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Una riflessione su lavoro, crisi, sviluppo e democrazia

Riceviamo e pubblichiamo

Qualche anno fa, alcuni sociologi ipotizzarono che il lavoro stesso fosse ormai bene raro, disponibile solo a pagamento, nel senso che chi avesse voluto lavorare – anche come dipendente - avrebbe dovuto “pagare” in qualche modo la possibilità di farlo.

Sarebbe parsa ipotesi provocatoria ai tempi nei quali il potere “d’acquisto” del lavoro si fondava su una serie di attributi che rendevano proficuamente scambiabile forza-lavoro e retribuzione: il bisogno di prestazione d’opera, la competenza nel farlo, l’accuratezza e l’impegno nell’esercitarlo, la volontà di assoggettarsi alle logiche e alle norme che sorreggevano quello scambio.

Le grandi crisi stravolgono sempre questo processo dall’apparenza lineare, nel quale c’è chi offre opportunità e chi le coglie.

Il New Deal introdusse la pratica massiccia dell’invenzione, da parte dello stato, dei lavori socialmente utili, necessari al rilancio di un’economia provata dalla Grande Depressione del ’29 ed essenziali per la tenuta democratica del paese, duramente scossa da fenomeni che stavano disgregando il tessuto sociale.

Le grandi masse di disoccupati e nullatenenti forzosamente messi sul mercato del lavoro, furono sottratte, grazie alla politica governativa, alla logica massacrante di un mercato incapace di prospettare un futuro, ma ben capace di fondare la propria sopravvivenza quotidiana sull’autoritarismo e la violenza, sulla compressione dei diritti individuali e di associazione dei lavoratori e dei cittadini.

Oggi, gli economisti si chiedono se l’attuale crisi possa esser in qualche modo analoga a quella del ’29,. Le opinioni son diverse, ma è la domanda è malposta: ci si dovrebbe chiedere non tanto quali siano le affinità economiche, ma le analogie in tema di allargamento/restringimento dei diritti civili.

L’elogio acritico della nazione USA ci fa spesso dimenticare quest’altra faccia della medaglia che pure fu affrontata da grandi scrittori e registi, e con essa – purtroppo – anche alcuni elementi peculiari che la caratterizzarono e oggi tornano a riproporsi nella loro problematicità.

Stiamo già pagando

Penso anzitutto all’ipotesi del lavoro come “bene da comprare” prima che come “prestazione retribuita”. Se immaginiamo l’atto del comprare come relativo al singolo individuo, è chiaro che nessuno comprò niente, allora; ma se lo pensiamo come utilizzo di denaro pubblico per incentivare l’occupazione attraverso le grandi opere o il sostegno alle imprese, è chiaro che la collettività stava già pagando il lavoro di alcuni in nome di valori generali ritenuti significativi.

E, anche, in nome di uno scambio di utilità costoso ma che, in qualche modo, riguardava pure i ceti non investiti dalla crisi e però preoccupati degli effetti del suo dilagare e precipitare.

Se spostiamo l’attenzione a quanto accade oggi, notiamo che l’entità riconosciuta della crisi - che si va allargando dal settore finanziario a quello dell’economia materiale – è rilevante al punto di esser quasi incommensurabile.

Tutti gli economisti, che sino a ieri, formulavano orgogliose millimetriche previsioni, oggi paiono Cassandre inebetite.

I governi intervengono in modo diseguale e frammentario, al punto che appare persino impossibile ricostruire il quadro reale della situazione.

Federico Rampini, in un articolo su Repubblica, sottolinea questa frammentarietà, i dislivelli, la disorganicità degli interventi che, a fronte di una crisi di natura planetaria, sono tutt’altro che coordinati a tal livello.

Come si collochi l’Italia in questo quadro appare cosa ancora meno chiara, tra gli inascoltati inviti di Bankitalia agli istituti bancari a rivelare l’entità delle proprie esposizioni insanabili e la malcelata “tranquillità” del ministro Tremonti, che dichiara che il governo fa quel che può senza dar alcun riferimento concreto e credibile su quanto sta avvenendo.

Il tutto condito dalla poco rassicurante eloquenza dei risolini e ammiccamenti in diretta degli altri premier europei all’affermazione del nostro che l’Italia sta meglio dei loro paesi.

Il conto in Italia si paga in diritti

Tra le peculiarità italiane, una mi pare però emergere chiaramente ed è preoccupante.

Poiché siamo un paese nel quale l’economia sommersa e l’evasione fiscale toccano vette di rilievo assoluto, di conseguenza a “comprare” il diritto al lavoro attraverso la tassazione e il declino del valore del risparmio accumulato saranno chiamati proprio i ceti che in buona misura lo stanno perdendo.

Non si tratta solo di chiedersi se questa chiamata al soccorso “differenziata” e diseguale sia ingiusta o meno, si tratta di riflettere sul fatto che ciò sta già comportando un’accentuazione della pressione su di loro, in termini di oneri economici ma soprattutto proprio di diritti.

Quando i lavoratori di un’azienda si trovano costretti a ricorrere all’uso delle ferie per rimandare un poco più oltre il ricorso alla cassa integrazione o all’abisso del nulla (soprattutto nelle piccole imprese), cade certamente il loro potere economico, ma cade contemporaneamente l’esercizio di un diritto: quello alla salute, che le ferie garantiscono in quanto potenziale periodo di svago e serenità, e non di ansie e trepidazione per un futuro inquietante.

Vista la recente compatta reazione alla proposta di tassazione degli alti redditi, la situazione appare senza via d’uscita: se a “pagare” il lavoro comprato saranno il lavoro dipendente e il ceto medio, il presunto aumento del potere di acquisto e consumo che dovrebbe rilanciare l’economia sarà equivalente a zero, fondato com’è su una ridistribuzione del reddito (e di tutto ciò che ad esso è correlata) che è del tutto interno alla stessa fetta di società che dalla crisi è più colpita.

Le risorse si riveleranno insufficienti, oltretutto, poiché l’operazione si configura come quella di travasar l’acqua tra due secchi comunicanti e già svuotati oltre il limite accettabile, senza aggiungerne altra.

In questo quadro, davvero appare ridicola, anche se estremamente pericolosa, la rincorsa governativa a provvedimenti inadeguati, che – oltretutto – per continuare a difendere i soliti privilegi dovranno di fatto scontrarsi ancor più con l’esercizio democratico dei diritti, di cui quello di sciopero ora all’ordine del giorno è solo il primo ed emblematico.

Se la Pace sociale è imposta…

Nel portare a fondo questo attacco, infatti, ci si dimentica un dato che la politica keynesiana e rooseveltiana avevano invece ben presente: la conflittualità nel Mercato del lavoro e nella produzione non è qualcosa da esorcizzare attraverso norme che riproducono o aggravano diseguaglianze, “drogando” in tal modo il sistema economico e produttivo e abituandolo a viver di rendite di posizione, peraltro esse stesse sempre più a rischio.

Non si fa ideologia se si afferma che il vero motore di ogni sviluppo è storicamente stato la dialettica – che non può esser aconflittuale per presupposto - tra imprenditori, produttori e redditieri. Senza di essa tutto si cristallizza – ben che vada – in modelli concertativi poco credibili e somiglianti ai Piani pluriennali di stampo sovietico, dai quali la concezione del ruolo sindacale affermata da Cisl, Uil e UGL curiosamente non è lontana, anche se a parole se ne distanzia.

Per illudersi di funzionare, quei modelli hanno inatti bisogno di un mix di intelligenza progettuale e di controllo sociale: ma poiché la prima non ha stimoli sufficienti (non basta quello economico, ci dev’esser anche quello della necessità storico/sociale che deriva solo dalla libera dialettica dei differenti interessi) la seconda componente tenderà inevitabilmente a prevaricare la prima, sino ad incarnarsi compiutamente nella pratica di una società regolata anche contro gli individui e i cittadini, pronta ad uniformarli all’interno di un progetto autocentrato, ma proprio per questo inefficace e illusorio.

“Concertazioni” che escludono dal concerto gran parte dei protagonisti interessati come nel caso della complicatissima determinazione della rappresentatività sindacale, che da un lato viene spasmodicamente ipernormata mentre, da altri, addirittura poco credibilmente autocertificata, son degni di una borghesia e di una classe dirigente stupide, prima che reazionarie. E di organizzazioni sindacali che, mentre dichiarano d’esser apolitiche, fan di fatto propria la prospettiva di modelli autoritari consunti in cambio di presunte rendite di rappresentanza e posizione.

Questa illusione rischia oltretutto – proprio mentre ci si interroga su come regolamentare i flussi di immigrati provenienti dai paesi più poveri dell’Africa o dalle new entry dell’EST Europa – di render pletorica la discussione sul problema, e di traghettare il nostro paese ai livelli di quei luoghi mentre, come bene scrive Rampini, il nuovo ordine mondiale vien contrattato da altri protagonisti (Usa e Cina…), incuranti dei “cadaveri” che eventualmente dovessero lasciar altrove.

Non stupisce quindi, anche se preoccupa, che le classi dirigenti italiane, che hanno dato così bella prova di se portandoci impassibili all’attuale disastro, non si occupino intelligentemente della cosa in quanto presi dall’occuparsi della “roba”, come direbbe Tremonti, inconsapevoli che - come nella novella del Verga – la si può anche perder tutta la roba e in breve tempo, per quanto ad essa ci si attacchi avidamente.

Preoccupa ancor di più che a questa apparente soluzione si presti – in nome della concertazione o del dialogo tra governo e opposizione determinato dall’emergenza che si mantiene insondabile – chi del conflitto sociale dovrebbe farsi interprete (alcuni settori sindacali e politici), per incanalarlo non nella morta gora dove lo vorrebbero ficcare gli apprendisti stregoni concertativi, ma in direzione del mutamento del modello attuale di sviluppo, che non ha solo il difetto di esser produttore di diseguaglianze ormai insopportabili e foriere di tempeste sociali e degrado civile, ma quello assai più letale di esser impraticabile.

Michelangelo Casiraghi
RSU FLC-CGIL

Gli autori di Vorrei
Michelangelo Casiraghi