vaticano, l’influenza del mondo della cultura, si pensi ai libri di Don Milani “Lettera ad una Professoressa”, “L’obbedienza non è più una virtù”. E poi i primi atti di ribellione degli obiettori di coscienza a Peschiera: Si respirava un clima positivo, si esaltava l’operaio massa e rimaneva in ombra l’individualità. La gente voleva partecipare.
Mi viene da pensare che le urgenze della fabbrica che spingevano alla contestazione fossero in grado di unire forse più delle idee politiche, dei colori, delle ideologie.
Il movimento ebbe la forza di eliminare alcune barriere. Ad esempio in Pirelli si assistette alla saldatura tra operai e impiegati, prima la distanza tra questi mondi era incolmabile, addirittura esistevano due ingressi separati, gli impiegati del Pirellone erano una riserva quasi inavvicinabile: durante la contestazione, invece, le due realtà collaborarono, gli impiegati si mobilitarono ed erano presenti nei consigli di fabbrica con i loro rappresentanti.
E sul piano strettamente politico c’erano divisioni?
Alcuni leader erano cattolici, erano ben considerati e stimati. Certamente il partito comunista alla Pirelli aveva una presenza determinante, 900 iscritti solo in Bicocca tanto che aveva una sorta di diritto a vedersi garantito un Senatore e un Deputato. L’aspetto negativo era a volte la forte ideologizzazione delle lotte, ma ci si ricomponeva sull’obiettivo comune, la lotta all’autoritarismo.
Il rapporto con gli studenti?
Il movimento studentesco subiva molto il fascino della classe operaia ed era molto rispettoso. Quando siamo stati all’assemblea della Statale governata da Capanna eravamo quasi adorati dagli studenti: se un operaio prendeva la parola calava il silenzio.
Sentivate l’appoggio della società?
Quasi sempre. Non accadde per gli eventi della notte brava anche se si trattò della risposta operaia ad una provocazione. Si usciva da una serrata, una chiusura della fabbrica voluta dalla Pirelli che per questo venne fortemente criticata. Noi incassammo il sostegno della società, degli uomini di cultura e organizzammo una serie di scioperi. La produzione era bassissima e per rispondere al fabbisogno la Pirelli fece arrivare dei vagoni di pneumatici dalla Grecia. Uno di questi entrò in fabbrica di fronte al reparto 8691. Dato che non c’era motivo per questo ingresso (si trattava di gomme che dovevano andare fuori), gli operai la lessero come una provocazione.
Il secondo turno prese d’assalto i vagoni. Seguì un’assemblea al termine della quale si era decisi a riprendere a lavorare. Era mezzanotte e un’operaio dalla mensa fece scorrere giù un pneumatico gigante, l’assemblea si interruppe bruscamente. Si scatenò una serie di atti vandalici nei confronti della fabbrica, gomme sparse ovunque, in mensa, nella vasca esterna, appese sull’inferriata di viale Sarca. Durò fino alle due, poi tutti rientrarono nei reparti, nessuno parlava, un silenzio imbarazzante, forse colti da un senso di colpa. Il giorno dopo gli impiegati per entrare dovevano fare lo slalom tra gomme e macchine, l’impatto fu forte e in fabbrica si commentava. La Pirelli fotografò tutto e lasciò inalterata la situazione per tre giorni, facendo un formidabile lavoro di comunicazione con la stampa. Avemmo tutti contro.
Cosa successe in seguito, dopo il ’68?
Lo Statuto dei Lavoratori del ’72 è il frutto più tangibile delle lotte operaie, la legge non nacque dal pensiero dei parlamentari ma dal movimento operaio, da una serie di episodi partiti dalla Pirelli Bicocca. L’eco si estese alla Brianza dopo alcuni anni con la Sir a Macherio o la Candy a Brugherio. Paradossalmente con la contestazione abbiamo indirettamente avvantaggiato la concorrenza, in particolare la Michelin dove l’autoritarismo era ancora più forte.
Qual è il suo personale bilancio?
Non sono tra i detrattori del ’68. Ci furono certamente aspetti negativi del movimento. Lo scoppio del terrorismo: i primi segnali in Bicocca si ebbero quando uscì un volantino con il fucile che terminava in una penna per dire come la violenza, la possibilità di uccidere passi anche attraverso la parola. A parte questo, come dico sempre c’è una stagione della semina e una del raccolto e tra esse vi può essere un interregno anche parecchio lungo: il ‘68 ha gettato molti semi, alcuni sono germinati, altri meno, ma certamente alcune conquiste, che oggi appaiono scontate, sono il frutto di quelle lotte. Gli organi collegiali, la scuola democratica e partecipata, il tempo pieno; sono arrivati per merito del movimento. Oggi ad esempio i testi scolastici non si pagano,è una rivendicazione di quel periodo, un segno di democratizzazione e di una scuola aperta.
Qual è dunque il motivo del fallimento?
Il ‘68 non ha avuto continuità, non ha saputo rinnovarsi in termini di classe dirigente e questo ne ha segnato il limite. Oggi la classe dirigente non è quella di allora: pensiamo a Moro, Berlinguer, ma lo stesso Almirante, Malagodi, La Malfa, figure di spessore, di coerenza. Mentre noi scalavamo la casta sindacale o la casta politica, facevamo vita di partito, militante, in sezione, prima a livello provinciale poi regionale, militavamo forti di alcuni valori. Oggi, si scavalcano i passaggi, non c’è più la militanza. Mentre noi avevamo in mente il bene comune, oggi si lavora per il bene individuale o al massimo di clan. Sono saltate tutte le scuole di politica, gli oratori, le Acli, l’Azione Cattolica, la scuola di partito del Pci, la Chiesa. È venuta meno l’acqua e “il pesce è pesce perché c’è l’acqua”.
La grande influenza delle vicende estere sulla cultura e sulla formazione dei giovani.
Certamente, fa parte appunto del valore che si dava alle vicende collettive. La rivoluzione culturale cinese, Cuba, tutta la vicenda del Cile, la Cia, per noi era pane quotidiano. Come pane quotidiano erano certe letture. Il Sessantotto non fu solo un movimento di lotta, fu anche un movimento culturale, riviste come Avanguardia Operaia o il trimestrale La Classe avevano uno spessore teorico alto. Oggi tutto si basa sul divertimento facile, sull’acquisto facile, sul consumo facile, sull’atteggiamento acritico. Oggi la nostra gioventù è più debole.
Ma è giusto condannare le generazioni di oggi per lo scarso impegno sociale, la superficialità, la vacuità delle mete? Non sarebbe più corretto fare un’analisi più larga, dei modelli proposti, anzi, imposti? Oggi la comunicazione è in grado di imporre. Forse è qui lo scarto vero rispetto al passato: forse quello che cambia non è l’atteggiamento dell’uomo ma il contesto in cui si viene a trovare.
È cambiata la società, sicuramente. Allora eravamo favoriti dal contesto, avevamo una serie di modelli alti, oggi i modelli sono diversi, privi di contenuto. Allora era facile essere diverso, oggi è difficilissimo, vieni subito emarginato. E il movimento ha sicuramente inciso sul piano dello stile di vita: nonostante il boom economico lo stile di vita nel ‘68 era severo, l’emblema era l’eschimo, l’atteggiamento era avverso al consumismo. Ricordo l’intervento di Berlinguer sulla necessità di una vita rigorosa e austera, che rifletteva la preoccupazione avvertita, il pericolo della deriva che il Pci aveva intravisto.
Per tornare alle fabbriche, oggi che ci sarebbe da scioperare e mettere davvero a ferro e fuoco i luoghi di lavoro, oggi che ci vorrebbe un altro ’68, si fa molta più fatica a mettersi insieme, lottare.
Oggi non si può più parlare di classe operaia, da una stagione di massa si è arrivati ad una stagione dove si esalta l’individualismo, mentre prima il merito era collettivo oggi è individualistico. Il ruolo della classe operaia è ridimensionato, allora uno sciopero dei metalmeccanici faceva notizia; allora aveva l’appoggio della società intera. E anche qui forse il motivo è da ricercare nel contesto: i numeri contano, per portare a termine la stessa produzione di Pirelli Bicocca che necessitava di 3500 - 4000 operai, oggi sono sufficienti 500 - 600 operai. Una cosa è contestare in 1000 altro è scendere in piazza in 100.000.
Le foto degli operai e nella fabbrica sono tratte dalle pagine online dedicate al libro "1970-1983, la lotta di classe nelle grandi fabbriche di Sesto San Giovanni" di Michele Michelino.