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Il segno più davanti al Pil non significa necessariamente vera crescita. Ma forse è proprio il mito della crescita ad ogni costo che bisogna superare, per uno sviluppo più equilibrato e più rispettoso delle risorse, del lavoro e delle persone.

Il suo titolo accademico è professore di Scienze Politiche, all’Università dell’Indiana per la precisione. Ma di mestiere fa l’economista. Il suo nome, Elinor Ostrom, era sconosciuto ai più fino a poche settimane fa, quando è diventata la prima donna a vincere il Nobel per l’economia. E già questo è sintomatico. Ma c’è dell’altro. Ancora più significative, rispetto allo ‘spirito dei tempi’, sono le ragioni del premio: “Ostrom – ha scritto il comitato del Nobel nelle motivazioni – ha messo in discussione l’assunzione convenzionale secondo cui la proprietà comune è gestita male e che dunque deve essere regolata dalle autorità centrali oppure privatizzata”. Nei suoi studi, l’economista americana ha spesso sottolineato il ruolo degli utenti, in molte occasioni bravissimi a sviluppare meccanismi decisionali che portano a risultati brillanti. Insomma, per amministrare le risorse collettive non esistono solo il dirigismo comunista o il capitalismo corsaro. Un’idea di ‘terza via’ per la quale Elinor Ostrom è stata talvolta avvicinata a Barack Obama.

 

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Elinor Ostrom, prima donna Nobel per l'economia

Semplice crisi o cambio di paradigma?

Il Nobel è tradizionalmente un riconoscimento alla carriera. Ma in entrambi questi due casi, si è trattato piuttosto di premi ‘di incoraggiamento’: se l’azione politica di Obama è solo agli inizi, le teorie economiche di Ostrom sono ancora tutt’altro che generalmente accettate dalla comunità scientifica. Dunque, gli accademici hanno voluto lanciare un segnale ben preciso nella direzione di una nuova concezione socioeconomica. È un risultato della famosa ‘crisi’?

 

Forse sì. Sono in molti a sostenere che questa è una crisi anomala e che piuttosto inusuali sono anche i primi segnali di ripresa. Un’anomalia che risiede soprattutto nei quasi indecifrabili rapporti tra economia virtuale ed economia reale. Lo scoppio della bolla dei mutui subprime, infatti, e il conseguente domino che ha fatto cadere una a una istituzioni finanziarie che sembravano invincibili ed eterne, hanno distrutto una ricchezza che di fatto non esisteva nella realtà. Eppure le ripercussioni sull’economia reale sono state disastrose.

 

Ma erano veramente conseguenze del credit crunch? O non si è trattato forse più di una self-fulfilling prophecy, una profezia autorealizzante? Se la crisi finanziaria ha distrutto soldi che non esistevano nella realtà, che non circolavano, che non compravano merci, né finanziavano imprese o cantieri, come si spiega il drammatico crollo della produzione e delle esportazioni, considerando che le risorse reali rimanevano sostanzialmente le stesse? L’economia reale non si è per caso fermata perché si è dato per scontato che si dovesse fermare, come conseguenza della crisi finanziaria?

 

La mappa e il territorio

L’idea che gli strumenti di cui disponiamo in economia non descrivano in maniera adeguata la realtà non è nuova. La mappa, insomma, non rappresenta il territorio, per usare una metafora cara agli psicologi. Da sempre al centro delle polemiche c’è soprattutto il Pil, prodotto interno lordo, in quanto parametro: il Pil è infatti la semplice somma aritmetica del valore aggiunto di tutte le produzioni e i servizi di un Paese. Ma già Robert Kennedy, in un suo famoso discorso del 1968, affermava che “…il Pil comprende anche l'inquinamento dell'aria e la pubblicità delle sigarette, e le ambulanze per sgombrare le nostre autostrade dalle carneficine dei fine-settimana. Il Pil mette nel conto le serrature speciali per le nostre porte di casa, e le prigioni per coloro che cercano di forzarle. Comprende programmi televisivi che valorizzano la violenza per vendere prodotti violenti ai nostri bambini. Cresce con la produzione di napalm, missili e testate nucleari, comprende anche la ricerca per migliorare la disseminazione della peste bubbonica, si accresce con gli equipaggiamenti che la polizia usa per sedare le rivolte, e non fa che aumentare quando sulle loro ceneri si ricostruiscono i bassifondi popolari. Il Pil non tiene conto della salute delle nostre famiglie, della qualità della loro educazione…”.

 

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Bob Kennedy pronuncia il famoso 'discorso sul Pil' il 18 marzo 1968 all'Università dello Utah

 

Ma c’è di peggio. Il concetto di Pil porta infatti quasi automaticamente con sé quello di crescita. Il dato del Pil è considerato positivo se è costantemente in aumento. Cioè presuppone il dogma della crescita infinita. Un dogma neopositivista che poteva andare bene negli anni ’50 del secolo scorso. Ma che oggi si scontra drammaticamente contro la realtà che le risorse non sono infinite e che, con i ritmi attuali, il mondo si avvicina sempre più velocemente all’esaurimento di molte di esse.

 

Sono numerose le alternative proposte dagli economisti negli anni, in particolare, Amartya Sen, Joseph Stiglitz e Jean-Paul Fitoussi, che Sarkozy ha riunito in un’apposita commissione. La commissione ha elaborato 12 raccomandazioni che mirano non tanto a elaborare un nuovo indicatore che sostituisca il Pil, quanto a mettere a punto di statistiche in grado di cogliere il benessere sociale nelle sue molte dimensioni, materiali e non. Un concetto simile sta alla base di Wikiprogress, una piattaforma aperta ai contributi esterni e a disposizione di tutti per lo sviluppo di metodi di misurazione che supportino una autentica evoluzione. Tra i sostenitori di questo modello c’è Enrico Giovannini, neopresidente di Istat ed ex capo statistiche Ocse.

 

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Serge Latouche, teorico della 'decrescita felice'

 

Numerosi sono anche i parametri sintetici proposti in sostituzione del Pil, come il Benessere Interno Lordo (Bil), il Genuine Progress Index (Gpi) e l’Indice di felicità lorda (Fil). L’idea di fondo? Qualità invece di quantità. È l’idea della Decrescita Felice, sostenuta dal francese Serge Latouche e che in Italia ha portato alla nascita di un vero e proprio movimento organizzato. Ma in tutto questo, che fine fanno le aziende? Il valore aggiunto? L’occupazione? Proprio qui starebbe, secondo i sostenitori della nuova concezione socioeconomica, il messaggio della crisi attuale. Una crisi che ha messo a nudo come, più spesso di quanto pensiamo, la ‘crescita’ misurata dai segni più davanti agli indicatori economici classici (e nei bilanci aziendali…) sia illusoria e temporanea. E destinata a infrangersi miseramente quando si scontra contro la realtà.

Del resto, se le risorse sono limitate (e lo sono), la ‘crescita’ non può che essere illusoria. Sarebbe come dire che mangiando fette sempre più fette di una torta, e sempre più grandi, la torta si ingrandisce. Nel senso comune quotidiano non saremmo mai disposti ad accettare un’idea del genere. Eppure lo facciamo tranquillamente quando si tratta dei principi che governano la nostra società. E le nostre vite. Viviamo in un modello che non si fa problemi a parlare apertamente di ‘bisogni indotti’, cioè di far credere alla gente che ha assolutamente bisogno di cose di cui in realtà non ha alcuna necessità. La maggior parte dei beni che acquistiamo non ci servono. La maggior parte del cibo che mangiamo non ci serve. Anzi, l’eccesso di cibo è una delle principali cause di malattia nei paesi sviluppati. In questo modello, lavoro reale e virtualità della finanza, prodotti reali e bisogni indotti diventano intercambiabili ed entrambi cancellabili con un tratto di penna. In una società sostenibile, che abbia un quadro chiaro della realtà (la realtà dei bisogni, delle risorse, del lavoro) probabilmente diventerebbe anche più difficile smontare le aziende e licenziare persone con artifici finanziari completamente slegati dalla realtà economica, come accade oggi. Probabilmente.