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 Un'azienda che chiude per "capitalizzare gli asset". Una straniera laureata, presto sottoccupata. E una neo-famiglia che tira avanti grazie ai genitori di lui.

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ui si chiama Claudio, è italiano, e fino a pochi mesi fa lavorava per una grossa tipografia industriale. Lei è Evelyn, viene dall’Honduras, ha in tasca una laurea presa nel suo paese. Ma qui si accontenterebbe di fare l’assistente in una residenza per anziani: ha fatto il ‘corso ASA’ e ora sta facendo il tirocinio.

Cos’hanno in comune? Sono entrambi trentenni e, soprattutto, sono sposati. Si sono conosciuti mentre Evelyn era in Italia con un visto turistico. Qualche mese di fidanzamento, poi la decisione di sposarsi. Un viaggio a Roma con il papà di lui per velocizzare i documenti ed ecco il matrimonio. Ma, pochi giorni dopo la cerimonia, dall’azienda di Claudio arriva un inaspettato, amaro regalo di nozze: la lettera di licenziamento.

 

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Claudio, ci racconti cosa è successo alla tua azienda? È stata travolta dalla crisi dell’editoria? “È una storia complessa che solo fino a un certo punto ha a che fare con la crisi. Noi il lavoro ce l’avevamo. Stampavamo decine di riviste patinate a grandissima tiratura. Potrei citarti nomi di testate che girano nelle case di tutti gli italiani, ma non voglio fare nomi. Ti accenno solo a una notissima rivista di turismo ambientale e alla più diffusa rivista italiana di giardinaggio, per dirne due a caso. Il problema fondamentale era che si trattava della classica azienda familiare all’italiana: alla morte del titolare-fondatore l’unica figlia e il genero, che si occupano di tutt’altro, hanno chiarito subito che a loro l’azienda non interessava. Da lì è iniziato il declino”.

I conti andavano male? “Ufficialmente l’azienda ha chiesto il fallimento. Ma noi, fino ad aprile, abbiamo ricevuto lo stipendio regolarmente e ci veniva anche chiesto di fare straordinari. Da poco tempo era stato anche acquistato un macchinario nuovo che costa milioni di euro. Non è certo il comportamento di un’azienda che ha problemi finanziari e che sta fallendo. Poi, alla fine di aprile, di punto in bianco ci hanno dato la notizia che con maggio la produzione cessava. È arrivata prima la cassa integrazione, poi il licenziamento”.

Quante persone hanno perso il lavoro? E cosa è successo alla fabbrica? “In produzione eravamo 35, tutti uomini perché il lavoro era piuttosto pesante. Una decina di persone in tutto, poi, rivestiva ruoli amministrativi e impiegatizi. I macchinari – nuovi – sono stati ceduti a un gruppo estero. Di tutto il resto si sta occupando il curatore fallimentare. Comunque, credo che alla fine la cosa che vale di più sia il terreno: probabilmente la fabbrica verrà abbattuta per fare posto a nuovi condomini. E in tutto questo, naturalmente, per via della procedura di fallimento noi il nostro Tfr non l’abbiamo visto”.

E ora come va? Come vivete? “I soldi della cassa integrazione li sto ancora aspettando. Faccio lavoretti saltuari qua e là: la cosa più continuativa che ho trovato è stata, quest’inverno, l’ingaggio come spalatore di neve con il Comune di Milano”.  

 

“Il guaio è che poco prima del matrimonio – interviene Evelyn, in un italiano impeccabile – avevamo comprato casa accendendo un mutuo. Ora come ora la rata ce la pagano i genitori di Claudio, che ci danno una mano anche con la spesa e che molto spesso ci tengono a mangiare da loro. Senza il loro aiuto sinceramente non potremmo proprio farcela in questo momento, e probabilmente la banca si sarebbe già presa la casa”.

E tu, Evelyn, come sei messa con il lavoro? “Ho mandato centinaia di curricula, ma la mia laurea in organizzazione aziendale sembra non interessare a nessuno qua in Italia. Anche se scrivo sempre che ho la cittadinanza italiana e se parlo correntemente l’italiano, l’unica cosa che pare colpire è che sono di origini honduregne. Quando vedono una ragazza sudamericana, pensano subito a badanti e colf. Alla fine mi sono in un certo senso ‘arresa’ al luogo comune e ho colto l’occasione di un corso Asa, Ausiliario Socio-Assistenziale. Non mi piace, ma alla fine del corso gli sbocchi lavorativi sono concreti. Potrò lavorare nelle residenze per anziani, ce ne sono parecchie qua in zona. E, considerando che la popolazione italiana sta invecchiando, è un ‘mercato’, se così si può dire, in crescita”.

 

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Stai riuscendo in qualche modo a contribuire al reddito familiare? “Poco, perché il tirocinio è molto impegnativo e mi lascia poco tempo per lavoretti extra. Sto aspettando di terminarlo per mettermi seriamente alla ricerca di un lavoro fisso.”

Casi come quello di Evelyn e Claudio sono meno infrequenti di quello che si potrebbe pensare: una straniera, ma con cittadinanza italiana, costretta al sottoimpiego perché le credenziali del suo paese qui non valgono nulla. Un’azienda che avrebbe potuto continuare a produrre, ma dove i proprietari hanno preferito cogliere l’occasione della crisi per fare cassa liquidando tutto il liquidabile. La loro peculiarità è che queste due situazioni così comuni nell’Italia del lavoro 2010 si trovano nella stesso nucleo familiare.

E, altro dettaglio sintomatico, anche per loro l’unica rete di solidarietà sociale realmente disponibile è l’aiuto delle famiglie di origine. In questo caso, una sola. Non solo. Poco prima del matrimonio Evelyn era stata raggiunta dalla sorella minore Anita che, venuta per le nozze, voleva fermarsi in Italia e il padre di Claudio si è assunto l’onere di regolarizzarla come propria colf approfittando del decreto. Stanno ancora aspettando i documenti.

 

 

Le immagini di questo articolo sono tratte da "In questo mondo libero" di Ken Loach


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