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Le sintesi degli interventi di Francesco Gesualdi e di Paolo Cacciari


Intervento di Francesco Gesualdi

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Francesco Gesualdi (Scrittore, collaboratore di Altreconomia e Co-fondatore Rete Lilliput)

 

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er molti anni abbiamo creduto che fosse possibile risolvere la piaga dell’ingiustizia mondiale portando tutti gli abitanti del pianeta al nostro stesso tenore di vita. Ma alcuni segnali ci stanno ricordando che si tratta di un sogno impossibile. Il pianeta Terra non tiene il passo con i nostri ritmi di consumo perfino nell’ambito dei prodotti rinnovabili: consumiamo pesce ad una velocità superiore del 30% alla capacità di rigenerazione dei mari, tagliamo più foreste di quante ne ripiantiamo, consumiamo più prodotti agricoli di quanti ne raccogliamo. Gli inglesi lo hanno battezzato overshoot day, il giorno del sorpasso, nel 2011 è caduto il 23 settembre. Quel giorno la nostra voracità ha superato la capacità di rigenerazione della Terra. Finiti i frutti, chiuederemo l’anno a spese del “capitale naturale”: invece che vitelli abbiamo cominciato ad abbattere mucche, invece che pesci figli, abbiamo mangiato pesci madre, invece che raccolti agricoli, abbiamo consumato i semi. Di questo passo fra il 2030 e il 2040 avremo bisogno di due pianeti solo per le risorse rinnovabili.

È stato calcolato che se volessimo estendere a tutto il mondo il tenore di vita degli americani ci vorrebbero cinque pianeti: uno come campi, uno come oceani, uno come miniere, uno come foreste, uno come discarica di rifiuti. Noi non abbiamo quattro pianeti di scorta, con questo unico pianeta dobbiamo raggiungere due obiettivi fondamentali: dobbiamo lasciare ai nostri figli una Terra vivibile e dobbiamo consentire agli impoveriti di uscire rapidamente dalla loro povertà. Noi siamo sovrappeso, ci farebbe bene dimagrire, ma loro non hanno ancora raggiunto il peso forma, per vivere dignitosamente hanno bisogno di mangiare di più, vestirsi di più, curarsi di più, studiare di più, viaggiare di più. E lo potranno fare solo se noi, i grassoni, accettiamo di sottoporci a cura dimagrante perché c’è competizione per le risorse scarse, per gli spazi ambientali già compromessi. La morale della favola è che non si può più parlare di giustizia senza tenere conto della sostenibilità, l’unico modo per coniugare equità e sostenibilità è che i ricchi si convertano alla sobrietà, ad uno stile di vita personale e collettivo, più parsimonioso, più pulito, più lento, più inserito nei cicli naturali.

La sobrietà ci fa paura, ma non significa ritorno alla candela o alla morte per tetano. Sobrietà non va confusa con miseria, come consumismo non va confuso con benessere. In sintesi la sobrietà si può definire come il tentativo di soddisfare i nostri bisogni cercando di usare meno risorse possibile e di produrre meno rifiuti possibile. Un obiettivo che si raggiunge più sul piano dell’essere che dell’avere. Uno stile di vita che sa distinguere tra bisogni reali e quelli imposti, che si organizza a livello collettivo per garantire a tutti il soddisfacimento dei bisogni umani con il minor dispendio di energia, che dà alle esigenze del corpo il giusto peso senza dimenticare le esigenze spirituali, affettive, intellettuali, sociali.

Molti abitanti dei paesi ricchi stanno sperimentando la sobrietà e stanno constatando che non solo è possibile, ma addirittura conveniente. Non tanto per il portafogli, quanto per la qualità della vita. Per troppo tempo abbiamo accettato l'idea che il benessere si misura con le quantità di cose che gettiamo nel carrello della spesa, ma questo non è benessere è benavere. Ma il vero benessere è quella situazione in cui tutte queste dimensioni sono soddisfatte in maniera armonica. Ed è bene insistere sul concetto di armonia perché se perseguiamo una sola di questa entriamo in rotta di collisione con tutte le altre. Noi lo constatiamo tutti i giorni su noi stessi: per comprare molto, abbiamo bisogno di molti soldi, per guadagnare molti soldi passiamo molto tempo al lavoro. Ci si affanna, si corre, si maledice il tempo che scappa. Otto ore di lavoro non bastano più, è necessario fare lo straordinario. Le ore passate fuori casa crescono, non c’è più tempo per noi, per il rapporto di coppia, per la cura dei figli, per la vita sociale. Bisogna andare di fretta. Compaiono le insonnie, le nevrosi, le crisi di coppia, i disagi tenuti a bada con le sostanze. Il 39% degli europei dichiara di sentirsi stressato. Cresce la microcriminalità dei giovani abbandonati a se stessi, cresce la solitudine dei bambini che si gettano nelle braccia della televisione.

Quando le parole sono logore vanno cambiate. Ed ecco il benvivere, un termine coniato dagli indios dell'America Latina, che sta a indicare una situazione di armonia con se stessi, con gli altri, con la natura. Un obiettivo che non dipende tanto dalla disponibilità di risorse, quanto dalle formule organizzative dell’abitare, del lavorare, del fare comunità, del prendersi cura dell’ambiente. Per benvivere in città serve verde, centri storici chiusi al traffico, piste ciclabili, trasporti pubblici adeguati, piccoli negozi diffusi, punti di aggregazione. Per beneabitare servono piccoli condomini con spazi e servizi comuni che favoriscono l’incontro. Per benlavorare servono piccole attività diffuse sul territorio per evitare il pendolarismo e favorire la partecipazione. Per benrelazionarsi servono tempi di lavoro ridotti, pause televisive, tranquillità economica, per favorire il dialogo e la distensione familiare. Tutto ciò non richiede barili di petrolio, ma scelte politiche.

 

 

 

Conferenza Decrescita e Cooperazione
Venerdì 9 Dicembre, Sala E, Urban Center, Via Turati 6, Monza MB

Intervento di Paolo Cacciari

La 3° Conferenza sulla decrescita

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Paolo Cacciari (Esperto e scrittore di Decrescita ed ex parlamentare)


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al 19 al 23 settembre del prossimo anno approderà in Italia, a Venezia, la 3a Conferenza internazionale sulla decrescita, la sostenibilità ambientale e l’equità sociale. Preceduta da una intenso calendario di iniziative preparatorie (www.venezia2012.it) che comprende anche un appuntamento panamericano a Montreal (www.degrowth.net). Già le precedenti conferenze di Parigi e Barcellona e il successo dell’editoria che tratta del tema, grazie soprattutto, in Italia, ad autori come Serge Latouche e Maurizio Pallante, hanno dimostrato quanto inaspettatamente grande sia l’attenzione verso un pensiero dichiaratamente eretico, programmaticamente provocatorio in una fase di recessione in cui la “crescita” è invocata come la madonna, guaritrice di tutti i mali. Il programma della conferenza è articolato su diversi assi tematici (commons, work, democracy) e si propone di far dialogare tra loro saperi esperti, tecnici, accademici e saperi esperenziali, diffusi. Il tentativo è mettere a confronto le buone pratiche con le buone teorie. Promotori sono le associazioni che da anni si occupano di decrescita, a partire dall’istituto Research& Degrowth, tra i cui animatori c’è Martinez Alier, due università (l’Istituto di Architettura di Venezia e l’Università di Udine), il Comune di Venezia, l’Arci, Kuminda e associazioni locali. Già le modalità dell’organizzazione dell’evento vogliono essere improntate alla auto-organizzazione (workshop, forum, poster sono tutti selezionati tramite avvisi pubblici aperti a chiunque voglia concorrervi) e alla sostenibilità. Il gruppo dei Bilanci di Giustizia curerà la certificazione delle spese, comprese quelle dei partecipanti e si conta su un autofinanziamento completo. Un ampio elenco di organizzazioni partner (dalla Lav ad Emergency, dagli ecofilosofi ai comuni virtuosi, dai produttori biologici ai centri sociali) garantiranno quell’indispensabile clima di conviviale accoglienza che distingue gli “obiettori della crescita”. Due serate plenarie saranno dedicate alle reti dell’economia solidale, a quelle esperienze, cioè, che meglio riescono a declinare la decrescita sul terreno della pratica trasformazione dal basso delle strutture sociali: gruppi di acquisto, banche del tempo, monete locali, microcredito, orti urbani, last minute market, ecovillaggi, welfare di prossimità, mediattivisti open source, varie forme di condivisione della mobilità dolce, autoproduzione, filiere corte, nuove forme di governo partecipato dei beni comuni… insomma, le innumerevoli attività che forniscono beni e servizi relazionali “not for money”.

La sfida che si è data la Conferenza è rendere comprensibile, finanche auspicabile e desiderabile una inversione di marcia completa dell’economia oggi dominante. Ovvero, riuscire a ricacciare indietro quel processo di “autonomizzazione dell’economia dalla società e dalla politica”, che già sessant’anni fa Karl Polanyi individuava come il principale pericolo cui sarebbe andata incontro la società contemporanea. Oggi la “crisi sistemica” in cui si è cacciato il “Primo mondo”, da un lato necessita, dall’altro rende sempre più drammatico un cambiamento strutturale sia dei modelli economici sia di quelli mentali che hanno fin qui sorretto il nostro “agire tecno-economico” (Ulrich Beck). Insomma, appare evidente che la profondità delle crisi multifattoriali che si accavallano e si amplificano a vicenda (finanziaria, economica, energetica, climatica, ambientale, istituzionale…) richiede qualcosa di più che la stanca riproposizione di vecchie ricette di politiche macroeconomiche già sperimentate in tempi passati. Un precursore del pensiero della decrescita, Cornelius Castoriadis, affermava più o meno che ogni essere umano possiede in radice, nella sua psiche, una originale, irriducibile capacità di immaginazione libera da ogni conformità, un germe di autonomia. Se questa capacità trova il modo di realizzarsi collettivamente allora nasce un “immaginario sociale istituente”, una forma che mette in discussione “i modi sociali esistenti del fare e del rappresentare”.

 

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Decrescita e dintorni

 La decrescita è diventata una parolina intrigante. Sono molti, anche a sinistra, tra gli opinionisti, gli economisti, i politici, che si sentono in dovere di polemizzarci. Si va dallo sfottò: “vita grama” (Guido Viale), all’“orizzonte piatto, senza sviluppo” (Federico Rampini), alla accusa di “cripto-fascismo comunitario” (i marxisti più ortodossi). In un modo o nell’altro l’accusa più velenosa è quella di non fare i conti con la condizione materiale della povera gente, di assecondare il depauperamento delle loro condizioni di vita, qui come nel Sud del mondo. In queste critiche, viceversa, il mondo della decrescita ci vede il persistere di un vecchio vizio del pensiero socialista e comunista: solo il progresso delle capacità produttive ci porterà quell’abbondanza che ci libererà dai bisogni e ci proietterà nel “regno delle libertà e della giustizia”.

La gravità della crisi che attraversa il modello sociale capitalistico liberale, potrebbe aiutare un confronto più ravvicianato. L’agile libro di Serge Latouche e Didie Harpagès (Il tempo della decrescita. Introduzione alla frugalità felice, con prefazione di Marco Aime, Elèutera, 2011) potrebbe costituire una buona base. Bisogna prendere atto che l’età della crescita illimitata, incrementale, esponenziale si è conclusa. Non c’è più farina per allargare la torta, non c’è più marea che sospinga le barche. Bisogna imparare a fare ciò che ci serve con quello che abbiamo. I sette miliardi di individui che compongono la comunità umana devono imparare a lavorare sia sul versante dei desideri, ridefinendoli socialmente e culturalmente, sia sul versate delle risorse, passando da un’idea di natura cornucopia ad una di natura scrigno. Alberto Magnaghi e la Scuola territoriale chiama questa nuova idea di economia eco-sociale “autarchia cosmopolita”. Una volta si chiamava “sviluppo autocentrato”. Il Wuppertal Institute la chiama “economia della sufficienza”, del bastevole (a cura di Wolfang Sachs e Marco Morosini, Futuro sostenibile, Edizioni ambiente, 2011). Gandhi e Kumarappa la chiamavano Swadeschi, autodeterminazione e semplicità volontaria. Potremmo chiamarla in tanti altri modi. L’importante è intraprendere un cambio culturale profondo, all’altezza delle gravità della crisi di civiltà e di perdita di senso della vita cui assistiamo.

La decrescita, allora, con il suo carico di provocazione, può essere molto utile poiché attacca al cuore “il nucleo mitologico della modernità occidentale” e chiama in causa il “tipo umano” individualista, egoista, competitivo assunto come modello antropologico dal neoliberismo (Franco Cassano, L’umiltà del male, Laterza, 2011), obbliga a fare i conti con la materialità delle cose (vedi l’ultimo straorinario lavoro di Giorgio Nebbia, Dizionario tecnico-ecologico delle merci, Jaca Book, 2011), interroga le scienze e le tecnologie sulle loro finalità (Luca Mercalli, Prepariamoci a vivere in un mondo con meno risorse, meno energia, meno abbondanza… e forse più felicità, Chiarelettere, 2011), rovescia le logiche economiche dominanti (vedi Tim Jackson, Prosperità senza crescita. Economia per il pianeta reale, Edizioni Ambiente, 2011), apre a questioni filosofiche ed etiche (vedi, finalmente, un esauriente libro di testo di ecologia politica autrice Tiziana Banini, Il cerchio e la luna. Alle radici della questione ambientale, Arance, 2011), pretende sistemi di governo autenticamente partecipati e democratici (Alberto Lucarelli, Beni comuni, dalla teoria all’azione politica, Dissensi, 2011), cambia il pensiero giuridico in nome della responsabilità, della precauzione e dell’uso condiviso non esclusivo dei beni comuni (vedi Mario Sirimarco, Ecologia e diritto. Ambientalismo ed ecologismo giuridici, in: Il Sabato di Monte Compatri, atti, La filosofia incontra la realtà, Edizioni Nuova Cultura 2010), mobilita individui e soggetti sociali (Ugo Mattei, Beni comuni, un manifesto, Laterza, 2011).

Come si vede un consistente montante di pensiero critico dell’ordine simbolico e fattuale dominante preme alle porte della politica. La decrescita, per il suo essere una semplice indicazione di marcia non ideologica, costituisce già un largo attrattore di interesse e la Conferenza internazionale potrebbe diventare uno spazio pubblico aperto.

 

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Damiano Di Simine (Legambiente) e Hernàn Huarache Mamani (Scrittore, Curandero e Sacerdote Incas)