Ogni giorno sentiamo ripetere che per superare la crisi mondiale occorre rilanciare la crescita. Ma come si concilia questo imperativo con i limiti indiscutibili delle risorse del pianeta?
Il problema economico del giorno, il mantra che sentiamo ripetere ogni giorno, è: la crescita. Come ricominciare a crescere, unica via per uscire dalla crisi?
Ho appena finito di rileggere il Breve trattato sulla decrescita serena di Serge Latouche (Bollati Boringhieri, 2008. La seconda lettura di un libro ha, rispetto alla prima, un moltiplicatore dieci per la sua comprensione).
La domanda è ovvia: come si concilia l’esigenza della decrescita (o, come propone in realtà lo stesso Latouche, della semplice non-crescita), imposta dai limiti delle risorse del pianeta, con l’urgenza della crescita, imposta dalla necessità di garantire adeguati livelli di occupazione, salari, servizi sociali come scuola, sanità, alimentazione, abitazione? In sostanza, come modificare il metabolismo insito nel capitalismo senza causare un ictus al sistema sociale?
Latouche propone una ricetta basata su otto “erre”: rivalutare, riconcettualizzare, ristrutturare, ridistribuire, rilocalizzare, ridurre, riutilizzare, riciclare.
. Egli considera la sua proposta come una “utopia concreta”. Utopia, rispetto allo “immaginario della crescita” che è la cultura dominante dalla rivoluzione industriale in poi (gli ultimi due secoli). Concreta, perché il dominio di questa vecchia cultura non può continuare all’infinito.
Giustamente, Latouche rifiuta anche concetti come quello dello “sviluppo sostenibile”. Perché lo sviluppo (inteso come crescita quantitativa, e non qualitativa) è di per sé insostenibile.
Forse il difetto delle argomentazioni di Latouche è soprattutto verbale. Ha fatto male prima di tutto ad accettare, come dichiara egli stesso a fini puramente editoriali, la parola “decrescita” al posto di “a-crescita”, che esprime correttamente il suo pensiero.
Ma lo stesso concetto di acrescita reca un significato negativo, di staticità, di inazione o di azione negativa, che contrasta con uno degli istinti costitutivi della natura umana: quello della ricerca, del movimento, del cambiamento.
Io credo allora che il cambiamento fondamentale, auspicabile e possibile, non consista nel passaggio dall’immaginario della crescita all’immaginario della non crescita, bensì dal primo a un immaginario dello equilibrio dinamico (o della omeostasi, nei termini della teoria dei sistemi).
La storia dell’umanità, ma anche della natura, ci fornisce un continuo fluire di esempi: la natura, con i cambiamenti ambientali e la continua nascita e scomparsa di specie animali e vegetali; l’umanità, con le sue realizzazioni: un esempio per tutti: il passaggio dalle carrozze a cavalli alle automobili, che ha determinato un cambio radicale del modo di vivere, oltre alla scomparsa dei maniscalchi e la moltiplicazione dei meccanici.
Il problema sta nel fatto che sinora queste trasformazioni sono avvenute per lo più in modo incontrollato, anche perché le risorse disponibili, rispetto alla popolazione globale, apparivano infinite, o comunque il loro sfruttamento o degrado non costituiva un problema.
Oggi le cose sono cambiate, e la cultura della crescita rischia di portarci all’estinzione. Occorre allora, ed è possibile oltre che necessario, gestire l’equilibrio dinamico. Il che può significare crescita in certi casi e luoghi, e decrescita (o scomparsa) in altri casi e luoghi.
In questa logica le otto “erre” di Latouche acquistano un senso che l’autore forse ha supposto implicito.
Tornando a noi, all’attualità, e al mantra della crescita per battere la crisi, non si dovrebbe più parlare di crescita in assoluto. Bisogna superare le vecchie teorie macroeconomiche dell’economia neoclassica, secondo cui per superare una crisi occorre promuovere la domanda “aggregata” basata su impieghi indiscriminati (magari costruendo nuove autostrade e incentivando la produzione di automobili), purché generino la crescita del PIL (altro dato aggregato). Occorre invece articolare gli interventi, in primo luogo agevolando le attività realmente produttive e rendendo meno convenienti gli impieghi in attività non produttive (che generano rendite e redistribuzioni inique della ricchezza, come la finanza speculativa), o addirittura distruttive come la produzione bellica o la criminalità organizzata.
Ma occorrerebbe anche andare oltre questa distinzione in grandi categorie teoriche, discriminando ciò che va agevolato o ostacolato magari nello stesso settore (ad esempio, in Italia, favorendo l’energia solare ma non quella eolica, data la scarsità di vento nel nostro Paese, la cementificazione del paesaggio che essa comporta e le inflitrazioni della criminalità organizzata nel settore).
C’è una espressione in lingua inglese (usata da noi perché pochi la capiscano) che contiene in embrione una strategia di questo tipo, per quanto riguarda la spesa pubblica: lo “spendind review”, che in italiano suonerebbe “selezione della spesa”. Si riferisce a una pratica, che sembra sia stata avviata in altri paesi ma non nel nostro, mirata a un sistematico vaglio della spesa pubblica per eliminare gli sprechi e gli impieghi inutili o poco utili di risorse.
Ma questa strategia selettiva dovrebbe improntare tutta la politica economica, e non solo quella della spesa pubblica. E non solo a livello nazionale, bensì a livello internazionale e tendenzialmente globale. Penso alla Tobin Tax, cioè alla tassazione delle rendite finanziarie, che può essere attuata solo in modo globale o quanto meno dai maggiori paesi, per rendere impossibile o costosa la fuga dei capitali (la tassa dovrebbe andare di pari passo con l’eliminazione dei cosiddetti “paradisi fiscali”). Ma si dovrebbe pensare anche alla possibilità di una applicazione universale del vecchio slogan “lavorare meno, lavorare tutti”, cioè dei limiti agli orari di lavoro di cui nessuno parla più, riducendo drasticamente le ore di lavoro salariato.
Un guru delle strategie d’impresa, Michael Porter, diceva che “la strategia consiste nello scegliere tra una alternativa e un’altra... L’essenza della strategia sta nello scegliere che cosa non fare”
Forse, praticando sistematicamente la strategia dell’equilibrio dinamico, non solo si realizzerebbe l’obiettivo della acrescita, ma si renderebbe meno rilevante il PIL in quanto indicatore del solo sviluppo economico, a favore di indicatori più mirati sullo sviluppo umano e sociale.
Due considerazioni finali, ma decisive:
1. Gestire l’equilibrio dinamico significa accettare, e gestire, grandi spostamenti di persone da una attività a un’altra. Significa accettare, e gestire, la scomparsa di imprese e strutture pubbliche obsoleti e favorirne altri. Significa quindi una politica del lavoro non più della sicurezza “dalla culla alla bara” (il welfare state) bensì della gestione dell’insicurezza, del cambiamento e del rischio, evitandone la degenerazione in precarietà, esclusione e miseria. Una politica che implichi anche sacrifici temporanei e sopportabili, ma che offra prospettive di tempi migliori, di autorealizzazione dei cittadini (non più sudditi) in una vita meritevole di esser vissuta.
- La strategia dell’equilibrio e della acrescita implica l’esistenza di molti nemici, e molto potenti: i detentori di privilegi e monopoli, gli attori della finanza speculativa, la criminalità con con tutti i suoi tentacoli nell’economia e nelle istituzioni. Per batterli, occorre acquisire alleati altrettanto potenti e superarli in intelligenza.