Risorse alimentari, distribuzione e speculazione. Brevetti. Omologazione e importanza della biodiversità. L’habitat rurale e il suo paesaggio. I mercati e la politica agricola comunitaria. E noi davanti a tutto questo cosa possiamo fare?
L
e sfide dell’agricoltura. Titolo impegnativo, perché parlare di agricoltura, a parere di chi scrive, vuol dire parlare di infiniti aspetti del nostro vivere e delle basi della vita stessa. Prendete la fotosintesi, per esempio: il più straordinario processo in natura capace di rendere organico qualcosa che non lo è. La pianta prende la luce del sole, l’anidride carbonica e i minerali e ne ricava zucchero - glucosio, per la precisione – e ossigeno. Capite che se tutto questo grande gioco sta in piedi è per merito di quella piccola grande magia. Ed è da lì, dalla fotosintesi, che muove i suoi passi anche il mondo agricolo.
In ogni plaga del mondo, là dove c’è vita, esistono sedimentate forme dell’agricoltura, ognuna espressione della sintesi tra territorialità - le forme e le caratteristiche del territorio - e l’ingegno di chi quella terra ha deciso di affrontarla. Se ne deduce che il nostro rapporto con la terra (e con i suoi prodotti) sia determinante del nostro modo di vivere e ci dica qualcosa riguardo la nostra identità.
Queste quattro righe di premessa solo per tentare di dare una dimensione al nostro oggetto d’analisi: la chiave della vita e delle nostre identità. Qualcosa da trattare con grande cura, insomma.
Senza la consapevolezza di cui sopra sarebbe difficile portare lucidamente al pettine i nodi - le sfide, appunto - più importanti che l’agricoltura dovrà sciogliere nei prossimi anni. Perché parlare di prospettive per l’agricoltura significa prima di tutto individuarne i problemi, per poi andare oltre.
Di seguito tenteremo di delineare mediante alcuni flash le principali criticità che interesseranno noi e il nostro modo di produrre e consumare cibo.
Bruegel Il Vecchio, "Il campo di grano" (dettaglio), 1565, Metropolitan Museum of Art, New York
Risorse alimentari, distribuzione e speculazione
Uno di questi, probabilmente il più importante, è l’iniqua distribuzione delle risorse sul pianeta. Che il 20% della popolazione terrestre consumi l’80% delle risorse lasciando all’altro 80% le briciole è intuitivamente il primo dei problemi a cui la nostra società deve una risposta. Ad oggi – ultimi dati FAO - 250 milioni di persone rischiano di morire di fame e 850 milioni vivono in condizioni di sottonutrizione.
Al di là degli aspetti strettamente connessi alla distribuzione sono spesso il protezionismo dei paesi ricchi e attività di tipo speculativo che aggravano la situazione e affamano vasta parte del pianeta: si vedano le ingenti quantità di prodotti europei mandati al macero, l’utilizzo del 40% delle terre agricole per produrre cibo per l’alimentazione animale, le crescenti quote di terreni destinati alla produzione di cereali per la produzione di biocarburanti o l’occupazione di terreni agricoli per l’installazione di pannelli fotovoltaici (quest’ultimo fenomeno recentemente ha interessato anche il nostro paese).
A partire dagli anni Novanta e via via in modo più intenso, l’agricoltura ha iniziato ad allontanarsi dal suo scopo principale: produrre cibo per sfamare l’uomo, sostituendo a questo (sano) principio l’esigenza di produrre reddito. Questo cambiamento ha portato a considerare la terra come una merce, qualcosa su cui è stato sempre più possibile speculare. Questo modello commerciale ha diffuso ed è stato supportato a sua volta dall’espansione di un sistema agricolo intensivo, combinazione che ha esteso le grandi monoculture, incrementato gli usi non-alimentari di parte dei prodotti della terra, ha promosso la quotazione in borsa delle commodities agricole. Un esempio, è quello della soia: cereale riservato a pochi villaggi contadini fino a venticinque anni fa, oggi tra i cereali più coltivati nel mondo. Nei granai globali si sono registrate contrazioni della produzione di cereali come frumento, orzo e mais, che hanno lasciato spazio alla soia, coltivata sempre più per il suo uso non-alimentare (spesso a seguito di campagne di sovvenzionamento, come nel caso di molti stati sudamericani). Questo ovviamente ha causato un duplice effetto, da un lato si è ridotta la quantità di cereali dedicata all’alimentazione umana, dall’altra si sono alzati i prezzi delle granelle: entrambi i fenomeni hanno avuto intuibili ripercussioni sulla possibilità di approvvigionamento dei cereali da parte dei paesi più poveri.
In una recente intervista Jeremy Rifkin - che non manca mai d’essere pensatore alternativo e provocatorio - ha affermato che per risolvere i problemi del clima e della fame nel mondo basterebbe smettere di mangiare carne e darsi a una dieta di tipo mediterraneo. L’economista statunitense ha duramente attaccato l’uso di spazi agricoli per usi non direttamente dedicati all’alimentazione umana, come la produzione di foraggi per il bestiame o, appunto, l’uso delle terra per produzioni destinate alla produzione di carburanti e simili.
Brevetti
Un secondo problema che, ormai da anni, riempie abbondantemente il dibattito internazionale è quello legato alle agrobiotecnologie.
La soia, coltivata in vaste aree del Sud America e degli Stati Uniti, a cui si faceva riferimento nel precedente paragrafo, ad esempio, è prevalentemente transgenica. Questo non comporta un rischio per la nostra salute, come da più parti si afferma, ma seri problemi economici per gli agricoltori che, rifornendosi di sementi brevettate, perdono la proprietà delle piante e dei semi prodotti, che resta nelle mani delle poche multinazionali agro-farmaceutiche. In questo modo, l’agricoltore deve ricomprare ogni anno la semente per ottenere l’autorizzazione a coltivare le piante (coperte, appunto, da brevetto) e inoltre si vede costretto ad utilizzare le preparazioni chimiche della stessa casa farmaceutica che per solito predispone contratti che vincolano l’agricoltore all’utilizzo dei propri trattamenti fitoiatrici (un esempio entrato ormai in letteratura è quello del mais Mon-810 della Monsanto, che deve essere trattato con il solo erbicida ‘Round-up’ prodotto dalla stessa casa). Il fatto di avere un solo antiparassitario con cui trattare piante omogenee tra loro comporta uno sviluppo della resistenza dei patogeni, che si specializzano attaccando più efficacemente le colture e richiedendo stagione dopo stagione trattamenti fitoiatrici più massicci.
Omologazione e importanza della biodiversità
Ma non è tutto. Le colture ogm uniformano le varietà coltivate a livello mondiale, questo oltre che a impoverire irreparabilmente il patrimonio genetico vegetale, crea fragilità strutturali negli agro-ecosistemi che, così semplificati, potrebbero perire in massa davanti alla diffusione di un nuovo patogeno, causando danni ingenti per molte realtà agricole.
Allo stato attuale su 350.000 specie di piante esistenti sulla superficie terrestre solo meno di 300 (pari a 0,1%) sono usate correntemente per l’alimentazione a livelli mondiale. In questi ultimi decenni sono già scomparse molte piante che durante i secoli avevano caratterizzato i paesaggi agrari regionali di tutto il mondo.
Peraltro, la diffusa convinzione che sistemi monoculturali abbiano rese superiori rispetto ai modelli agricoli tradizionali non è sempre verificata. David Tilman, agro-ecologo statunitense tra i più ativi nella ricerca relativa alla diversità ecologica, ha comprovato in questi anni che una maggiore biodiversità all’interno dell’ecosistema ha ricadute positive sulla stabilità, la produttività e la regolazione dei cicli all’interno dell’ecosistema stesso e che, nel lungo periodo, in contesti di maggior diversità e competizione si può ottenere un aumento della biomassa prodotta, rispetto ai risultati delle stesse essenze coltivate in monocoltura.
L’habitat rurale e il suo paesaggio
Oltre alle essenze vegetali con fine commerciale, l’avvento dell’agricoltura intensiva ha determinato una perdita delle innumerevoli varietà, che pur non facendone direttamente parte, costituivano il paesaggio agrario tradizionale: aceri campestri, olmi, gelsi, siepi, un tempo riccamente diffusi nella campagna italiana, ad esempio, sono oggi meno presenti, quando non del tutto scomparsi, per le esigenze legate alla crescente meccanizzazione.
Un altro problema è quello della fauna selvatica che popola - o vive in stretta affinità con - l’ecosistema agrario. La riduzione negli anni di quegli spazi in cui le specie selvatiche trovavano riparo per la vita e la riproduzione, mette a rischio un grande numero di specie di uccelli: secondo dati L.I.P.U. il 50% delle specie volatili a rischio vive attualmente in ambiti rurali. A metà degli anni ’90 su iniziativa di Birdlife International fu censita interamente la situazione degli uccelli europei. I risultati di questa iniziativa sono stati raccolti nel libro: “Birds in Europe: the conservation status”, in cui vengono censite ben 135 specie (il 38% del totale delle specie europee) in cattivo stato di conservazione di cui la maggior parte abitano paesaggi rurali.
I mercati e la politica agricola comunitaria
Da ultimo, un problema a scala continentale, che si potrebbe sintetizzare così: la comunità europea spende metà del suo bilancio per sostenere l’agricoltura, che conseguentemente risulta come uno dei settori più protetti del pianeta. E questo con buona pace del WTO e di tutti gli altri stati che in questi anni hanno richiesto una maggiore apertura dei mercati.
Davanti a questo panorama si pone una duplice problematica per i sistemi agricoli mondiali: da una parte naufragano gli ex-sistemi coloniali ancora legati ai flussi delle importazioni occidentali (e oggi cinesi), sistemi quindi non auto-sufficienti e con destini fragili legati all’andamento dei mercati; dall’altra parte, resistono i mercati occidentali iper-protetti, come quello statunitense o quello della UE.
Durante un’intervista che realizzammo qualche mese fa, Alfredo Somoza, presidente dell’ICEI, ci disse: “siamo arrivati a questo punto perché la politica ha perso il controllo sulla dimensione economica, e non essendo gli attori economici un’emanazione democratica, ma un piccolo gruppo di gestori di interessi privati, essi hanno utilizzato la terra non più come patrimonio per la produzione di cibo, ma come fonte di speculazione e guadagno rapido. L’unico modo per porre freno a questi meccanismi economici, che non rispettano l’uomo e, al contempo, infrangono qualsiasi regola del libero mercato, sarebbe quello di concordare a livello transazionale regole chiare e condivise, capaci di riordinare i flussi all’interno di un orizzonte di riferimento comune. Servirebbe insomma un risveglio della politica e la rottura del suo confinamento entro confini nazionali”.
Bene. E noi davanti a tutto questo cosa possiamo fare?
Questi problemi sono molto più grandi di noi e risulta facile lasciar perdere qualsiasi ragionamento complessivo.
Da un lato, come auspicato da Somoza, dobbiamo necessariamente attendere che il lavoro politico porti a prospettare soluzioni concordate a livello globale. Certo, partendo dalle evoluzioni della politica agricola comunitaria europea, negli ultimi vent’anni abbiamo assistito a numerosi proclami da parte dei vari commissari all’agricoltura che si sono risolti in modeste variazioni d’uso all’interno della quota di bilancio riservata all’agricoltura europea, senza una sostanziale variazione della stessa, che rimane enorme.
D’altro canto, proprio in ragione della territorialità che caratterizza ogni singolo sistema agricolo è necessario individuare soluzioni di volta in volta adatte al contesto. Per intenderci, non sarà la Brianza a risolvere i problemi della fame nel mondo, ma potrebbe essere questo un piccolo laboratorio per l’agricoltura di prossimità (a questo tema dedichiamo un articolo del nostro dossier).
Infine, non ci resta che dare i giusti significato e importanza alle scelte che compiamo quotidianamente: possiamo agire a livello locale incominciando a incentivare la filiera corta, i gruppi di acquisto, il commercio equo, le forme di agricoltura periurbana. Questo significa scegliere di fare parte della propria spesa rifornendosi direttamente dagli agricoltori della zona, preferire alimenti di cui conosciamo storia e produzione o prodotti che rispettano maggiormente l’ambiente, sostenere l’azione di associazioni che si occupano di agricoltura e ambiente, chiedere alle istituzioni sempre maggiori spazi ed incentivi riservati all’agricoltura locale.
Non sarà il solo “gesto” ad essere rilevante: ognuno di questi piccoli passi porta con sé la diffusione di una cultura che alla lunga – la storia lo ha dimostrato altre volte - la vince: quel che anni fa sembrava impensabile o pareva essere utopia di qualche minoranza oggi lo ritroviamo sottoforma di legge nazionale o comunitaria: si pensi, ad esempio, alle forme di agricoltura sostenibile o alla raccolta differenziata dei rifiuti.
Prima la società, insomma: i primi ad agire dobbiamo essere noi, con le nostre iniziative e la nostra capacità di consumo critico.