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Per una impresa, una delocalizzazione può determinare una distruzione creativa a saldo positivo, consentendone la sopravvivenza e lo sviluppo, ovviamente con una redistribuzione a favore dell’economia e dell’occupazione del nuovo insediamento, e a danno del precedente. Ma la redistribuzione, ci ricorda Marchionne, non è cosa che riguardi il mercato e l’impresa.

 

La vicenda Fiat mi fa ripensare a un libro del  1996, scritto da F.F. Reichheld, allora presidente della Bain & Company, una delle più importanti società di consulenza d'impresa, dal titolo "The Loyalty Effect", tradotto  approssimativamente  in italiano  con "Il fattore fedeltà".

La tesi era semplice:  il successo di una impresa è legato ad una equilibrata  soddisfazione di tutti gli stakeholder, gli "aventi una posta"  nell'impresa. Funziona così: offrendo un "valore superiore" ai clienti, una impresa attrae clienti più numerosi e più leali. Con la crescita, l'impresa è in grado di aumentare il numero e la lealtà  dei  collaboratori. Questo porta a una maggiore produttività e consente salari più alti. La maggiore produttività determina  vantaggi di costo, e permette di offrire ai clienti un valore ancora superiore. Il minor costo genera maggiori profitti,  e questi attraggono investitori (azionisti) soddisfatti e leali,  rendendo possibili maggiori investimenti con cui offrire ai clienti un valore ancora maggiore. E così via.

L'autore non è un economista  accademico, ma uno  che era giunto a queste conclusioni sulla base delle consulenze prestate ai maggiori gruppi economici del mondo.

Marchionne sembra pensarla in un altro modo. In un discorso del 2007 sulle politiche industriali, egli ha affermato:

"I modelli statici del passato... non sono molto utili quando affrontano la turbolenza e la velocità del mercato globale di oggi. Il vantaggio competitivo si estingue presto. Prestazioni superiori, o semplicemente la sopravvivenza, appartengono solo a chi ha il coraggio e la resistenza di cambiare in continuazione la sua posizione per trovarsi un passo avanti".

Nello stesso discorso Marchionne cita la famosa frase di J.A. Schumpeter: "Il  processo del cambiamento industriale rivoluziona continuamente la struttura economica, distruggendo la vecchia e creandone una nuova. Questo processo di Distruzione Creativa rappresenta l’essenza stessa del capitalismo". Marchionne conclude: "Il ruolo dei mercati nel mondo di oggi è semplicemente quello di permettere l’efficiente ingresso ed uscita di concorrenti e di prodotti. I mercati funzionano così, senza uno scopo etico, senza esitazioni e senza coscienza".

In realtà, le tesi di Reichheld e di Marchionne non sono necessariamente in contrapposizione.

La distruzione può essere effettivamente creativa, determinando un saldo positivo tra ciò che si distrugge e ciò che si crea. Ma può avere anche un saldo negativo. Ad esempio, il declino dell’Italia dimostra che, tra distruzione e creazione, la somma algebrica può essere minore di zero.

Per una singola impresa, una delocalizzazione può determinare una distruzione creativa a saldo positivo, consentendone la sopravvivenza e lo sviluppo, ovviamente con una redistribuzione a favore dell’economia e dell’occupazione del nuovo insediamento, e a danno del precedente. Ma la redistribuzione, ci ricorda Marchionne, non è cosa che riguardi il mercato e l’impresa.

Ma, sempre dal punto di vista di una singola impresa, c’è un’altra distruzione creativa, e lo dice lo stesso Marchionne: quella delle imprese capaci di stare un passo avanti alle altre. Moltissime imprese dimostrano di esserlo, soprattutto nei settori del futuro (informatica, energie alternative) ma non solo. Queste imprese realizzano una continua distruzione e creazione di strutture e prodotti innovativi, e così facendo crescono, creano ricchezza e aumentano contemporaneamente produttività e occupazione.

La Fiat è tra queste? Al momento attuale, non sembrerebbe. O se lo fosse, sarebbe il caso che ce lo facesse sapere. Leggiamo ogni giorno pubblicità di case automobilistiche che vantano innovazioni tecnologiche, come la Renault che denuncia lo spionaggio industriale sui suoi cento o duecento brevetti per l’auto elettrica. Da questo sappiamo che la Renault è lanciata nel futuro. La Fiat non dà segnali in questo senso, e anzi si rifiuta di farlo con la scusa del segreto industriale!

Dire di voler dedicare Mirafiori a prodotti di alta gamma, come Alfa Romeo e Jeep potrebbe essere il segnale di una strategia, se non si leggesse anche che Marchionne, a determinate condizioni, sarebbe disposto a vendere l’Alfa Romeo!

Comunicare la visione del futuro e le prospettive dell’impresa è fondamentale se si vuole motivare tutti i suoi stakeholder, a partire da clienti e collaboratori per finire ai finanziatori.

E’ giusto ricordare che Marchionne ha contribuito anni fa a salvare la Fiat, che era sull’orlo della bancarotta. Ma ora sembra ubriacato del proprio successo, e dimentichi che la leadership, di cui è un grande assertore, diventa vana senza le capacità e le motivazioni di coloro che seguono il leader (e con questo torniamo allo ”effetto lealtà” di Reichheld). Un domatore non è un leader, anche perché gli esseri umani sono un po’ meno stupidi dei leoni.

Un’ultima cosa, ma non la meno importante. E’ vero che i mercati fanno il loro mestiere, e che non si può chiedergli di più. Ma di quel “di più”, che significa solidarietà, sostegno a chi subisce la magnifica “distruzione creativa”, taglio di mani rapaci, c’è una assoluta necessità. E chi può soddisfarla è solo qualcosa che sta sopra il mercato, che deve dominarlo, e che si chiama Stato.

Ed è proprio questo che manca vistosamente nella vicenda Fiat. Non si tratta di fare operazioni indecenti come quella dell’Alitalia, per la quale si sono sperperati milioni di euro dei contribuenti. Si tratta di creare le condizioni di contorno perché chi lavora nella Fiat come in altre imprese italiane e straniere possa considerare la propria impresa e il nostro Paese come luoghi dove è bello vivere e lavorare.

A questo scopo, ci sono cose da fare subito, come forti contributi alla ricerca, il trasferimento del peso fiscale dai lavoratori e dalle imprese alle rendite finanziarie, la riforma della legislazione sul lavoro che agevoli il cambiamento e la mobilità senza farne una precarietà, una giustizia che funzioni (altro che la divisione delle carriere dei pubblici ministeri!).

Un impegno “da subito” a fare queste riforme vere restituirebbe un minimo di speranza al Paese, ai lavoratori della Fiat, alle nuove generazioni.

Gli autori di Vorrei
Giacomo Correale Santacroce
Giacomo Correale Santacroce

Laureato in Economia all’Università Bocconi con specializzazione in Scienze dell’Amministrazione Pubblica all’Università di Bologna, ha una lunga esperienza in materia di programmazione e gestione strategica acquisita come dirigente e come consulente presso imprese e amministrazioni pubbliche. È autore di saggi e articoli pubblicati su riviste e giornali economici. Ora in pensione, dedica la sua attività pubblicistica a uno zibaldone di economia, politica ed estetica.

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