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La questione delle morti sul lavoro è stata a lungo trascurata dai media. E non perché non fosse conosciuta dalle istituzioni, ma perché era scomodo parlarne per le dimensioni del problema. Basti pensare che nel 1962, in una storica edizione di “Canzonissima”, Dario Fo e Franca Rame ne volevano fare uno sketch e vennero censurati dalla RAI per 15 anni.

A distanza di un anno dal rogo della Thyssen-Krupp e dalla decisione della magistratura di contestare l’ omicidio volontario ai vertici dell’ azienda, il tema delle morti bianche è ancora scottante. L’ argomento è stato riportato nelle prime pagine di tutte le testate, che hanno il merito di averlo sensibilizzato ma non trattato nella giusta maniera. Alcuni tentativi di approfondimento ci sono stati, soprattutto a livello televisivo. Le puntate dedicate all’acciaieria torinese  di “Annozero” e “L’infedele” hanno cercato di capire cosa c’era oltre l’incidente, ovvero lo stato precedente delle cose e cosa si era fatto per (non) evitare la tragedia. A livello di linguaggio giornalistico, “Liberazione” al tempo pubblicò nel paginone iniziale tutti i nomi dei morti di lavoro del 2006.

Se analizziamo un qualsiasi articolo di giornale dedicato all’argomento, notiamo come la struttura sia grossomodo la solita: breve descrizione dell’accaduto, nome dell’azienda, nomi dei deceduti, accenni di storia personale dei lavoratori. Le storie personali suscitano la pietà del lettore, deviando però l’attenzione più sull’individuo che sul problema della sicurezza sul lavoro. Così i decessi appaiono come casi isolati senza un nesso logico apparente.

Nella tesi “Una Repubblica fondata sul lavoro – morti, infortuni e malattie professionali in Italia e nel Veneto” viene fatta una premessa sul mondo del lavoro in generale per poi passare all’analisi dei vari casi di infortunio e morte, i settori più colpiti e perché, le morti “in itinere”, verso o di ritorno dal luogo di lavoro, più le cosiddette “malattie professionali”. Il tutto analizzato anche su scala regionale.

Viene descritto punto per punto il nuovo decreto legge in materia di salute e sicurezza, la cosiddetta “legge 81”, per capire se il problema è di natura legislativa o se si tratta di una questione puramente culturale. Per capire se l’Italia è veramente nella “media” europea degli incidenti oppure se c’è qualcosa di diverso e di inafferrabile che ci differenzia da questi.

Quello che è emerso è che quanto annunciato dalle statistiche ufficiali, ossia che gli infortuni e le morti sono in calo, in parte è falso: i risultati sono falsati dalla sottodenuncia dei datori di lavoro nelle piccole imprese, che stanno diventando sempre di più e sempre più frammentate, dalla presenza del lavoro in nero di immigrati e non i cui incidenti non figurano perché sono appunto irregolari. E colpiscono le categorie più deboli: giovani, atipici e immigrati.

Nemmeno “gli addetti ai lavori” sanno quale sia la reale causa dell’elevato numero di incidenti. I motivi sono molteplici e strettamente correlati tra loro: uno di questi è il precariato, a seguire i nuovi modi di produzione che spingono alla competitività, al massimo profitto con il minimo dei costi. Quando un’azienda ha delle voci di costo da tagliare per far quadrare il bilancio, sceglie di risparmiare su sicurezza, manutenzione e formazione. E questo influisce sugli incidenti: non a caso i settori più colpiti sono quelli che richiedono meno professionalizzazione e formazione, come quello edile. Il tipo di morte più frequente è quella della caduta dall’alto perché la persona al momento dell’infortunio non sa del reale rischio che sta correndo, non conosce le procedure corrette perché non gli è stata fatta la formazione obbligatoria o perché non capisce la lingua italiana. Non indossa il casco e le cinture di sicurezza perché non gli vengono  fornite o perché “servono solo per rallentare il lavoro”.

A tutto questo aggiungiamo la liberalizzazione dei contratti di lavoro, il fatto che la persona possa essere licenziata in qualsiasi momento la porta a non poter programmare il futuro a lungo termine e difficilmente si lamenterà delle condizioni di lavoro, sarà “ricattabile”. Se a un operaio con una paga base di 800 euro mensili e una famiglia di quattro persone da mantenere viene proposto di lavorare più delle 8 ore giornaliere, più il sabato, a ritmi più serrati, con la promessa di guadagnare di più, ovviamente si assumerà dei rischi più grandi di lui.

Tutto questo si ripercuote sulla salute del lavoratore, attraverso lo stress, una malattia professionale che si sta facendo sempre più strada a fianco di quelle “tradizionali”, i tumori e altre malattie respiratorie dovute all’inalazione di gas tossici prodotti dalla lavorazione dell’amianto o del silicio. I casi di malattie cardiache, infarti, improvvisi mancamenti al lavoro sono sempre più all’ordine del giorno

Gli stessi incidenti sulle strade, i cosiddetti “infortuni in itinere” nel settore dei trasporti, molte volte accadono per guasti tecnici del mezzo o per un malore alla guida del conducente, nella maggior parte dei casi straniero. Questo perché i camionisti viaggiano oltre 100 all’ora quando il limite è dei 70 orari, senza dormire, senza pause, senza un secondo autista che dia loro il cambio. Tutto per tagliare sui costi e per essere competitivi.

Un altro argomento toccato dalla ricerca è quello del caporalato, una forma di lavoro irregolare che riguarda soprattutto i lavoratori stranieri. E’ un fenomeno di sfruttamento della manovalanza, per lo più agricola, con metodi illegali. Si definisce caporale chi, la mattina prima dell’alba, si reca nelle piazze dei paesi o nelle periferie delle grandi città a cercare manodopera in cosiddetti luoghi di concentramento (detti smorzi), anche non specializzata, per condurla o nei campi a lavorare la terra o in cantieri edili spesso abusivi. Per tale servizio pretende una percentuale dalla paga giornaliera di questi lavoratori. Il caporalato favorisce la nascita di fondi neri, usati come arma di corruzione o per il finanziamento di altre azioni criminose: se si pensa che un lavoratore in questa condizione si trova a guadagnare 2/3 euro l’ora contro i 22 stabiliti dall’Associazione delle imprese edili, i margini di guadagno diventano vertiginosi.

La legge italiana non parla ancora di reato di caporalato, e fino a poco tempo fa il datore di lavoro non rispondeva personalmente degli infortuni occorsi nella sua azienda. L’ ordinanza di rinvio a giudizio delle sei persone responsabili del rogo alla Thyssen-Krupp è davvero, come dice il procuratore Guariniello, "una decisione storica". Per la prima volta si riconosce anche l’ omicidio volontario. Speriamo che portando alla ribalta anche il fenomeno del caporalato e tutti gli elementi qui di sopra accennati le cose possano cambiare in meglio.

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Elisa Bonomo (holly.fairchild@gmail.com) ha 22 anni e abita a Borbiago (Venezia).
Laureata con il massimo dei voti in Scienze della comunicazione all’Università di Padova (relatore il professor Raffaele Fiengo),  è cantante e chitarrista del gruppo pop-rock Montag (www.myspace.com/bandmontag), i cui testi sono fortememente incentrati sull’ attualità e sulla mancanza di una libera informazione in Italia.
Collabora con RadioBue (www.radiobue.it), la radio in streaming dell’Università di Padova.

Pubblicato su www.lsdi.it con il titolo "Morti sul lavoro: ma i media non riescono ad andare a fondo"