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 In Italia le cosiddette politiche keynesiane sono state attuate alla grande e in modo prolungato. Non rispettando le dosi suggerite dal medico, hanno fatto dell’Italia un paese economicamente drogato.

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o letto con preoccupazione la corrispondenza  di Federico Rampini su la Repubblica  del 18 agosto, a cominciare  dal titolo: “Parte dal Brasile la rivincita di Keynes”. Non tanto per i contenuti in sé, ma per come può essere interpretato dalle nostre parti. 

 Keynes era un economista e un amministratore saggio e oculato. Le sue teorie davano per scontata  una considerazione molto semplice, anche se poco seguita nei comportamenti politici: in periodi di vacche grasse conviene accumulare, mentre in periodi di vacche magre è insensato comportarsi come lo zio Paperone: conviene mettere mano ai risparmi. In particolare: quando l’economia ristagna, non ha senso perseguire il pareggio dei conti pubblici, o addirittura il surplus.  Conviene “spendere in deficit” (deficit spending), per  ridare fiato alle imprese e alle famiglie in difficoltà e promuovere  la ripresa. Ma è evidente che questo è possibile se prima si è accumulato, se si dispone di risorse eccedenti. Questa era la situazione della crisi del 1929, questa è la situazione attuale dei Bric (Brasile, Russia, India, Cina e dintorni). Che non è affatto la situazione dell’Italia.

Kaynes che era un medico coraggioso ma prudente, suggeriva anche l’uso di due medicine pericolose,  da prendere pertanto in piccole dosi: il fare, nel pieno della crisi, anche  cose inutili, come scavare buche e poi riempirle, per ridurre la disoccupazione e pagare salari con i quali  rilanciare la domanda di beni e favorire così la ripresa; e accettare un po’ di inflazione, capace di “illudere” i produttori  di guadagnare di più (l’illusione monetaria).

Egli  dava anche per scontato che gli investimenti fossero comunque utili, sia pure in misura diversa (secondo la teoria del moltiplicatore), ma   ragionava in termini macroeconomici e di domanda aggregata, quantitativi. Concetti come la  “spending review” erano di là da venire.

 

I controlli centrali necessari ad assicurare la piena occupazione richiederanno naturalmente una vasta estensione delle funzioni tradizionali di governo...  Ma rimarrà ancora largo campo all’esercizio dell’iniziativa e della responsabilità individuale. Entro questo campo, i vantaggi tradizionali dell’individualismo varranno ancora... Io difendo l’allargamento delle funzioni di governo, richiesto dal compito di equilibrare la propensione al consumo e l’incentivo ad investire...come condizione di un funzionamento soddisfacente dell’iniziativa individuale”.

J.M. Keynes, Teoria generale della occupazione, dell’interesse e della moneta, UTET, Torino, 1996, p. 551.

 

 In una sua commedia Eduardo De Filippo, dopo aver avvelenato un cane di nome Masaniello che gli dava fastidio, così commentava le grida di disperazione dei padroni del cane: “Ancora si parla di Masaniello?”.

E’ così anche da noi: ancora si parla di Keynes! Che morto e sepolto, credo si rigiri disperatamente nella tomba per l’uso improprio (a dir poco) che si fa del suo nome.

 Ma  in Italia, le cosiddette politiche keynesiane sono state già attuate, e alla grande, e in modo prolungato! Non rispettando le dosi suggerite dal medico, hanno fatto dell’Italia un paese economicamente drogato, e mantenuto tale per decenni da spacciatori consapevoli, con rari  tentativi di disintossicazione.

Quando è stato drogato? A partire dagli anni settanta, ma con un crescendo inarrestabile negli  anni ottanta. Ricordate la “Milano da bere”, i “nani e ballerine”? 

Funzionava così: si decideva di fare un’opera pubblica, magari inutile, questa costava (e purtroppo ancora costa) tre volte quanto costa in un paese civile, con grande soddisfazione di tutti  gli “stakeholder”: i costruttori privati, che realizzavano  profitti enormi; i politici che li avevano scelti, che incassavano tangenti ingenti; e anche i sindacati, perché tutto ciò “creava lavoro”. Le opere pubbliche, poi, non finivano mai, inaugurarle era un peccato mortale (a ciò si rimediò in seguito, inaugurando un’opera più volte, senza peraltro incidere sul sistema). Risultato: il disavanzo pubblico saltò dal 60% del prodotto (PIL) nel 1980 fino al 124% nel 1994.  In particolare, sotto i governi Craxi (1983-87), aumentò del 20%. Quando la festa finì il Paese era sull’orlo della bancarotta, più o meno come alla fine del governo Berlusconi nel 2011. A salvarlo entrarono in campo, purtroppo per una breve stagione, i castigamatti (Ciampi, Amato, Prodi), con provvidenziali mazzate fiscali su un popolo che se le meritava.  

 

Gli uomini della pratica, i quali si credono affatto liberi da ogni influenza intellettuale, sono spesso gli schiavi di qualche economista defunto. Ci sono folli al potere che odono voci nell’aria, e distillano le loro frenesie da qualche scribacchino accademico di pochi anni addietro...Presto o tardi sono le idee, non gli interessi costituiti, che sono pericolose sia nel bene che nel  male

 J.M. Keynes, Teoria generale della occupazione, dell’interesse e della moneta, UTET, Torino, 1996, p. 554.

 

Oggi, da noi, non c’è Keynes nè keynesismo che tenga. Una sola cosa della lezione di Keynes è sempre valida: una buona (e quindi lungimirante) gestione della cosa pubblica. Che oggi significa una gestione oculata e selettiva sia della spesa corrente che degli investimenti, con un inevitabile e rigoroso vincolo di bilancio. La cosiddetta “spending review” va in quella direzione, ma può avere successo solo nel quadro di una strategia basata più sulla qualità che sulla quantità, più su riforme, spesso senza spese,   che su investimenti indiscriminati.  Il che, al giorno d’oggi, significa soprattutto lotta senza quartiere alla corruzione e a tutto ciò che la favorisce (come  la complicazione dell’apparato burocratico e del sistema giudiziario). E insieme una  riduzione delle disuguaglianze, basata sulla restituzione alle famiglie di un potere d’acquisto adeguato e dignitoso.

Un auspicio finale:  che i Bric, rilanciando gli investimenti, non vengano coinvolti in un keynesismo all’italiana. Cosa essenziale anche dal punto di vista di una crescita globale compatibile. Ma comunque  non facile.

Gli autori di Vorrei
Giacomo Correale Santacroce
Giacomo Correale Santacroce

Laureato in Economia all’Università Bocconi con specializzazione in Scienze dell’Amministrazione Pubblica all’Università di Bologna, ha una lunga esperienza in materia di programmazione e gestione strategica acquisita come dirigente e come consulente presso imprese e amministrazioni pubbliche. È autore di saggi e articoli pubblicati su riviste e giornali economici. Ora in pensione, dedica la sua attività pubblicistica a uno zibaldone di economia, politica ed estetica.

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