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Correale Santacroce: "È urgente conciliare lo sviluppo economico con la valorizzazione culturale e ambientale"

Riceviamo e pubblichiamo

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o letto l’interessante intervista di Antonio Piemontese a Fabio Calandrio di Promos, e il “Rapporto sull’Internazionalizzazione della nuova Provincia di Monza e Brianza”, curato dall’Università Cattolica per la nuova Camera di Commercio di Monza.

E mi sono chiesto: quali indicazioni potrebbe trarre da questa lettura chi volesse costruire degli scenari di lungo termine per la nuova provincia?

Certamente, il primo aspetto che colpisce è l’altissimo livello di apertura della provincia di Monza-Brianza in termini di flussi commerciali internazionali. Questi flussi superano il PIL dell’area in questione di ben il 38%, con Milano che è sotto quel livello per l’11% e l’Italia per il 48%.

Negli ultimi sei anni questo scarto si è leggermente ridotto, ma non in misura significativa. Esprime in modo indiscutibile la struttura produttiva eminentemente trasformatrice della Brianza, e anche di forte consumatrice di prodotti stranieri.

Ma in forte contrasto con l’apertura commerciale, sta la scarsa attrattività dell’area.

Secondo la stessa ricerca, solo il 2% delle imprese brianzole con un fatturato di almeno 200 mila euro (quindi dalle grandi alle imprese medio-piccole) sono a controllo estero. Si tratta di appena 223 imprese, in una provincia ad altissima imprenditorialità, che contano circa il 6% dell’occupazione della provincia. E’ ben vero che nel contesto italiano e anche lombardo si tratta di una percentuale alta. Tutto ciò non toglie che anche la nostra provincia soffra di una scarsa attrattività.

In un contesto economicamente robusto come quello brianzolo, una maggiore presenza di imprese straniere recherebbe un contributo in termini di innovazione e di stimolo alla competitività, oltre a testimoniare un interesse per le opportunità offerte dal territorio.

Il problema dell’attrattività ci porta a un altro problema, proprio delle aree congestionate e quindi della Brianza: quello del tipo di sviluppo prefigurabile, e del rapporto tra sviluppo e crescita.

La giusta aspirazione a un maggior reddito e a un maggior benessere si scontra, in queste aree più che altrove, con “i limiti dello sviluppo”.

Qualcuno ha posto il problema, parlando di “sviluppo omeostatico”. Cioè di uno sviluppo qualitativo, piuttosto che quantitativo.

Non si tratta di una utopia, ma di qualcosa che in certi paesi è già in atto. Pensiamo alla Svizzera, o ai paesi nordici dell’Europa. Ma guardando proprio a casa nostra, forse che il fatto che Monza sia da venti anni ferma sui 120 mila abitanti ha costituito un impoverimento della città? No di certo. Ma altrettanto certo è che se non è aumentata di popolazione, la città si è espansa in modo incontrollato,divorando una quantità enorme di aree libere, con insediamenti non solo produttivi ma anche residenziali, in evidente contraddizione con il dato precedente. Producendo rendita privata e distruggendo capitale sociale.

Il problema dell’immigrazione non dovrebbe modificare la situazione, dato che essa tende a compensare la scarsa natalità.

Se lo sviluppo economico può essere di tipo omeostatico, e se questa possibilità si fa strada nel bagaglio culturale delle persone, allora il contrasto a cui assistiamo spesso tra i difensori dell’ambiente e i sostenitori dello sviluppo economico potrebbe notevolmente ridursi.

Ho sentito pochi giorni fa il lamento di un imprenditore per la situazione drammatica dei trasporti nella nostra provincia. Aveva ragione, ma si preoccupava solo di un risvolto del futuro della Brianza. Purtroppo non si sentono altrettanti lamenti per la scomparsa di aree libere, ormai ridotte a un’estensione che dovrebbe renderne il valore inestimabile non tanto per i costruttori, quanto per la collettività.

Eppure anche gli imprenditori dovrebbero riflettere sulla dichiarazione di un loro collega milanese, Armani, che dice: «Ma quale cliente dell’alta moda accetterebbe di venire a Milano a vedere me e Lella Curiel, in una città che, a parte le quattro strade del centro, non ha nulla da offrire?”

In realtà bisognerebbe chiedergli se anche lui, come molti milanesi, non è capace di guardare oltre la Madonnina, rompere la crosta dura della conurbazione (presente anche a Parigi) e lanciare lo sguardo verso la città infinita, sulle tracce non ancora cancellate degli Asburgo o di Stendhal.

E’ urgente conciliare lo sviluppo economico con la valorizzazione culturale e ambientale, anzi: partire dalla seconda per condizionare e trainare il primo. Basti pensare agli effetti che questa “inversione delle causalità” potrebbe determinare sul modo di produzione del settore delle costruzioni (fine della occupazione di aree libere, contributo alla produzione e al risparmio energetico, compatibilità ambientale, ruolo non più trainante ma subalterno) e sullo sviluppo delle imprese dei settori specializzati e ad alta tecnologia, i cui addetti sono molto esigenti per quanto riguarda le condizioni di vita e di lavoro.

Non vi è dubbio che i due problemi maggiori della nostra provincia sono la mobilità e l’ambiente. La Pedemontana ne è l’espressione più esemplare. Si tratta di un’opera decisiva per la mobilità. Ma forse che la tutela della natura ha una importanza, anche economica, meno decisiva? E in un Paese dove, non si sa perché (anzi lo si sa bene), opere pubbliche come le metropolitane o la TAV costano tre volte quanto nel resto d’Europa, non sono forse giustificati i cosiddetti extracosti, in realtà investimenti produttivi, per tutelare l’ambiente, cioè una delle condizioni base dell’attrattività della Brianza?

Segnali come la chiusura della Rhodia a Ceriano Laghetto dovrebbero allarmare, più ancora che per la distruzione di posti di lavoro, per la chiusura di un centro di ricerca. Significa che la multinazionale francese ha considerato meno attrattiva la Brianza rispetto ai suoi numerosi poli produttivi. E che questo potrebbe valere in futuro anche per le stesse imprese autoctone, inducendole a fare i bagagli.

Possiamo immaginare due scenari di lungo termine: uno in cui lo sviluppo della Brianza proseguisse come nel passato, reagendo agli eventi internazionali con la sua peraltro ben nota flessibilità e prontezza, un altro basato su una nuova capacità di anticipare gli eventi.

Vorrei che un po’ tutti, ma soprattutto gli appartenenti alla “comunità economica” (imprenditori e lavoratori), guardassero al futuro della Brianza da diverse e più lungimiranti prospettive.

E che da questa “conversazione strategica” si traessero indicazioni per i programmi di quella che è stata auspicata come una “provincia utile”.

Giacomo Correale Santacroce